Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15464 del 03/06/2021

Cassazione civile sez. lav., 03/06/2021, (ud. 28/01/2021, dep. 03/06/2021), n.15464

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27059/2019 proposto da:

T.V., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato FRANCESCO IUDICE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1136/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 01/07/2019 R.G.N. 1906/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/01/2021 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Dott. MUCCI Roberto,

visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis,

convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha

depositato conclusioni scritte.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Bari, con sentenza n. 1136 del 1 luglio 2019, decidendo sull’impugnazione del Ministero della Giustizia nei confronti di T.V., respingeva la domanda da quest’ultimo proposta intesa ad ottenere l’annullamento del licenziamento intimatogli con provvedimento del 6 settembre 2017.

T.V., dipendente del Ministero della Giustizia in servizio presso la Procura della Repubblica di Bari con qualifica di conducente di automezzi, era stato licenziato dopo la riattivazione del procedimento disciplinare già sospeso attesa la pendenza di un procedimento penale a suo carico per i reati di cui agli artt. 81,110,493,476,479 e 640 c.p. (per aver presentato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari delle richieste di liquidazione per attività già liquidate inducendo in errore il magistrato o il funzionario preposti, ovvero per aver falsamente formato diversi decreti di pagamento di spese di giustizia, sempre allo scopo di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto), riattivazione avvenuta a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale.

Il T., nel corso del procedimento penale, era stato attinto dalla misura degli arresti domiciliari, eseguita in data (OMISSIS), era stato perciò sospeso dal servizio con nota del (OMISSIS), mentre il successivo (OMISSIS), con nota del Direttore generale del Ministero della Giustizia, gli era stato contestato l’illecito disciplinare sanzionato dall’art. 25, comma 6, lett. d) del c.c.n.l. del comparto Ministeri e, al contempo, era stata disposta la sospensione del procedimento disciplinare avviato con la detta nota sino all’acquisizione di elementi idonei e sufficienti a supportare l’impianto accusatorio.

Il predetto era stato, poi, reintegrato in servizio, cessata la misura restrittiva della libertà; successivamente era stato condannato, in via definitiva, alla pena di anni tre mesi due di reclusione, nonchè alla pena dell’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, ex art. 29 c.p..

Era stato, quindi, riattivato il procedimento disciplinare, che si era concluso con il licenziamento.

Il Tribunale di Bari aveva ritenuto fondata la doglianza del lavoratore relativa al dedotto difetto di contestazione dell’addebito nel termine di legge, previsto in sessanta giorni, dalla comunicazione inoltrata all’Amministrazione competente della sentenza di condanna del dipendente.

La Corte d’appello di Bari, invece, in riforma della sentenza impugnata, pur confermando il ragionamento del primo giudice secondo il quale il provvedimento di riattivazione nei confronti del T. del procedimento disciplinare precedentemente avviato e contestualmente sospeso attesa la contemporanea pendenza di un correlato procedimento penale, non gli fosse stato notificato, tuttavia riteneva che l’acclarata omessa notifica del provvedimento di riattivazione del procedimento disciplinare non determinasse l’illegittimità del licenziamento irrogato al T. per intervenuta decadenza dall’esercizio del potere disciplinare perchè ciò che rilevava, a termini di legge, era che vi fosse stata l’adozione del provvedimento di riattivazione del procedimento disciplinare e non già la notifica dello stesso.

Richiamava, sul punto, quanto affermato da questa Corte nelle pronunce n. 5637/2009 e n. 17373/2016 e conclusivamente riteneva che il provvedimento di riattivazione del procedimento disciplinare fosse stato adottato entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza che aveva definito il procedimento penale e che il licenziamento fosse stato irrogato entro il termine di 180 giorni dal riavvio dell’iter disciplinare, in ossequio al dettato di cui al combinato disposto del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 55 bis e 55 ter, con la conseguenza che non sussistevano gli estremi per decretare l’illegittimità del provvedimento risolutorio per violazione delle disposizioni di legge deputate a regolare il procedimento che conduce all’applicazione della misura punitiva.

Assumeva che i fatti oggetto del giudizio penale fossero da apprezzare di gravità e disvalore tali da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, poichè una condotta siffatta aveva senz’altro compromesso il rapporto fiduciario che deve sussistere tra la Pubblica Amministrazione e i propri dipendenti, in quanto tale rapporto deve essere improntato a rispetto lealtà e affidabilità reciproca.

2. Avverso tale sentenza T.V. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

3. Il Ministero della Giustizia è rimasto intimato.

4. Il Collegio ha proceduto in Camera di consiglio ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con L. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta di discussione orale.

5. Il Procuratore generale ha formulato le sue conclusioni motivate, ritualmente comunicate alle parti, insistendo per il rigetto del ricorso.

6. Il ricorrente ha depositato memoria con istanza di rinnovazione della notifica del ricorso per cassazione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4 e art. 55 ter, comma 4, nonchè dell’art. 1334 c.c. e dell’art. 149 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Censura la sentenza impugnata per non aver ritenuto l’illegittimità del licenziamento in conseguenza dell’inosservanza delle regole relative alla riattivazione del procedimento disciplinare.

Sostiene che dalla mancata notifica di tale riattivazione andava tratta la conseguenza dalla decadenza dell’amministrazione dagli effetti provvisoriamente prodotti.

2. Il motivo è infondato.

Come da questa Corte già precisato (v. Cass. 26 agosto 2016, n. 17373), applicando i medesimi principi già affermati con riferimento alla conclusione del procedimento disciplinare (v. Cass. 9 marzo 2009, n. 5637; Cass. 3 dicembre 2008, n. 28726), in ambito di riattivazione del procedimento disciplinare, tenuto conto della funzione che l’atto realizza, ai fini del rispetto del termine occorre avere riguardo alla data di adozione dello stesso. Detti principi, infatti, costituiscono applicazione della regola più generale secondo la quale “la decadenza è impedita dal compimento di un atto tipico entro un termine determinato: se l’atto ha carattere recettizio, la sua conoscenza (o conoscibilità) da parte del destinatario rileva, esclusivamente, ai fini della produzione degli effetti tipici dell’atto, a meno che essa non sia prevista, nella fonte che contempla la decadenza (legale, o negoziale, o provvedimentale), come elemento costitutivo della fattispecie impeditiva” (v. Cass., Sez. Un., 14 aprile 2010, n. 8830).

2.1. Quanto alla disciplina legale, nulla prevedono al riguardo del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 55 bis e ter, introdotti dal D.Lgs. n. 150 del 2009, successivamente modificati dal D.Lgs. n. 75 del 2017 (si ricorda che, per il periodo precedente la modifica legislativa di cui al D.Lgs. n. 150 del 2009, ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 74, come sostituito del D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 38, “a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo, ai pubblici dipendenti privatizzati non si applicano il D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, da art. 100 a art. 123 e le disposizioni ad esso collegate” e che dalla stessa data “sono abrogate tutte le restanti disposizioni in materia di sanzioni disciplinari… incompatibili con le disposizioni del Decreto n. 29 del 1993”, e così anche le norme della L. n. 19 del 1990, emanate in relazione al procedimento disciplinare previsto dal citato T.U. sul pubblico impiego, e che, ai sensi del medesimo D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 72, comma 1, è stata statuita “l’inapplicabilità delle norme generali e speciali del pubblico impiego a seguito della stipulazione dei contratti collettivi in relazione ai soggetti ed alle materie in essi contemplati”, ed anche previsto, al comma 3, che a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo sono abrogate “tutte le restanti disposizioni in materia di sanzioni disciplinari per i pubblici impiegati incompatibili con le disposizioni del presente decreto” – v. Cass. 3 marzo 2010, n. 5105 che richiama Cass. 16 maggio 2003, n. 7704 -).

2.2. Quanto alla disciplina contrattuale (si vedano l’art. 25 del c.c.n.l. Comparto Ministeri del 16 maggio 1995, art. 14 del c.c.n.l. del 12 giugno 2003, art. 27 c.c.n.l. del 14 settembre 2007), non vi è alcuna disposizione pattizia che preveda che la riattivazione del procedimento sia anche portata a conoscenza dell’interessato entro un termine di decadenza, per cui l’effetto impeditivo si produce con la formazione dell’atto che dà nuovo impulso alla azione disciplinare, a prescindere dalla sua successiva comunicazione.

3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, commi 1 e 4, nonchè violazione del principio di buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Lamenta la tardività del licenziamento rispetto al piano accusatorio conosciuto già anni prima dal Ministero.

Sostiene che l’Amministrazione avrebbe dovuto riattivare il procedimento disciplinare già dopo la sentenza di primo grado.

4. Il motivo è infondato.

4.1. Non vi è alcuna previsione di fonte legale o contrattuale che preveda un obbligo nel senso auspicato dal ricorrente.

4.2. Nel caso in esame il procedimento disciplinare era stato sospeso in attesa dell’esito di quello penale.

E’ stato ritenuto da questa Corte che tale sospensione costituisce facoltà discrezionale attribuita alla P.A. (così Cass. 5 aprile 2018, n. 8410; Cass. Cass. 13 maggio 2019, n. 12662; Cass. 12 marzo 2020, n. 7085), nell’interesse del buon andamento di essa ed in attuazione di un canone di prudenza, che di tale principio è espressione e che è insito nei parametri di complessità di accertamento o insufficienza degli elementi disponibili cui fa riferimento la norma.

Nè si ritiene che il dipendente possa subire un pregiudizio dalla sospensione del procedimento disciplinare, in quanto egli si vede assicurato ex ante un accertamento più accurato effettuato dall’autorità giudiziaria, e quindi da un soggetto imparziale, con le garanzie che l’ordinamento riconosce sia all’imputato che al soggetto sottoposto ad indagini (v. Cass. 9 giugno 2016, n. 11868).

4.3. Se è vero che è la P.A., pur avendo sospeso il procedimento disciplinare non è tenuta a mantenere tale sospensione fino alla definizione del processo penale e, qualora sia venuta in possesso di elementi di valutazione ulteriori (ad es. degli atti delle indagini preliminari ovvero della sentenza di primo grado) può riattivare il procedimento e adottare il relativo provvedimento (si veda l’espressa previsione ora contenuta nella parte finale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, comma 1, come novellato dal D.Lgs. n. 75 del 2017, secondo cui l’azione disciplinare sospesa può essere riattivata anche prima del giudicato penale e, quanto alla valenza non innovativa ma meramente chiarificatrice di tale riforma, Cass. n. 12662/2019 cit.), tuttavia non vi è nessun obbligo in tal senso.

5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, commi 1 e 4 e art. 55 quater, nonchè omessa valutazione di un fatto storico risultante dagli atti di causa e violazione del principio di gradualità e proporzionalità della sanzione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Lamenta l’illegittimità della pronuncia di secondo grado nella parte in cui avrebbe omesso di esaminare la doglianza relativa alla sproporzione del provvedimento espulsivo rispetto ai fatti accaduti, essendosi la Corte territoriale sostanzialmente appiattita sulla pronuncia penale di condanna.

6. Il motivo è inammissibile.

6.1. Il ricorrente trascura di considerare che il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’elencazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (v. Cass. 12 gennaio 2016, n. 287; Cass. 15 gennaio 2015, n. 635; Cass. 1 dicembre 2014, n. 25419; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038).

E’ stato, in particolare, affermato, in tema di ricorso per cassazione, che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (tra le più recenti Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340 del 2019).

Nella specie, il ricorrente non spiega perchè la Corte territoriale sarebbe incorsa nella denunciata violazione di legge ed invero pretende di far derivare la stessa da una diversa lettura delle risultanze di causa, ma ciò è inammissibile.

6.2. Nè miglior sorte ha la denuncia di omesso esame.

Il motivo, infatti, si colloca fuori dal perimetro del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, come delineato da questa Corte a Sezioni Unite nella decisione n. 8053 del 7 aprile 2014 dovendosi ricordare che non costituiscono “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, gli elementi istruttori dei quali si lamenti il mancato esame o valutazione da parte della Corte d’appello, in realtà sollecitandone un esame o una valutazione nuova da parte della Corte di Cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito, oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato dalla Corte d’appello, il vario insieme dei materiali di causa (v. anche Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415; Cass. 8 novembre 2019, n. 28887).

Anche di recente le Sezioni unite hanno ribadito l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., perchè pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass., Sez. Un., 17 dicembre 2019, n. 33373; Cass., Sez. Un., 16 novembre 2020, n. 25950).

6.3. Nella specie, peraltro, la pronuncia della Corte territoriale è assolutamente chiara laddove ha affermato che i fatti commessi dal T. fossero stati definitivamente acclarati definitivamente in sede penale, essendo emerso che il predetto, conducente di automezzi in servizio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari, si era reso responsabile di numerosi episodi di falso e truffa posti in essere tra (OMISSIS) (in concorso con altra persona) ed aveva anche formato atti falsi, ed in particolare decreti di pagamento di spese di giustizia (di custodia o trasporto di beni sottoposti a sequestro penale, in realtà già pagate, a favore della predetta ditta) apparentemente emessi da magistrati del pubblico ministero presso il Tribunale di Bari nonchè altrettanti prospetti riepilogativi della liquidazione apparentemente emessi da funzionari della Procura della Repubblica di Bari, in tal modo conseguendo quale ingiusto profitto la somma di Euro 10.326,83 con conseguente danno per l’erario.

6.4. Di tali fatti la Corte barese ha, poi, offerto un autonomo apprezzamento in termini di gravità e disvalore tali da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, evidenziando che una condotta siffatta aveva compromesso il rapporto fiduciario che deve sussistere tra la Pubblica Amministrazione e i propri dipendenti, in quanto tale rapporto deve essere improntato a rispetto, lealtà e affidabilità reciproca.

Nel suddetto ragionamento la Corte ha mostrato di tener conto della rilevanza della sentenza penale definitiva nel procedimento disciplinare (anche riattivato) dovendosi, sul punto ricordare, che lo stesso art. 55 ter, comma 4, nella formulazione di cui alla riforma Madia, prevede che: “Ai fini delle determinazioni conclusive, l’ufficio procedente, nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto, applica le disposizioni dell’art. 653 c.p.p., commi 1 e 1 bis”.

Il giudicato penale ha, dunque, anche nel novellato regime, i medesimi effetti previsti nel previgente sistema contrattuale, nel senso che l’Amministrazione (e per essa l’Ufficio Procedimenti Disciplinari) subirà un vincolo ex art. 653 c.p.p., in ordine ai fatti storici, che l’imputato li ha commessi, e che essi configurano un reato anche se godrà di autonoma valutazione sugli stessi. In sostanza il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo, però, il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale (v. Cass., Sez. Un., 9 luglio 2015, n. 14344; Cass., Sez. Un., 24 novembre 2010, n. 23778; Cass., Sez. Un., 18 ottobre 2000, n. 1120).

Nella specie la Corte territoriale, sulla base del giudicato di condanna, ha correttamente ritenuto che il dipendente avesse commesso i fatti contestatigli e li ha, comunque, rivalutati, ai fini della gravità dell’inadempimento.

7. Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per omessa pronuncia della Corte d’appello su domande ed eccezioni ritualmente introdotte nel giudizio di merito.

Lamenta, in particolare, l’omesso esame delle doglianze relative: a) alla contestata violazione procedurale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, per difetto della contestazione di addebito nei termini di legge rispetto alla conoscenza dei fatti e/o per tardività nella conclusione del procedimento disciplinare; b) alla contestata violazione procedurale del disposto di cui del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 3, per difetto di comunicazione all’interessato dell’avvenuta trasmissione di accertamento delle infrazioni più gravi di cui del medesimo art. 55 bis, comma 1, entro 5 giorni dalla notizia del fatto all’U.P.D..

8. Il motivo è inammissibile.

8.1. Non vi è stata innanzitutto una domanda sulla quale la Corte territoriale non si sia pronunciata.

8.2. In ogni caso, quanto all’aspetto di cui al punto a), il rilevo è inammissibile per carenza di specificità.

La doglianza fa leva sull’avvenuta trasmissione al “Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Org. del Personale e dei Servizi – Direzione Generale del Personale e della Formazione – Ufficio IV – Reparto disciplina” della missiva del Dirigente Amministrativo della Procura della Repubblica di Bari del 27 aprile 2010, asseritamente contenente tutti gli elementi idonei a supportare l’impianto accusatorio.

Tale missiva, però, non è trascritta nel relativo contenuto nè è precisato quando, nella sequenza procedimentale degli atti di causa, la stessa sia stata sottoposta al giudice di prime cure.

Inoltre, non è neppure dedotto quando tale missiva (contenente una multipla indicazione di destinatari) sia effettivamente pervenuta all’Ufficio Procedimenti Disciplinari.

Le suddette carenze non consentano questa Corte di valutare la decisività del rilievo.

Si ricorda che, come da questa Corte già affermato (Cass. 11 settembre 2018, n. 22075; Cass. 25 giugno 2018, n. 16706), che la contestazione dell’addebito deve essere effettuata entro quaranta giorni dall’acquisizione della notizia dell’infrazione da parte dell’Ufficio Procedimenti Disciplinari (competente in considerazione della maggiore complessità degli accertamenti, connessa alla diversa gravità dell’addebito) sempre che si tratti di notizia che contenga gli elementi sufficienti a dare un corretto avvio al procedimento disciplinare, mentre il termine non può decorrere se la notizia, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione, ma richieda accertamenti di carattere preliminare, volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito; ciò vale anche nell’ipotesi in cui il procedimento predetto abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in corso un procedimento penale (v. Cass. 27 agosto 2018, n. 21193).

Nè potrebbe rilevare un eventuale ritardo nella trasmissione della notizia dall’Ufficio o Dipartimento che la abbia ricevuta all’U.P.D..

E’ stato, infatti, precisato (v. Cass. 14 dicembre 2018, n. 32491) che anche se vi sia stata l’inosservanza del termine per la trasmissione degli atti all’ufficio designato per i procedimenti disciplinari ad opera del capo della struttura di appartenenza del dipendente per fatti rientranti nella competenza di tale ufficio, di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 3, nella formulazione antecedente alla riforma di cui al D.Lgs. n. 75 del 2017, ciò non comporta effetti decadenziali, in mancanza di una espressa previsione normativa o negoziale che li preveda.

8.3. Anche quanto all’aspetto di cui al punto b), il motivo è inammissibile per mancanza di decisività.

Questa Corte ha, infatti, già affermato (v. Cass. 10 agosto 2016, n. 16900), in tema di illeciti disciplinari di maggiore gravità imputabili al pubblico impiegato, che la comunicazione all’interessato, della trasmissione degli atti da parte del responsabile della struttura amministrativa, nella quale l’impiegato presta servizio, all’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 3, ha una funzione meramente informativa, sicchè gli effetti dell’eventuale omissione di tale adempimento non si riverberano sul procedimento disciplinare e sul suo svolgimento, che prosegue regolarmente (si veda anche Cass. 14 giugno 2016, n. 12213).

9. Da tanto deriva che il ricorso deve essere rigettato e, pertanto, non occorre disporre la rinnovazione della notifica, erroneamente effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale di Bari e non presso l’Avvocatura Generale.

Nella giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidato il principio secondo cui il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Se ne è tratta la conseguenza che, in caso di ricorso per cassazione inammissibile o prima facie infondato, appare superfluo disporre la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che l’adempimento si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in una dilatazione dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Cass. 17 giugno 2013, n. 15106; Cass. 21 maggio 2018, n. 12515; Cass. 10 maggio 2018, n. 11287; Cass. 15 maggio 2020, n. 8980).

10. La mancata costituzione in giudizio dell’Avvocatura esime dal provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

11. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass., Sez. Un., n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2021

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