Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15504 del 14/07/2011

Cassazione civile sez. II, 14/07/2011, (ud. 15/03/2011, dep. 14/07/2011), n.15504

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.R., residente in (OMISSIS), rappresentato e difeso

per procura in calce al ricorso dagli Avvocati MINUTILLO TURTUR

ROBERTO e Andrea Trinchera, elettivamente domiciliato presso lo

studio del primo in Roma, via Maria Adelaide n. 8;

– ricorrente –

contro

Cr.Li. e Ca.Al., residenti in

(OMISSIS), rappresentati e difesi per procura in calce al

controricorso

dagli Avvocati GALDINI GIOVANNI e Franco Boffa, elettivamente

domiciliati presso lo studio del secondo in Roma, via G. Morpurgo n.

31;

– controricorrenti – ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 677 della Corte di appello di Torino,

depositata il 28 aprile 2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15

marzo 2011 dal consigliere relatore Dott. Mario Bertuzzi;

udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott.ssa CARESTIA Antonietta, che ha chiesto l’accoglimento

del quarto motivo del ricorso principale limitatamente alla seconda

parte ed il rigetto di quello incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Cr.Li. e Ca.Al. proposero opposizione dinanzi al tribunale di Torino al decreto ingiuntivo che intimava loro, unitamente ad altri, il pagamento della somma di lire 87.496.415 in favore di C.R., commercialista, a titolo di pagamento del saldo delle prestazioni professionali da questi svolte con riferimento alla attività ed alla situazione patrimoniale della s.p.a. So. Fin. Piemonte in vista della eventuale cessione del pacchetto azionario detenuto dalla Cr., assumendo gli opponenti che la controparte aveva erroneamente determinato il compenso dovutogli facendo applicazione della tariffa professionale mentre con la scrittura privata del 19 marzo 1993, coeva a quella di conferimento dell’incarico, le parti avevano convenuto che esso fosse calcolato in misura proporzionale al prezzo di vendita delle azioni e che, essendo esse state cedute ad un importo inferiore a quello sperato, la pretesa della controparte doveva essere conseguentemente ridotta. Costituitosi in giudizio, il convenuto si oppose alla domanda, assumendo che, poichè i mandanti avevano perfezionato la cessione delle azioni senza la sua assistenza, revocandogli implicitamente l’incarico, la determinazione delle sue spettanze non poteva avvenire in forza della clausola che le legava proporzionalmente al prezzo di realizzo, bensì in ragione della diversa previsione contrattuale secondo cui, in caso di mancata vendita, il suo onorario doveva essere determinato sulla base delle spese e prestazioni effettivamente svolte, vale a dire in forza della tariffa professionale.

Il giudice di primo grado rigettò l’opposizione, ma la relativa pronuncia venne riformata dalla Corte di appello di Torino che, con sentenza n. 677 del 28 aprile 2004, ridusse il credito del professionista alla minor somma di lire 59.108.000, condannando gli opponenti, detratti gli acconti versati e tenuto conto della ripartizione del debito con gli altri committenti, al pagamento della somma di Euro 14.234,92, oltre accessori e spese legali. A sostegno di questa decisione, per quanto qui ancora interessa, la Corte territoriale argomentò che, in forza della scrittura privata del 19 marzo 1993 sottoscritta dalle parti, il compenso del professionista doveva essere determinato in misura proporzionale al prezzo di realizzo delle azioni, che, poichè esse erano state pacificamente cedute, non poteva operare il diverso criterio fondato sulla tariffa professionale, che era stato previsto dalle parti solo nel caso residuale in cui le azioni non fossero state vendute, e che, infine, l’obbligazione in discorso, per espressa previsione contrattuale, andava ripartita tra i committenti in proporzione al numero delle azioni da essi possedute.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 9 giugno 2005, ricorre C.R., affidandosi a quattro motivi, illustrati da successiva memoria.

Cr.Li. e Ca.Al. resistono con controricorso e propongono a loro volta ricorso incidentale, sulla base di due motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima sentenza. Va quindi esaminato per primo il secondo motivo del ricorso principale proposto dal C., che investe il tema, logicamente prioritario, della scelta del criterio convenuto dalle parti per la determinazione del compenso del professionista, posto che esse avevano previsto sia quello proporzionale in relazione al prezzo di cessione delle azioni che, in alternativa, quello fondato sulla tariffa professionale in relazione all’attività effettivamente svolta. Con questo motivo il ricorso lamenta vizio di motivazione e violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1366 e 1370 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’operatività della clausola contrattuale che prevedeva l’applicazione del criterio legale di remunerazione fondato sull’attività effettivamente espletata dal professionista. La premessa della Corte di appello, secondo cui i due criteri di determinazione del compenso stabiliti dalle parti fossero graduati, nel senso che il criterio legale potesse operare soltanto laddove non era possibile l’applicazione di quello convenzionale, appare infatti incongrua e comunque non sufficientemente motivata, considerato che l’applicazione di quest’ultimo criterio avrebbe potuto ridurre fortemente e quasi azzerare il compenso, nel caso in cui, ad esempio, le azioni fossero state vendute ad un prezzo irrisorio o comunque di molto inferiore al loro valore effettivo. In realtà, i due criteri stabiliti dalle parti si distinguevano, sotto tale profilo, solo per la diversità del presupposto in presenza del quale erano destinati ad operare, il criterio convenzionale essendo applicabile nel caso di vendita di azioni, quello a tariffa nel caso di mancata vendita delle azioni. La Corte di appello non ha però considerato che quest’ultima evenienza era stata presa in esame dalle parti in forza del presupposto che tale cessione avvenisse a seguito dell’attività del professionista, che era stato incaricato proprio di condurre le trattative per la vendita. Poichè tale fatto non si era verificato, dal momento che l’atto di cessione delle azioni venne concluso dai committenti in proprio, senza l’ausilio ed anzi all’insaputa del professionista, avrebbe dovuto trovare applicazione la clausola contrattuale che prevedeva la determinazione dell’onorario in relazione all’attività effettivamente prestata sulla base della tariffa professionale. La condizione della mancata vendita delle azioni, cui era condizionata l’operatività della clausola, doveva pertanto considerarsi verificata non solo nel caso in cui le azioni non fossero state vendute, ma anche nell’ipotesi in cui tale vendita fosse avvenuta indipendentemente dall’attività del professionista.

Diversamente ragionando verrebbero infatti ad essere imputati a quest’ultimo i risultati di una trattativa condotta da altri. Si assume, inoltre, che la Corte torinese ha sbagliato, incorrendo altresì in un difetto di motivazione, laddove ha attribuito valore meramente oggettivo alla previsione delle parti che faceva riferimento al criterio legale ” qualora non si addivenisse ad alcuna cessione..”.

Il mezzo non può essere accolto.

L’interpretazione del contratto patrocinata dal ricorrente, in favore di una sostanziale equivalenza tra la mancata vendita delle azioni e la situazione in cui esse fossero state vendute senza l’assistenza del professionista, a prescindere dal giudizio sulla sua validità e fondatezza, non appare cogliere nel segno ed evidenziare un errore nel procedimento interpretativo del negozio fatto proprio dal giudice territoriale in grado di portare alla cassazione della decisione impugnata. Convince di ciò la considerazione che la tesi del ricorrente non appare suffragata dalla dimostrazione o comunque dall’allegazione di fatti e circostanze tali da evidenziare l’insussistenza di qualsiasi rapporto tra l’attività del commercialista ed il risultato rappresentato dalla vendita delle azioni, che, vale a dire, l’accordo del 1 marzo 1996 di cessione delle azioni era stato stipulato dai soci committenti prescindendo del tutto dall’attività del professionista, sì da non poterlo in alcun modo ricondurre ai suoi interventi, non bastando a tale scopo la semplice circostanza, pure acclarata, che egli negli ultimi giorni della trattativa fosse stato estromesso e non ebbe modo di partecipare alla redazione della transazione. Solo la prova della assoluta e totale non ascrivibilità all’attività del commercialista del risultato cui il suo incarico era pacificamente preordinato potrebbe infatti portare, nella prospettazione fatta propria dal ricorrente, ad equiparare la vendita delle azioni perfezionata in sua assenza alla mancata vendita delle stesse. Ma tale prova non è stata fornita, risultando anzi dallo stesso contenuto del ricorso che il C. pose in essere una serie di iniziative e di attività, protrattesi per quasi tre anni, proprio al fine di ottenere la vendita delle azioni al miglior prezzo e che egli fu estromesso soltanto nella fase finale della trattativa in cui fu stipulato l’accordo di cessione, il che fa evidentemente supporre che tale attività abbia comunque concorso al risultato dedotto in contratto, vale a dire la cessione delle azioni da parte dei soci di minoranza, tenuto altresì conto che le azioni furono comunque vendute ad un prezzo superiore, anche se non nella misura sperata, a quello di lire 2.000 cadauna offerto prima dell’intervento del C..

In tale rilievo rimangono assorbite le censure di violazione delle norme interpretative del contratto sollevate dal ricorso che, in disparte da ogni valutazione circa la loro fondatezza e plausibilità, non appaiono comunque in grado di inficiare la conclusione finale accolta dalla Corte torinese, laddove essa ha ritenuto applicabile nel caso di specie la clausola che legava il compenso del professionista al prezzo di vendita delle azioni. Il secondo motivo del ricorso principale va pertanto respinto. Vanno quindi esaminati congiuntamente, in quanto investono lo stesso capo della decisione, il primo motivo del ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale.

Con il primo motivo il C. denunzia insufficiente ed omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, rappresentato dalla individuazione ed applicazione dei criteri che le parti avevano stabilito nella scrittura privata del 19 marzo 1993 per la determinazione della misura del compenso al professionista, e violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1366 e 1370 c.c..

Premesso che tale pattuizione prevedeva che il compenso fosse calcolato proporzionalmente al prezzo di realizzo delle azioni, indicando a tal fine un prezzo tra lire 2.500 a oltre lire 5.000 ad azione, il ricorrente in via principale assume che la decisione impugnata, che ha applicato tale criterio proporzionale, è incorsa nel vizio di motivazione in quanto non ha minimamente affrontato il quesito se questo criterio fosse applicabile anche nel caso, come in concreto avvenuto, in cui le azioni fossero state vendute ad un prezzo inferiore a quello di lire 2.500 preso in considerazione dalle parti, prezzo nella specie pari a lire 2.111, come la stessa sentenza ha accertato. Nè a sostegno della conclusione accolta dal giudice territoriale può invocarsi, aggiunge il ricorso, la previsione contrattuale secondo cui “eventuali importi in diminuzione o in aumento tra le diverse fasce di valore sopra ipotizzate comporteranno una variazione proporzionale dell’onorario liquidato e pagato al professionista”, dal momento che essa circoscriveva questo adeguamento alle oscillazioni comprese tra le fasce di prezzo ipotizzate, laddove nel concreto il prezzo di realizzo si pone al di fuori di tali fasce.

Il mezzo denunzia altresì violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1366 e 1370 c.c., assumendo che l’interpretazione della scrittura privata del 19 marzo 1993 accolta dalla Corte territoriale non ha esattamente ricostruito la comune intenzione delle parti, trascurando di considerare che l’applicazione automatica ed indiscriminata, cioè al di fuori dell’oscillazione espressamente prevista dai contraenti, del criterio di determinazione del compenso del professionista sulla base del prezzo di realizzo delle azioni avrebbe potuto condurre al risultato di rendere irrisorio o addirittura azzerare il suo onorario, lasciandolo in balia delle scelte unilaterali della controparte, e, pertanto, non sarebbe mai stato accettato, in questi termini, dal ricorrente. L’interpretazione fatta propria dal giudice di appello appare discostarsi, per questi motivi, anche dal canone ermeneutico della buona fede. Il ricorso critica altresì l’applicazione da parte della pronuncia impugnata del criterio sussidiario stabilito dall’art. 1370 c.c., assumendo che esso è utilizzabile non in ogni caso di predisposizione unilaterale della relativa clausola contrattuale, ma soltanto laddove essa risulti inserita in condizioni generali di contratto o in moduli o formulari. Una lettura complessiva delle clausole negoziali avrebbe invece dovuto portare a ritenere che, quanto meno e salvo quanto dedotto nel secondo motivo, le parti avevano voluto riconoscere al professionista un compenso minimo di lire 70.000.000, corrispondente al valore minimo di lire 2.500 da essi assegnato a ciascuna azione, rinviando l’operatività del criterio proporzionale alle ipotesi di realizzo di un prezzo di vendita superiore.

Il primo motivo del ricorso incidentale, che denunzia vizio di motivazione, lamenta che la Corte di appello, nell’interpretare il contratto, non abbia tenuto conto di tutte le circostanze del caso e, in particolare, del fatto che gli odierni controricorrenti si erano rivolti al C. in quanto, dopo avere ricevuto un’offerta di acquisto di lire 2.000 per azione, questi li aveva convinti di poter ottenere il maggior prezzo di lire 3.500, con la conseguenza che laddove in contratto viene pattuito per il professionista un onorario di 70.000.000 nel caso di vendita delle azioni a lire 2.500 cadauna, tale compenso in realtà è calcolato sul plusvalore di lire 500 rispetto all’offerta originaria. Ne deriva che, essendo state poi le azioni vendute al prezzo di lire 2.111, al C. spettava un compenso che, in relazione alla somma prevista di lire 70.000.000, avrebbe dovuto essere ridotto in misura proporzionale rispetto al minor plusvalore ottenuto, pari soltanto a lire 111 per azione, cioè in concreto un compenso di lire 15.540.000, corrispondente al 22,2% della remunerazione pattuita.

I due motivi vanno entrambi respinti.

Va premesso al riguardo che, com’è noto, l’interpretazione dell’atto negoziale è accertamento di fatto demandato, come tale, in via esclusiva al giudice di merito e censurabile in cassazione soltanto sotto il profilo della violazione delle regole ermeneutiche e dell’obbligo di motivazione. In particolare, la denunzia della violazione delle regole in materia di ermeneutica contrattuale richiede la specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati e del modo attraverso cui si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione esige la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito, con la precisazione che, per sottrarsi a censura, quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (Cass., 22. 5. 2006, n.10131; Cass., 17.7.2003, n. 11193). Tanto precisato, i denunziati vizi di motivazione sono inammissibili e comunque infondati.

L’inammissibilità consegue al rilievo che le censure che lamentano l’omesso esame da parte del giudice di merito delle opposte argomentazioni delle parti in merito all’interpretazione della clausola contrattuale che stabiliva il compenso dei professionista sulla base del prezzo di vendita delle azioni non appaiono sostenute dalla necessaria allegazione che tali argomenti erano stati effettivamente avanzati in grado di appello, nè ne riproducono il contenuto, in omaggio al principio di autosufficienza dei ricorso per cassazione. In ogni caso le doglianze sono infondate in quanto, avendo il giudice territoriale adottato un’interpretazione dell’atto incompatibile con le soluzioni prospettate dalle parti, queste non solo devono ritenersi implicitamente rigettate ma trovano le ragioni della loro reiezione nei motivi con cui il giudicante ha giustificato la conclusione accolta. Il denunziati vizi di motivazione, pertanto, non sussistono.

Parimenti infondata è la censura di violazione di legge sollevata dal ricorso principale.

Giova al riguardo premettere che la parte non riproduce direttamente il contenuto della scrittura privata del 19 marzo 1993, ma si imita a trascrivere (pag. 22 del ricorso), in sede di esposizione del fatto, la parte della sentenza impugnata che richiama il contenuto di tale atto. A tale esposizione occorre pertanto fare riferimento al fine di scrutinare il motivo, non avendo questa Corte, attesa la natura non processuale del motivo, accesso diretto agli atti. Ciò posto, la doglianza è infondata in quanto l’interpretazione fatta propria dalla Corte di appello, secondo cui con tale atto i contraenti avevano stabilito di legare la misura del compenso del professionista al prezzo di vendita delle azioni possedute dai committenti, trova preciso riscontro nel testo contrattuale. Come precisato dal giudice di merito, con la suddetta scrittura privata infatti le parti “convennero di remunerare dette prestazioni professionali svolte dal dott. C.R. in proporzione al numero di azioni possedute nella società SO. FIN. PIEMONTE s.p.a. e in funzione del valore di realizzo conseguito in sede di cessione stabilendo le parti una scala di valori di realizzo per azione correlata al compenso per il commercialista (esempio: valore di realizzo L. 2.500, valore complessivo delle azioni L. 3.480.007.500, onorario concordato L. 70.000.000; L3.000 per azione, L. 4.176.009.000 di valore complessivo, compenso L. 1215.000.000 9 ed aggiungendo eventuali importi in diminuzione od in aumento tra le diverse fasce del valore sopra ipotizzate, comporteranno una variazione proporzionale dell’onorario liquidato e pagato al professionista”. L’assunto del ricorrente secondo cui tale previsione non operava nel caso, poi verificatosi in concreto, in cui il prezzo di vendita delle azioni fosse stato inferiore all’importo di lire 2.500 per azione non appare invece suffragato da alcun dato testuale in grado di evidenziare la violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale ovvero specifici elementi di contraddizione nella soluzione accolta dal giudice di merito. Anzi tale critica appare smentita dalla considerazione che l’indicazione della misura del compenso nel caso in cui le azioni fossero state vendute al prezzo di lire 2.500 cadauna è espressamente designata dalle parti contraenti quale “esempio” di applicazione del criterio da loro convenuto, termine che, in base alla regola interpretativa posta dall’art. 1365 c.c., impedisce di desumere che le parti abbiano con tale previsione voluto escludere evenienze diverse.

Il terzo motivo del ricorso principale denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1294 c.c. ed omessa e insufficiente motivazione, censurando la decisione impugnata nella parte in cui ha affermato che i diversi committenti erano tenuti al pagamento delle spettanze del professionista pro quota, cioè proporzionalmente al numero delle azioni societarie destinate alla vendita da essi rispettivamente detenuto. Tale conclusione, ad avviso del ricorso, è sbagliata, in quanto il riferimento che si legge nella scrittura privata al numero delle quote della società So. Fin. Piemonte aveva riguardo esclusivamente al metodo di calcolo del compenso dovuto al professionista, non anche alla esclusione del vincolo di solidarietà tra le parti committenti, vincolo che, in base alla legge, si presume.

Il motivo è infondato.

L’accertamento del giudice di merito in ordine alla divisibilità tra i committenti dell’obbligazione di pagare il compenso al professionista in proporzione al numero delle quote da essi rispettivamente posseduto appare corretto e congruamente motivato sulla base del rilievo che le parti avevano convenuto che “l’obbligazione di pagare il compenso a parte appellata era proporzionale al numero delle azioni da ciascun socio di minoranza possedute”. L’interpretazione è corretta in quanto rispondente al testo del contratto di conferimento dell’incarico del 19 marzo 2003, laddove le parti precisavano che il suddetto incarico era “remunerabile con ripartizione in proporzione alle quote possedute dai soci mandanti”. Come affermato dal giudice di merito, questa formula inequivocabilmente va intesa, secondo il senso logico delle parole, nel senso che le parti esclusero la solidarietà passiva dell’obbligazione ed optarono per la sua divisibilità, ripartendola con efficacia verso il creditore in base al criterio proporzionale del numero delle azioni da loro possedute.

Il quarto motivo di ricorso denunzia violazione della L. n. 794 del 1942, art. 24, e del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, lamentando che la Corte di appello abbia liquidato le spese del primo e del secondo grado di giudizio disattendendo completamente, senza alcuna motivazione, le voci indicate nelle note spese dell’appellato, scendendo al di sotto dei minimi inderogabili della tariffa professionale. Sotto altro profilo, il ricorrente lamenta la mancata liquidazione delle spese generali previste dall’art. 15 della tariffa. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

La prima censura, in particolare, è inammissibile per genericità, atteso che la sua formulazione non indica dettagliatamente, in relazione alle singole attività difensive, le specifiche violazioni delle corrispondenti voci della tabella professionale che sarebbero state poste in essere dal giudice di merito. Sul punto invero questa Corte ha già più volte chiarito che, per il principio della autosufficienza del ricorso per cassazione, la parte che lamenti, di fronte al giudice di legittimità, la violazione dei minimi tariffari o il mancato riconoscimento delle spese ha l’onere di indicare analiticamente le voci di tabella degli onorari e dei diritti di procuratore che si ritengono violate e le singole spese asseritamente non riconosciute (Cass. n. 22287 del 2009; Cass. n. 14744 del 2007;

Cass. n. 9082 del 2006).

La censura che lamenta la mancata liquidazione del rimborso delle spese nella misura forfetaria del 10% è invece infondata.

In tema di spese generali, previste da Regolamento recante i criteri per la determinazione degli onorari e dei diritti spettanti all’avvocato per le proprie prestazioni (D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, art. 15), questa Corte ha avuto modo di precisare che il loro rimborso spetta alla parte in favore della quale siano state liquidate le spese di giudizio in via automatica ed anche in assenza di una sua espressa menzione in sentenza, che, se effettuata, riveste comunque efficacia soltanto dichiarativa (Cass. n. 23053 del 2009;

Cass. n. 10416 del 2003). Il Collegio condivide tale orientamento, che trova fondamento nell’indiscusso rilievo che tale voce costituisce un credito che trova la sua fonte direttamente nella legge, la quale ne determina anche la misura. L’omessa menzione di esso da parte della sentenza non si traduce, pertanto, in vizio di violazione di legge o in una omessa pronuncia, dal momento che la parte può conseguirne comunque il rimborso delle “spese generali” in sede di esecuzione della decisione.

Il secondo motivo del ricorso incidentale, che denunzia insufficienza e contraddittorietà di motivazione, censura l’affermazione della sentenza secondo cui il C., ad un certo punto, venne estromesso dai committenti dalle trattative che portarono all’accordo del 1 marzo 1996 di vendita delle azioni. La Corte sul punto ha errato nel non ammettere le prove orali con cui gli appellanti volevano dimostrare che la mancata partecipazione del professionista fu causata unicamente dall’atteggiamento di rifiuto nei suoi confronti da parte dell’acquirente B., socio di maggioranza della So. Fin. Piemonte, sicchè le parti, d’accordo con il C. stesso, avevano concordato di portare avanti la trattativa personalmente. Il mezzo appare assorbito dalla decisione di rigetto del secondo motivo del ricorso principale e comunque è privo di interesse, posto che l’accertamento contestato, come riconosce lo stesso ricorso incidentale (pag. 19), appare funzionale, nel percorso logico motivazionale della decisione, al rigetto della richiesta del C. di essere remunerato, in misura maggiore di quella convenuta, sulla base della tariffa professionale, sicchè esso finisce con l’investire un capo della decisione sfavorevole alla controparte. Sia il ricorso principale che quello incidentale vanno pertanto respinti. Attesa la reciproca soccombenza delle parti, le spese di giudizio si dichiarano intermente compensate.

P.Q.M.

riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese di giudizio.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2011

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