Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15508 del 14/07/2011

Cassazione civile sez. II, 14/07/2011, (ud. 14/04/2011, dep. 14/07/2011), n.15508

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GOLDONI Umberto – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.M.G., rappresentato e difeso in forza di procura

speciale in calce al ricorso, dagli Avv.ti Decimo Lucia e Gianfranco

Putaturo del foro di Torino e dall’Avv.to Antonina Anzaidi del foro

di Roma ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultima

in Roma, via Caposile, n. 2;

– ricorrente –

contro

I.N., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Miano Francesco

e Carolina De Pasquale Miano del foro di Torino, in virtù di procura

speciale apposta a margine del controricorso ed elettivamente

domiciliato presso lo studio dell’Avv.to Rocco Bianco in Roma, via

Giolitti, n. 208;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino n. 697/2004

depositata il 3 maggio 2004.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 14

aprile 2011 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito l’Avv.to Antonina Anzaldi di parte ricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 5 ottobre 1989 I.N. evocava, dinanzi al Tribunale di Torino, D.M.G. per sentirlo condannare al pagamento della complessiva somma di L. 33.500.398, così ripartita: a) quanto a L. 17.897.600 per lavori edili compiuti in vari cantieri (giusta fattura n. (OMISSIS)); b) quanto a L. 4.830.000 per quota interessi di mutuo contratto congiuntamente dall’attore e dal convenuto; c) quanto a L. 10.170.398 per ratei di ammortamento di contratto di leasing avente ad oggetto autovettura, inizialmente stipulato dallo I. e poi volturato al D.M.; d) quanto a L. 3.500.398 per spese di locazione, telefono e riscaldamento derivanti dalla circostanza di avere il D. M. in precedenza avuto i propri uffici presso i locali dell’attore.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del convenuto, il quale deduceva di avere più volte incrociato la propria attività con quella dell’attore, scambiando con lui la mano d’opera secondo le necessità, ma di avere regolato ogni rapporto di dare ed avere nel 1987, allorchè era emerso a suo credito la somma di L. 29.500.000 (giusta fattura n. (OMISSIS) emessa relativamente a lavori eseguiti in favore dello I. presso gli alloggi dello IACP), oltre ad avere realizzato per conto dell’attore altri lavori di cui alla fattura n. (OMISSIS) per L. 29.512.000, negando di dovere alcunchè per mutuo ovvero locazione, mentre per il contratto di leasing era stato tutto corrisposto, perciò spiegava domanda riconvenzionale per L. 64.410.500, di cui L. 5.398.500 relative ad assegno bancario a lui girato dallo stesso attore per avergli anticipato detta somma, il Tribunale adito, all’esito dell’istruzione della causa, accoglieva parzialmente entrambe le domande ed operata la compensazione fra le rispettive ragioni di credito, condannava lo I. a corrispondere al D.M. la somma di Euro 8.548,86, oltre ad interessi, regolando le spese legali in danno dell’attore.

In virtù di rituale appello interposto dallo I., con il quale lamentava la contraddittorietà della decisione del giudice di prime cure quanto alla voce di cui alla fattura n. (OMISSIS), anche in relazione alla fattura n. (OMISSIS), nonchè ai lavori richiesti al punto 1) della citazione e agli interessi per mutuo, oltre al rimborso dell’importo indicato nell’assegno di cui alla riconvenzionale spiegata, la Corte di Appello di Torino, nella resistenza dell’appellato, accoglieva parzialmente l’appello e in riforma della sentenza impugnata, condannava il D.M. al pagamento in favore dello I. della somma di Euro 9.243,33 (pari a L. 17.897.600), oltre accessori, rigettando la domanda dell’appellante diretta al pagamento di L. 9.600.000 a titolo di rimborso degli interessi del contratto di mutuo, oltre a rigettare le riconvenzionali proposte per il pagamento della fattura n. (OMISSIS) e della somma di cui all’assegno tratto dallo I. sul c/c n. (OMISSIS), condannando parte appellata alla rifusione dei costi di entrambi i gradi di giudizio.

A sostegno dell’adottata sentenza, la corte territoriale evidenziava che effettivamente dalle dichiarazioni rese dallo stesso D.M. in comparsa di risposta e in sede di interrogatorio libero e formale avevano confermato la reciproca collaborazione, che nasceva dal fatto che la coop. CARDEA a r.l. affidava loro, per lo più congiuntamente, i lavori che le varie stazioni appaltanti le commissionavano e provvedeva, poi, al pagamento dietro emissione della fattura. Dalle prove testimoniali era, inoltre, risultata la prova dell’esecuzione delle opere indicate dallo I. al punto 1) della citazione, mentre circa la somma portata nella fattura n. (OMISSIS), doveva ritenersi che si fosse formato il giudicato interno, stante la reiezione della riconvenzionale sul punto.

Aggiungeva, altresì, essere infondata la richiesta di rimborso degli interessi pagati al mutuante e non doveva trovare accoglimento neanche la riconvenzionale relativa alla fattura n. (OMISSIS) per assenza di prova circa la sussistenza del rapporto causale, trattandosi peraltro di documento non trascritto nè nella contabilità dell’appellante nè in quella dell’appellato, avendo le dichiarazioni testimoniali dimostrato l’inaffidabilità della fatturazione riferita ai lavori presso i cantieri dello IACP. Infine quanto alla somma portata dall’assegno bancario, osservava la Corte di merito che, trattandosi di titolo privo sia del luogo sia della data di emissione, doveva essere proposta dal D.M. azione di natura causale e nella specie non risultava provata l’ipotesi di surrogazione per volontà del debitore o legale.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione il D.M., che risulta articolato su tre motivi, al quale ha resistito lo I. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1697 c.c., art. 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 342 c.p.c., con riferimento all’ari. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della contraversia ex art. 360 c.p.c., n. 5. La Corte di merito ha ritenuto non spettare al D.M. la somma di L. 29.512.000 portata dalla fattura n. (OMISSIS) sulla base di un’argomentazione illogica: ha ritenuto dovuto allo I. l’importo di L. 17.897.600 (per i lavori di cui al punto 1 della citazione) fondandosi sulla dichiarazione del D.M. dalla quale ha ricavato logicamente che le parti regolavano fra di loro i rapporti interni derivanti dai contratti di subappalto assunti in via congiunta, ragione per cui, essendo provato che lo I. aveva eseguito i lavori di cui al punto 1) dell’atto introduttivo; di converso, essendo coperto da giudicato interno il credito vantato dal D.M. con la fattura n. (OMISSIS) per non essere stata la decisione di rigetto della riconvenzionale impugnata sul punto, veniva meno la potenziale efficacia estintiva del controcredito cui conseguiva l’accoglimento della domanda formulata dall’appellante. La decisione, pertanto, sarebbe da ritenere illogica per non avrebbe tenuto conto che i lavori avevano un contenuto ben più ampio di quello non dedotto in giudizio.

Afferma, altresì, che le dichiarazioni rese dal ricorrente al riguardo avrebbero il valore di cui alìart. 2734 c.c.. Rileva, infine, che la decisione sul punto del giudice di prime cure non sarebbe stata impugnata in modo specifico (art. 342 c.p.c.).

La lettura de motivo evidenzia come l’esposizione con cui vengono illustrate le censure indichi questioni che nel loro complesso investono l’interpretazione data dal giudice distrettuale alle risultanze probatorie e delle quali, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, ha dato ampio conto su tutte ie prove raccolte, contenendo il ricorso una specifica attività assertiva diretta a sottolineare gli errori denunciati in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nella ricostruzione della quaestio facti, rilevante, soprattutto, sotto il profilo dei vizio di motivazione, oltre che della violazione di legge.

Ciò precisato, va subito richiamato il costante indirizzo di questa Corte secondo cui fa deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Ne consegue che i previsti vizi di violazione di legge e di motivazione, quest’ultimo sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, possono legittimamente dirsi sussistenti solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando sussiste insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (cfr. ex plurimis: Cass. 22 maggio 2001 n. 6975; Cass. 16 novembre 2000 n. 14858; Cass., Sez. Un., 27 dicembre 1997 n. 13045).

Orbene, nella fattispecie in esame il giudice del gravame, nel pervenire sui punti in esame alle sue conclusioni, ha dato un giudizio scaturente da una corretta vantazione di dati fattuali emergenti dalle risultanze istruttorie ed ha supportato dette conclusioni con una motivazione adeguata, priva di salti logici e del tutto corretta su piano giuridico, sicchè le sue statuizioni non sono suscettibili di alcuna censura in questa sede di legittimità.

In particolare la sentenza impugnata ha fatto, contrariamente a quanto assunto da parte ricorrente, puntuale applicazione di ineccepibili principi giuridici laddove ha ritenuto che data l’ammissione dello stesso ricorrente circa l’esecuzione delle opere indicate al punto 1) dell’atto di citazione dalla controparte, risultava non contestato il pieno riconoscimento dei lavori il cui costo è stato dedotto dal resistente a sostegno della sua pretesa creditoria. Detta risultanza probatoria non può certo ritenersi contraddetta dall’affermazione del D.M. di essere a sua volta creditore della somma portata nella fattura n. (OMISSIS) (emessa per L. 29.500.000), trattandosi di asserzione non supportata neanche dalla indicazione di puntuali voci di dare ed avere a sostegno di un preteso resoconto nei termini esposti dallo stesso ricorrente. Ne consegue che non sussiste alcun contrasto logico – giuridico fra quanto riconosciuto dal giudice del gravame e le contrapposte dichiarazioni delle parti, non avendo, peraltro, il D.M. impugnato la decisione del giudice di prime cure sul punto relativo al riconoscimento del controcredito vantato nei confronti dello I., con ciò avvalorando le argomentazioni svolte dal giudice distrettuale.

Si deve aggiungere che nel riconoscere la parziale fondatezza di tutte le pretese fatte valere in giudizio, i giudici di merito hanno compiuto un accertamento dei fatti di causa, risolvendo, anche sotto il profilo giuridico, la questione costituente la premessa delle suddette pretese. Come, infatti, è stato esposto in narrativa, il giudice di appello, appurato che le parti avevano “più volte incrociato la propria attività, scambiando (…) la mano d’opera secondo le necessità”, ha affermato che i crediti indicati al punto 1) della citazione dovevano essere considerati relativi a lavori eseguiti dall’attore (dei quali, quindi, è stato riconosciuto l’adempimento) alla luce delle ammissioni dello stesso creditore.

Ciò posto, in linea di diritto, come anche si deve desumere da alcune pronuncie emesse da questa Corte in casi particolari (cfr.

Cass. 13.2.1993 n. 1811), deve essere ribadito il principio generale secondo cui, emessa sentenza contenente più capi relativi a diverse voci di credito, il giudicato (interno), formatosi su alcuni capi per mancata impugnazione dei medesimi, comprende non solo il decisum, ma anche la ratio decidendi, perchè riguarda tutte le premesse in fatto e in diritto poste a fondamento della pronuncia, con la conseguenza che, divenuto incontestabile l’accertamento di tali premesse, lo stesso non può più essere rimesso in discussione con l’impugnazione degli altri capi della decisione, essendo al riguardo ogni questione preclusa.

Nella specie, la doglianza formulata nel ricorso per cassazione investe esclusivamente il capo di condanna al pagamento della somma indicata complessivamente nel punto 1) dell’atto introduttivo e non anche il capo relativo all’accertamento del credito vantato dal convenuto – ricorrente relativamente alla fattura n. (OMISSIS), con la conseguenza che su questo ultimo si è formato il giudicato interno.

Tale giudicato deriva dall’acquiescenza dei ricorrente che riguarda, in applicazione del principio sopra enunciato, il decisum e la ratio decidendi posta a fondamento di detta voce di credito. Si deve, quindi, ritenere che il suddetto giudicato rende ora incontestabile tale l’accertamento che costituisce il necessario presupposto per la determinazione della voce di credito qui nuovamente pretesa da ricorrente.

Come bene deduce il controricorrente, per conseguenza, ogni questione relativa a tali crediti, in quanto fondata sulle stesse ragioni in precedenza decise e non impugnate, deve ormai considerarsi preclusa.

Il motivo va, quindi, integralmente disatteso.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1988, 2697 c.c. e art. 116, art. 132 c.p.c., n. 4, anche per omessa ed insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), giacchè la corte torinese, pur riconoscendo efficacia alla ricognizione di debito dello I., a fronte della quale è stata emessa la fattura n. (OMISSIS), ha ritenuto che lo I. avesse fornito la prova della inesistenza del rapporto sottostante, di cui era gravato ai sensi dell’art. 1988 c.c..

Anche detta censura involge considerazioni circa la valutazione delle risultanze probatorie da parte del giudice del merito, pur denunziando la diversa questione dell’attendibilità e dell’affidabilità della teste escussa, sig.ra P., la cui deposizione è stata posta a fondamento del convincimento del giudice per ritenere non provato il credito relativo alla fattura n. (OMISSIS).

Si tratta, a pari dei precedenti, di accertamento che costituisce tipica valutazione di merito che non è sindacabile in sede di legittimità nei limiti di una adeguata motivazione (v. Cass. 16 ottobre 1969 n. 3384). Orbene nella specie il giudice distrettuale ha congruamente argomentato il proprio convincimento, non solo sulla base della deposizione richiamata e contestata dal ricorrente, ma anche alla luce della mancata giustificazione da parte del giudice di prime cure del diverso principio applicato con riferimento alla domanda creditoria del resistente basata sulla ulteriore fattura n. (OMISSIS), che pur presentava la stessa peculiarità della prova contraria di cui all’art. 1988 c.c..

Inoltre, il motivo difetta dell’autosufficienza non avendo chiarito parte ricorrente in quale modo sarebbe contraddittorio l’iter argomentativo della decisione del giudice di merito in riferimento alle risultanze della deposizione.

Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

Con il terzo ed ultimo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1211 e 2697 c.c., nonchè dell’art. 116, art. 132 c.p.c., n. 4, con riferimento all’art. 342 c.p.c., n. 3, oltre all’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in quanto la corte torinese ha riconosciuto eseguito dal D.M. il pagamento dell’assegno di L. 5.398.500 rilasciato dallo I. al V., ma avrebbe argomentato in maniera eccessivamente formalistica sulla valenza del titolo di credito.

Costituisce principio consolidato di questa corte che i titoli di credito possono essere utilizzati come promessa di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 c.c., per cui si presume l’esistenza del rapporto fondamentale sino a prova contraria da parte del debitore cartolare soltanto se risulta acquisita la prova del suo diretto rapporto cartolare con il creditore (v. Cass. 22.5.2008 n. 13099). E’ chiaro che l’utilizzo del titolo di credito quale promessa di pagamento, implica l’esercizio di un’azione causale, fondata sul rapporto sottostante all’emissione o alla trasmissione del titolo, rapporto che però è efficace solo tra le parti dello stesso, per cui il possessore del titolo può esercitare una tale azione solo nei confronti del proprio diretto promittente (v. Cass. 7.12.1999 n. 13663; Cass. 25.1.2001 n. 1058). Ne consegue che in considerazione della natura recettizia della promessa, l’assegno riveste tale natura certamente nei rapporti tra traente e prenditore o fra girante ed immediato giratario (v. Cass. 8.2.2006 n. 2816), ma non pure nei confronti di colui che si atteggi quale mero possessore del titolo, giacchè – mancando in esso l’indicazione del soggetto al quale è fatta la promessa – non vi è ragione di attribuire il beneficio dell’inversione dell’onere della prova (in tal senso, v. Cass. 29.3.2006 n. 7262).

Nella specie l’assegno di cui si discute risulta, per stessa ammissione del ricorrente, girato da un terzo, per cui in assenza di una relazione diretta fra le parti in causa che si fondi su detto titolo di credito, la sola girata dell’assegno non accompagnata da alcuna dichiarazione confessori non può essere parificabile, quanto a prova liberatoria, agli effetti di cui all’art. 1988 c.c..

In conclusione il ricorso va respinto alla stregua delle precedenti considerazioni.

Al rigetto del ricorso consegue, come per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2011

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