Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15477 del 22/06/2017


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Cassazione civile, sez. I, 22/06/2017, (ud. 11/04/2017, dep.22/06/2017),  n. 15477

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24929/2013 proposto da:

D.B.I. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in Roma,

Via Pompeo Ugonio n. 3, presso l’avvocato Pino Gisella,

rappresentata e difesa dall’avvocato Romito Domenico, giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

USB (Italia) S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Caio Mario n. 27

presso l’avvocato Srubek Tomassy Chiara, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato Contini Davide, giusta procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2925/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 17/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/04/2017 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto del ricorso;

uditi, per la controricorrente, gli Avvocati Giorgio Morganti, con

delega avv. Contini, e Chiara Srubek Tomassy che hanno chiesto il

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Milano con sentenza del 17 luglio 2013, in riforma della decisione del Tribunale della stessa città, ha dichiarato che la UBS Italia s.p.a. ha diligentemente adempiuto agli obblighi informativi D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 28, ex art. 21 ed artt. 27-28 del reg. Consob 1 luglio 1998, n. 11522, respingendo, invece, la domanda dalla banca avanzata di condanna per lite temeraria.

La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che costituisse domanda nuova, proposta per la prima volta in appello, quella di nullità del contratto di negoziazione e degli ordini di acquisto per carenza della forma scritta, avendo in primo grado la D.B. invocato unicamente la nullità dei contratti di acquisto dei titoli per violazione degli obblighi informativi. Ha aggiunto che la domanda di risoluzione dei contratti di acquisto, proposta in primo, grado nella memoria attorea di replica D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, ex art. 6, non notificata alla contumace, era inammissibile. Nel merito, ha ritenuto infondata la domanda di risarcimento del danno da inadempimento, perchè i documenti in atti comprovano, al contrario, il pieno adempimento della banca ai suoi obblighi e tali documenti erano ammissibili ex art. 345 c.p.c., essendo indispensabili alla decisione, posto che l’indagine sui fatti del processo non avrebbe potuto essere svolta in assenza dei medesimi, in appello ritualmente dalla banca prodotti. Sulla base di tali documenti, quindi, ha ritenuto provato che il contratto quadro, come tutti gli ordini di acquisto, furono regolarmente firmati dalla cliente; che essa ricevette il documento generale sui rischi dell’investimento, nonchè le note informative circa le operazioni effettuate; che queste non erano inadeguate, in ragione dell’elevatissima consistenza del portafoglio della cliente di circa dieci milioni di euro, del quale costituivano lo 0,60%.

Avverso questa sentenza propone ricorso la soccombente, affidato ad otto motivi. Resiste l’intimata con controricorso. Le parti hanno depositato le memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi del ricorso propongono avverso la sentenza impugnata censure che possono essere come di seguito riassunte:

1) violazione degli artt. 82, 171, 292 c.p.c., nonchè D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 1, comma 4, artt. 4 e 13, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, in quanto la banca non poteva considerarsi ancora contumace al momento in cui l’attrice aveva notificato al difensore della medesima, pur privo di procura, la memoria di cui all’art. 6 del decreto legislativo citato, dato che essa avrebbe potuto ancora costituirsi in giudizio, mentre la situazione di contumacia richiede la statuizione del giudice e “non è rilevabile dalla parte”, onde la notificazione di detta memoria bene era avvenuta al difensore della banca stessa;

2) violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia in ordine alla domanda di risoluzione del contratto, ritenuta inammissibile e non decisa dunque dal giudice di primo grado;

3) violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 e art. 30 reg. Consob n. 11522 del 1998, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, 4 e 5, per non essersi la corte territoriale pronunciata sulla domanda di nullità del contratto di investimento per difetto di forma scritta, ritenuta dalla medesima una domanda nuova, mentre già l’atto di citazione ne conteneva menzione: e la banca non ha provato la sottoscrizione del contratto, attesa l’inutilizzabilità dei documenti dalla stessa (contumace) prodotti in primo grado;

4) violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., in quanto la domanda di accertamento del proprio adempimento, proposta dalla banca con l’appello incidentale, era inammissibile, trattandosi di domanda nuova;

5) violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, perchè la corte territoriale ha errato nel ritenere ammissibili, senza motivazione, i documenti prodotti dalla banca, contumace in primo grado;

6) violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè dell’art. 21, art. 23, comma 6, artt. 26, 28 e 29 reg. Consob n. 11522 del 1998, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, perchè la corte territoriale ha mal ponderato gli elementi probatori concernenti l’adempimento della banca ai propri obblighi, commettendo errore di valutazione degli elementi di prova ed incorrendo in carente motivazione, valorizzando alcuni fatti e trascurandone altri, come quelli contenuti nella c.t.u. (di cui si riportano in ricorso ampi passaggi): infatti, sebbene il default della Parmalat si verificò nel 2003 in maniera subitanea e non prevista, tuttavia vari elementi di analisi consentivano di valutare la pericolosità degli investimenti nei titoli del gruppo; in tal modo, ritenuto insussistente l’inadempimento, la corte del merito ha omesso di pronunciarsi sull’esistenza del nesso causale col danno, escluso erroneamente dal giudice di primo grado, ed invece esistente in re ipsa;

7) violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, art. 23, comma 6, artt. 27 e 32 reg. Consob n. 11522 del 1998, e art. 8 del reg. Consob n. 11678 del 1998 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, perchè la corte territoriale ha omesso di pronunciarsi sul dedotto conflitto di interessi;

8) violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 26 e art. 29 reg. Consob n. 11522 del 1998, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perchè la corte territoriale ha mal valutato l’insussistenza di idonea informazione alla cliente, restando invece irrilevante l’entità del suo portafoglio e la percentuale impegnata nell’operazione.

2. – Il primo motivo è infondato quanto alla dedotta violazione di legge, mentre è inammissibile con riguardo alla censura di violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2.1. – La corte d’appello ha rilevato che la domanda di risoluzione dei contratti di acquisto è stata proposta, in primo grado, nella memoria attorea di replica D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, ex art. 6, onde ha condiviso la valutazione del tribunale circa l’inammissibilità della medesima, in quanto nuova e non notificata alla banca contumace: la notificazione della memoria stessa al difensore privo di procura alla lite, invero, secondo la corte territoriale non è idoneo adempimento ex art. 292 c.p.c., attesa la nullità della costituzione e restando irrilevante che, in quel momento, la declaratoria non fosse ancora avvenuta da parte del giudice della controversia, avendo appunto questa mero valore dichiarativo.

2.2. – Tale valutazione non merita censura.

Nel sistema del rito societario, il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 6 permetteva all’attore di introdurre, nella memoria di replica ex art. 6, comma 2, lett. b), domande nuove, che fossero conseguenza della domanda riconvenzionale proposta dal convenuto.

Nella specie, la banca, convenuta nel giudizio di primo grado, si era bensì costituita, ma con difensore privo di procura alle liti, onde il tribunale, in sentenza, ne ebbe a dichiarare la contumacia, insieme alla nullità di ogni attività processuale relativa.

La situazione di assenza dal giudizio implicava, pertanto, la necessità di notificare la predetta memoria ex art. 6, comma 2 attività che restava in facoltà dell’attrice espletare – alla parte personalmente, applicandosi al rito societario l’art. 292 c.p.c., in forza del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 1, comma 4.

Ciò costituiva un onere oggettivo dell’attrice, indipendentemente dalla colpa nel rilevare quello stato di assenza di controparte dal processo.

Nè ha pregio l’assunto della odierna ricorrente, secondo cui la contumacia non sussiste fino a quando non sia dichiarata dal giudice, posto che, al contrario, è principio costante che si tratta appunto di pronuncia meramente dichiarativa di una situazione di fatto preesistente (cfr. art. 171 c.p.c., comma 3).

La mancanza del provvedimento formale di dichiarazione di contumacia non vale ad escluderla, nè produce nullità, sebbene costituisca un dovere d’ufficio del giudice, in presenza dei relativi presupposti, che si può adempiere – ove prima non sia avvenuto anche nella sentenza.

Nè la possibilità, infine, per il convenuto di costituirsi, nel rito societario, ancora nei termini ex art. 5 del più volte menzionato decreto legislativo vale a mutare la qualificazione della condizione del medesimo, che è in fatto contumace – ossia, inattivo nel processo, di cui pure è già parte – sino a quel momento.

2.3. – Il motivo è poi inammissibile – considerazione che va estesa a tutte le rimanenti censure di vizio di motivazione – con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si tratta, invero, di censura che esula dall’ambito di applicazione del rinnovato l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, i cui limiti sono stati chiariti da questa Corte a Sezioni unite (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053).

3. – Il secondo motivo, di conseguenza, è infondato, non essendo stata ritualmente introdotta in primo grado la domanda di risoluzione del contratto, per quanto appena esposto e come entrambi i giudici di merito hanno correttamente ritenuto.

4. – Il terzo motivo ed il settimo motivo sono inammissibili, per intervenuto giudicato interno sul punto.

La corte territoriale ha affermato che circa le domande di nullità e di annullamento per conflitto di interessi dei contratti di compravendita dei titoli “vi è stata acquiescenza dell’appellante”, non avendo essa impugnato le relative statuizioni (p. 5).

Ne deriva che, al riguardo, occorre rilevare il giudicato interno (il quale copre il dedotto e il deducibile, ossia anche le questioni che, benchè non specificatamente dedotte od enunciate, costituiscono precedenti logici essenziali della pronuncia: e multis, Cass. 12 aprile 2006, n. 8612; 2 marzo 2001, n. 3074).

Invero, costituisce principio consolidato che “soltanto la parte vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale per far valere le domande e le eccezioni non accolte e, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c., può limitarsi a riproporle, mentre la parte rimasta parzialmente soccombente in relazione ad una domanda od eccezione, di cui intende ottenere l’accoglimento, ha l’onere di proporre appello incidentale, pena il formarsi del giudicato sul rigetto della stessa” (Cass., sez. un., 24 maggio 2007, n. 12067; e poi, fra le altre, Cass. n. 9400/2005; n. 6550/2013; n. 20562/2015). Nè può revocarsi in dubbio che tale giudicato interno sia rilevabile d’ufficio in Cassazione, al pari del giudicato esterno (Cass., sez. un., n. 226/2001; n. 753/2002; n. 630/2004; n. 1099/2006; n. 15627/2016).

5. – Il quarto motivo è infondato.

Quella che la ricorrente qualifica come “domanda di accertamento del proprio adempimento”, proposta dalla banca con l’appello incidentale e come tale nuova, apparteneva invero già, per intero, all’oggetto del giudizio, atteso che di null’altro si tratta, se non della medesima questione – l’adempimento, o, specularmente, l’inadempimento – della banca, posta dall’attrice quale elemento costitutivo delle domande dalla medesima proposte.

6. – Il quinto motivo è infondato.

L’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo applicabile nel caso di specie, dispone che il collegio può ammettere le prove in appello ove le “ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa” (parole poi soppresse dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134).

La norma, nell’escludere l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova nel giudizio di secondo grado, ivi compresi i documenti, consente dunque al giudice di appello di ammettere, oltre alle nuove prove che le parti non abbiano potuto produrre prima per causa ad esse non imputabile, quelle che ritenga, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, indispensabili perchè dotate di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove, definite come rilevanti, hanno sulla decisione finale della controversia.

La possibilità di produrre nuovi documenti in appello, in deroga al divieto previsto dall’art. 345 c.p.c., si è reputata sussistere, in particolare, quando tali documenti siano “indispensabili”, in quanto di per sè sufficienti a provare il fatto controverso, a prescindere da tutte le altre fonti di prova (Cass. 29 maggio 2013, n. 13432; ord. 26 luglio 2012, n. 13353; 22 marzo 2011, n. 6498; 19 aprile 2006, n. 9120).

Tale “speciale efficacia dimostrativa” ai fini della decisione della causa e tale “influenza causale più incisiva” – sono espressioni delle sentenze sopra citate – rispetto alle prove in genere ammissibili in quanto “rilevanti”, attiene dunque a quelle prove che sono idonee a fornire un contributo decisivo all’accertamento della verità materiale, per essere dotate di un grado di decisività e certezza tale che, da sole considerate, e quindi a prescindere dal loro collegamento con altri elementi e da altre indagini, conducano ad un esito “necessario” della controversia.

Appunto questa, nella specie, la qualificazione del contratto di investimento e degli ordini di negoziazione, documenti che furono introdotti in sede di appello, in quanto la nullità della procura della banca nel giudizio di primo grado ne aveva impedito l’esame da parte del tribunale, pur essendo essi certamente decisivi per provare i contratti stessi.

7. – Il sesto motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

La censura di cattiva valutazione delle risultanze istruttorie, invero, che risulta di assoluta evidenza dal contenuto del motivo, nè concerne violazioni o false applicazioni del dettato normativo, nè evidenzia un vizio idoneo ad essere ricondotto nel nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sopra esposto: bensì, ripropone la valutazione della realtà fattuale, come è stata operata dalla corte territoriale; e, sollecitando l’esame degli elementi fattuali già sottoposti ai giudici di merito, e da questi disattesi, mira ad una nuova valutazione delle risultanze processuali, tuttavia non consentita in sede di legittimità.

Ed infatti, premesso che la valutazione degli elementi di prova e l’apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice di merito, deve ritenersi preclusa ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa. Con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile la doglianza mediante la quale la parte ricorrente avanza, nella sostanza delle cose, un’ulteriore istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

Quanto alla denunzia del vizio di omessa pronuncia, la corte del merito ha ritenuto correttamente assorbito l’accertamento sul nesso eziologico tra la condotta di inadempimento ed i danno lamentato, avendo già escluso la sussistenza del primo, onde la censura non merita accoglimento.

8. – L’ottavo motivo è inammissibile, perchè ripropone censure in fatto, sotto l’egida del vizio di motivazione o di un’insussistente integrazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nuovo n. 5: mentre la corte territoriale ha esaminato tutte le risultanze istruttorie, nell’esercizio del prudente discrezionale apprezzamento, concludendo per la sussistenza delle dovute informazioni al cliente.

9. – Le spese seguono la soccombenza. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 5.200,00 complessivi, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie ed agli accessori, come per legge.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2017

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