Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15496 del 30/06/2010

Cassazione civile sez. trib., 30/06/2010, (ud. 20/04/2010, dep. 30/06/2010), n.15496

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 18768/2007 proposto da:

COMUNE DI SAN GIOVANNI IN PERSICETO, in persona del Sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA F.DENZA 20, presso lo

studio dell’avvocato DEL FEDERICO LORENZO, che lo rappresenta e

difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

S.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 60/2006 della COMM. TRIB. REG. di BOLOGNA,

depositata il 10/05/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2010 dal Consigliere Dott. EUGENIA MARIGLIANO;

udito per il ricorrente l’Avvocato CALIFANO CHRISTIAN per delega Avv.

DEL FEDERICO, che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l’inammissibilità

in subordine il rigetto.

 

Fatto

S.G. avanzava richiesta di rimborso al Comune di S.Giovanni in Persiceto delle somme versate a titolo I.C.I. per gli anni dal 1993 al 1999 in quanto gli appezzamenti di terreno, appartenenti al Consorzio dei partecipanti (ente risalente al 1600, proprietario di centinaia di ettari bonificati da parte di famiglie riportate nello Statuto i cui titolari, a turno, usufruiscono del diritto di godimento dei terreni, giusta assegnazione di quote per nove anni) gli erano stati concessi in affitto per nove anni da taluni partecipanti assegnatari, periodo coincidente con quello previsto dallo Statuto del Consorzio; conseguentemente riteneva che, essendo solo conduttore del terreno, non era tenuto al pagamento dell’I.C.I..

Il Comune respingeva la richiesta, ritenendo che i contratti tra partecipanti assegnatari e il cessionario conduttore dovessero essere qualificati come cessione di usufrutto e non come affitto agrario con l’effetto che la soggettività passiva dell’I.C.I. dovesse essere del cessionario e non del partecipante.

Contro detto diniego, S.A., quale erede di S.G., proponeva ricorso innanzi alla C.T.P. di Bologna che lo accoglieva. Su gravame del Comune, la C.T.R. dell’Emilia Romagna confermava la pronuncia di primo grado, affermando che sia dal tenore letterale dei contratti che dalle espressioni usate nel testo dell’atto “appare inequivocabile il riferimento all’affittanza agraria” c.d. in particolare, che i termini usati evidenziavano la precisa volontà delle parti di concludere un contratto di affitto.

Avverso detta decisione il Comune di S. Giovanni in Persiceto propone ricorso per cassazione articolato in due motivi, integrati da memoria. Non risulta costituito S.A..

Diritto

Con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 3; artt. 1008, 1362 e 1363 c.c.; L. n. 1766 del 1927, art. 1 e ss.; L. n. 397 del 1894, art. 1 e ss..

Addebita il ricorrente alla Commissione tributaria regionale di non avere tenuto conto della particolare natura giuridica delle “partecipazioni agrarie”, figura di origine medioevale, qualificata associazione dotata di personalità giuridica dalla L. 4 agosto 1994, n. 397, che riguarda i “domini collettivi nelle province dell’ex Stato Pontificio”, e disciplinata dalla L. 6 giugno 1927, n. 1766, dal regolamento di cui al R.D. 26 febbraio 1928, n. 332 (art. 39), cui le norme del codice civile possono trovare applicazione solo in via analogica ed interpretativa; nonchè della loro funzione primaria di mantenere e migliorare la proprietà collettiva e di ripartire le terre in una pluralità di appezzamenti, consentendo a turno il godimento da parte di una determinata categoria di soggetti.

Osserva che, mentre i singoli partecipanti sono titolari di un diritto di godimento sul fondo assegnato, i beni restano formalmente di proprietà dell’ente, secondo il modello civilistico della nuda proprietà, mentre il diritto reale di godimento passerebbe agli assegnatari, con l’effetto che dei redditi dominicali ed agrari non risponde la partecipazione agraria, ma i partecipanti ed utenti “come in caso di usufrutto”, in cui i redditi sono imputati all’usufruttuario ai fini I.R.Pe.F..

Analogo effetto, aggiunge il ricorrente, va ravvisato nella sub assegnazione, ai sensi dell’art. 94, dello Statuto, in aderenza alla L. n. 1766 del 1927, in forza del quale il “cessionario” è onerato degli stessi obblighi del partecipante “cedente”, tant’è che la posizione giuridica dell'”affittuario” è riconosciuta dal Consorzio a seguito di semplice notifica del contratto, in corrispondenza a quanto dispone l’art. 980 c.c., comma 2, per la cessione dell’usufrutto.

Addebita, inoltre, il ricorrente al giudice di appello di avere disatteso i criteri ermeneutici degli artt. 1363 e 1362 c.c., mancando di interpretare le clausole contrattuali in correlazione tra loro e di tenere conto del comportamento delle parti.

Con il secondo mezzo il ricorrente denunzia vizio di motivazione, per essere mancato l’esame della circostanza che all’atto del contratto il conduttore – cessionario riceve la pianta (detta cedola) del fondo, annotata nei registri del consorzio, equivalente ad una forma di pubblicità legale propria del trasferimento immobiliare e che è titolo rappresentativo e di legittimazione del possesso del bene e l’unico mezzo di tradizione del terreno, che attribuisce al suo possessore il diritto di godere dei frutti del bene ricevuto e di esercitare le eventuali azioni possessorie, alla stregua del partecipante, e allo stesso tempo lo onera al pagamento delle imposte, inclusa l’I.C.I.; omissione che aveva riguardato anche la risoluzione ministeriale n. 7/1114 del 1976, secondo cui la previsione contenuta nella cedola del possesso manifesta una evidente equiparazione della posizione del conduttore a quella dell’usufruttuario.

Ancora addebita il ricorrente al giudice di appello di non avere dato contezza di tutte le argomentazioni da lui poste in essere e di non avere considerato che nel contratto si era dato atto “che la affittanza non sarebbe stata concessa altrimenti e senza l’impegno della parte conduttrice di fare comprendere il terreno in oggetto nella divisione dei beni per il novennio”, a riprova della erroneità dell’assunto che non fosse risultato che il contratto non sarebbe stato concluso senza la clausola relativa alla durata.

Il ricorso è infondato.

La natura giuridica delle partecipazioni agrarie si appalesa inconferente ai fini della decisione, giacchè oggetto di esame non è il rapporto instaurato tra Consorzio – proprietario dei terreni – e assegnatari – partecipanti, ma quello derivato tra questi ultimi e i loro aventi causa.

Peraltro, se alla stregua delle norme statutarie il contratto originario fosse suscettibile di qualificazione come costitutivo del diritto reale di usufrutto, la circostanza proverebbe troppo in quanto la figura giuridica del negozio derivato, di subassegnazione, per le espressioni usate e la corrispondenza del modello negoziale adottato rispetto alle tipologie consentite dallo statuto – di cessione del diritto, posto che fosse aperta a favore di chiunque e non ai soggetti già partecipanti del Consorzio, ovvero di concessione in affitto – rappresenterebbe, a causa della specificità delle formule impiegate, un elemento ostativo alla sussunzione della fattispecie nello schema della cessione del diritto reale.

Nè rileva che l’affittuario abbia assunto ex contractu obblighi nei confronti del Consorzio, quelli stessi del partecipante – assegnatario, concedente, in quanto, in difetto di esplicita assunzione da parte dell’affittuario, espressamente riferita ai tributi e ancor più a quello in questione, cioè l’Ici – che opererebbe peraltro inter partes, abilitando il concedente alla rivalsa – soggetto passivo di tale tributo resterebbe pur sempre chi come tale è contemplato dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 3, che considera il proprietario di immobili, il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie sugli stessi e, in caso di concessione su aree demaniali, il concessionario.

Dalle espressioni usate il giudice di appello ha desunto, con valutazione di merito congruamente motivata e, pertanto, insuscettibile del sindacato di legittimità, applicando correttamente i criteri ermeneutici degli artt. 1362 e 1363 c.c., la natura giuridica del contratto, appalesandosi gratuita la trasposizione al contratto di cui si tratta dei principi e delle regole, statutarie e non, riferibili al rapporto tra Consorzio e “partecipante”, avendo tale contratto derivato ricevuto dalle parti una precisa configurazione giuridica e mancando elementi di segno contrario utili a disattendere quella interpretazione, posto che il ricorrente ha lamentato la disapplicazione delle norme codicistiche predette, laddove prevedono come criterio ermeneutico sussidiario il comportamento complessivo delle parti e richiedono che le clausole del contratto siano interpretate le une per mezzo delle altre, senza tuttavia esplicitare quale sia stato il comportamento ignorato dal giudice del merito e la sua rilevanza e senza indicare le clausole negoziali utili ad evidenziare il senso del contratto diverso da quello individuato dal giudice.

Per tale verso appare improprio il richiamo alle leggi speciali indicate in rubrica, del 1927 e del 1894.

Il secondo motivo non ha sorte migliore, ove si consideri che il titolo documentale attribuito all’affittuario (preteso cessionario dell’usufrutto) costituisce la misura dei diritti e degli obblighi trasferiti ma, non avendo espressamente previsto tra questi ultimi quello tributario in questione (il ricorrente non ha riportato la formulazione negoziale, nè ha specificato l’atto e il modo in cui quella formulazione è stata prospettata nei gradi di merito) non consente di ritenere l’intimato, neanche inier partes, tenuto al pagamento dell’imposta, che comunque al rapporto con il Comune vede tale soggetto sicuramente estraneo, perchè fuori dell’area dei soggetti passivi.

Il rilievo che precede toglie qualunque rilevanza alla argomentazione riferita alla durata del contratto.

Nulla va disposto per le spese, non avendo l’intimato svolto alcuna attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, il 20 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2010

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