Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15508 del 22/06/2017


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Cassazione civile, sez. II, 22/06/2017, (ud. 26/04/2017, dep.22/06/2017),  n. 15508

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9358-2013 proposto da:

IMPRESA EDILE INDIVIDUALE GEOM. F.I., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268A, presso lo studio

dell’avvocato ALESSIO PETRETTI, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato PAOLO BONOMI;

– ricorrente –

contro

A.M.C., T.N., elettivamente domiciliati in

ROMA, V.CARLO POMA 4, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA

PAPINI, rappresentati e difesi dall’avvocato GIAN BATTISTA PINI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 731/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 28/02/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/04/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1. F.I., titolare dell’omonima impresa edile individuale, ha proposto ricorso articolato in cinque motivi avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di MILANO n. 731/2012, depositata il 28/02/2012, che aveva rigettato l’appello del F. contro la sentenza resa dal Tribunale di Monza il 25/02/2009.

Resistono con controricorso T.N. e A.M.C.. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1.

Con citazione del 15/06/2007, F.I. aveva convenuto davanti al Tribunale di Monza i coniugi T.N. e A.M.C., chiedendone la condanna al pagamento dei corrispettivi dei lavori edili eseguiti nell’immobile di via (OMISSIS) (Euro 5.350,00), nell’immobile di via (OMISSIS) (Euro 13.173,98, per il rinforzo dell’argine del torrente Molgora) e nell’immobile di via (OMISSIS) (Euro 39.386,60). Il Tribunale rigettava la domanda per difetto di prova.

2. La Corte d’Appello di Milano, nella sentenza impugnata, escludeva che i convenuti T.N. e A.M.C. avessero ammesso, nella comparsa di risposta o nelle successive difese di primo grado, di aver commissionato le opere svolte nell’immobile di via (OMISSIS), e nell’immobile di via (OMISSIS); sottolineava la necessità della prova dei rapporti contrattuali, e non solo dell’esecuzione del lavori, tanto più per l’immobile di Monza, che non era nemmeno di proprietà dei presunti committenti;

negava che sussistesse tale prova, essendo la documentazione tutta di provenienza dell’appellante, ed essendo inammissibili, perchè generiche, le deduzioni di prove orali. Quanto alla pretesa dell’ I. riguardante l’immobile di via (OMISSIS), veniva ritenuta invece provata l’esecuzione di ingenti lavori di ristrutturazione per incarico di T.N. e A.M.C., dai quali erano derivate controversie definite con transazioni e con una sentenza passata in giudicato, sicchè non era poi possibile stabilire se in questo giudizio venissero azionate richieste di corrispettivo non già coperte da quelle transazioni e sentenze.

3. Il primo motivo di ricorso di F.I. deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 167 e 88 c.p.c. e art. 111 Cost.. Si assume che i convenuti T. e A. non avessero contestato l’esecuzione dei lavori da parte dell’impresa F. nell’edificio di via (OMISSIS) (si cita all’uopo la comparsa di costituzione del 27/01/2007), ma soltanto la loro carenza di legittimazione, per non essere proprietari di appartamenti in quello stabile. Quanto ai lavori nell’immobile di via (OMISSIS), Usurate, relativi al rinforzo dell’argine del torrente Molgora, il ricorrente evidenzia come i convenuti (sempre nella comparsa di costituzione del 27/01/2007) ne avessero ammesso l’esecuzione, pur contestandone le modalità, la qualità e la non avvenuta ultimazione. Il primo motivo insiste quindi nel senso che fosse pacifica l’esecuzione delle opere da parte dell’impresa F..

Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo il ricorrente col suo primo motivo d’appello eccepito la non contestazione del conferimento dell’incarico per l’esecuzione delle opere da parte dei convenuti T. e A., circostanza sulla quale la Corte d’Appello non si è pronunciata.

Il terzo motivo deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2721, 2725, 2727 e 2729 c.c.. Viene criticata la conclusione della Corte di Milano che ha negato la prova dei rapporti contrattuali di appalto dedotti in lite, potendo la stessa ricavarsi anche per presunzioni. Si rammenta dal ricorrente che non vi è norma alcuna che imponga la stipulazione per iscritto del contratto d’appalto.

Il quarto motivo censura l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, quanto alla domanda relativa all’immobile di via (OMISSIS), ed all’impossibilità, ritenuta dalla Corte d’Appello, di stabilire se in questo giudizio venissero azionate pretese che non fossero state definite con una precedente transazione (in particolare, dell’11/01/2002) e con una sentenza passata in giudicato (Tribunale Monza n. 2603/2006). Si assume nel quarto motivo che le opere qui dedotte fossero diverse ed ulteriori, giacchè “oggetto di specifico contratto di appalto”, rispetto a quelle contemplate nel contratto del 07/06/2000 e nella transazione dell’11/01/2002. Vengono all’uopo richiamate alcune considerazioni del CTU.

Il quinto motivo (erroneamente denominato “SESTO MOTIVO”) di ricorso denuncia l’omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. sul motivo d’appello che aveva lamentato l’erroneità della sentenza di primo grado per aver condannato l’Impresa F. all’integrale rifusione delle spese processuali sostenute dai convenuti T. e A., pur essendo stata rigettata la domanda riconvenzionale di questi.

4. I primi quattro motivi di ricorso risultano connessi e possono perciò essere esaminati congiuntamente, rivelandosi infondati.

La Corte d’appello di Milano, nell’esercizio dell’apprezzamento di fatto delle difese e delle risultanze probatorie, che costituisce prerogativa del giudice di merito, ha escluso che i convenuti T.N. e A.M.C. avessero ammesso “di aver commissionato” le opere svolte nell’immobile di via (OMISSIS), e nell’immobile di via (OMISSIS), e non già, dunque, come si sforza di dimostrare il ricorrente (senza perciò riferirsi specificamente alla ratio decidendi), che le stesse fossero state comunque eseguite dall’impresa F.. I giudici dell’appello hanno posto in evidenza come occorresse dar prova dei rapporti contrattuali, e non solo dell’esecuzione del lavori, e ciò vieppiù per l’immobile di Monza, che non era nemmeno di proprietà dei signori T.N. e A.M.C.. Tale prova è stata ritenuta mancante dalla Corte di merito, non rilevando la documentazione offerta, di formazione dello stesso appellante. La sola partita inerente le opere dell’immobile di via (OMISSIS), è stata decisa dalla Corte di Milano considerando come non fosse stata dimostrata l’esistenza di opere, tuttora da compensare, diverse ed ulteriori rispetto a quelle già oggetto di una transazione e di una sentenza passata in giudicato inter partes.

Tutta la motivazione della sentenza impugnata, dunque, verte sull’asserto che non fosse stato dimostrata l’esistenza di appositi contratti d’appalto tra F.I. e i coniugi T.N. e A.M.C., aventi ad oggetto i lavori edili eseguiti nell’immobile di via (OMISSIS), nell’immobile di via (OMISSIS) e nell’immobile di via (OMISSIS), quanto all’ultimo per le sole opere ulteriori rispetto a quelle già definite con la transazione dell’11/01/2002 e giudicate con la sentenza del Tribunale di Monza n. 2603/2006.

La Corte di Milano, così motivando, non dimostra affatto di non sapere che, secondo costante interpretazione, la stipulazione del contratto d’appalto privato non richiede la forma scritta nè ad substantiam, nè ad probationem, potendo lo stesso perciò essere concluso anche per facta concludentia, sicchè, per darne dimostrazione in giudizio, possono assumere rilevanza anche le prove testimoniali o le presunzioni. Ma è altrettanto pacifica l’interpretazione secondo cui l’appaltatore, il quale agisca in giudizio per ottenere il pagamento del corrispettivo, ha l’onere di dar prova dell’esistenza del contratto e del suo specifico contenuto. Ciò F.I. avrebbe dovuto fare dimostrando di aver ricevuto direttamente da T.N. e A.M.C., o per conto di questi, l’incarico per il compimento delle opere edili azionate in questo giudizio.

Quanto all’immobile di Monza, che non era nemmeno di proprietà degli asseriti committenti, una risalente pronuncia di questa Corte chiariva che, ove l’appaltatore, per ottenere il pagamento del corrispettivo dell’esecuzione di lavori in un appartamento, convenga in causa chi assume essere il proprietario dell’appartamento medesimo, e poi, una volta acclarato che l’immobile sia di proprietà di terzi, deduca che le opere sono state effettuate a seguito di personali disposizioni impartite dal convenuto e di intese con costui direttamente concluse, l’accertamento preliminare ed assorbente da compiere è quello se il convenuto abbia effettivamente contratto un’obbligazione diretta e personale con l’attore per i lavori in questione (Cass. Sez. 3, 24/03/1972, n. 915; più di recente, nello stesso senso, Cass. Sez. 2, 30/01/2017, n. 2303, non massimata).

Nè sono decisive a dimostrare l’obbligo contrattuale di pagamento in capo ai controricorrenti le “non contestazioni” che il ricorrente desume dalle frasi della comparsa di costituzione del 27/11/2007 (negli stralci riportati in ricorso, alla stregua dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) non essendo oggetto di lite l’effettiva esecuzione dei contratti di appalto, quanto la qualità di committenti di essi rivestita da T.N. e A.M.C..

D’altro canto, il principio di non contestazione, con conseguente “relevatio” dell’avversario dall’onere probatorio, postula che la parte che lo invoca abbia per prima ottemperato all’onere processuale a suo carico di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte è tenuta a prendere posizione (cfr. Cass. Sez. 3, 17/02/2016, n. 3023), laddove non risulta che F.I. avesse allegato, nell’ambito degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto della sua domanda, quali fossero state le precise modalità e le forme con cui i coniugi T. e A. gli avevano affidato i lavori.

E’ palese l’infondatezza della denuncia di violazione dell’art. 112 c.p.c. contenuta nel secondo motivo di ricorso, avendo la Corte di Milano espressamente pronunciato (primi righi di pagina 4 di sentenza) nel senso di negare che i convenuti avessero ammesso il conferimento dell’incarico per le opere di via (OMISSIS). Sicchè il ricorrente non può dolersi, in proposito, di un difetto di attività del giudice, quanto, semmai, di come lo stesso giudice abbia deciso sulla sua domanda, ovvero non dell’omessa pronuncia del giudice, quanto di come egli si sia pronunciato, il che esula chiaramente dal vizio di violazione dell’art. 112, c.p.c..

Il ricorrente lamenta poi al terzo motivo che la Corte d’Appello di Milano avrebbe potuto ricavare presuntivamente l’obbligo contrattuale assunto dai signori T. e A., ma così trascura che spetta pur sempre al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e verificarne la corrispondenza alle fattispecie astratte di legge.

Nè la censura per vizio di motivazione di cui al quarto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, pure nella formulazione antecedente alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012 (formulazione qui operante ratione temporis), può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, il che certamente non è sostenibile con riferimento all’impugnata sentenza. La deduzione di un vizio di motivazione con ricorso per cassazione non conferisce, infatti, al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio (nella specie, come vorrebbe il ricorrente, per reinterpretare il materiale probatorio e stabilire quali opere fossero già state “coperte” dalle pregresse transazione e sentenza, e quali invece no), rimettendogli unicamente la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Il ricorrente, per contro, intende inammissibilmente sollecitare la Corte di legittimità a ricavare dagli elementi istruttori una ricostruzione dei fatti diversa da quella adottata dal giudice del merito.

V. Anche il quinto motivo va rigettato. Viene dal ricorrente denunciata l’omessa pronuncia sul motivo d’appello che aveva lamentato l’erroneità della condanna alle spese contenuta nella sentenza di primo grado, giacchè il Tribunale aveva condannato l’Impresa F. all’integrale rifusione delle spese processuali sostenute dai convenuti T. e A., nonostante fosse stata rigettata la domanda riconvenzionale di questi. Alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., comma 4, questa Corte può decidere sul punto nel merito, in quanto la questione di diritto posta con il suddetto motivo d’appello risulta infondata, senza che occorrano accertamenti in fatto. Rientra, invero, nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare o meno, in tutto o in parte, le spese di lite nell’ipotesi di soccombenza reciproca (quale, appunto, quella che si determina nell’ipotesi di contemporaneo rigetto della domanda principale e della domanda riconvenzionale) ed il giudice d’appello, ove sia stata sollevata doglianza nell’atto d’impugnazione in merito alla stessa mancata compensazione, se per il resto confermi la sentenza impugnata, può modificare detta decisione solo se emerga che le spese siano state poste a carico della parte totalmente vittoriosa.

Conseguono il rigetto del ricorso e la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di cassazione in favore dei controricorrenti nell’ammontare liquidato in dispositivo.

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dai controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 5.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 26 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2017

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