Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15462 del 30/06/2010

Cassazione civile sez. trib., 30/06/2010, (ud. 08/04/2010, dep. 30/06/2010), n.15462

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DI DOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in Modena al Corso

Canalchiaro 116 presso lo studio dell’avv. Ruozzi Edgardo del Foro di

Modena dal quale è rappresentato e difeso giusta procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Comune di Mirandola, in persona del Sindaco pro tempore elettivamente

domiciliato in Roma alla via Monte Zebio 37 presso lo studio degli

avv.ti Furitano Marcello e Cecilia dai quali è rappresentato e

difeso giusta procura speciale a margine del ricorso unitamente

all’avv. Marco Zanasi del Foro di Modena;

– controricorrente e ric.te inc.le –

avverso la sentenza 82/12/05, depositata in data 30.9.05, della

Commissione tributaria regionale della Emilia Romagna;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

8.4.10 dal Consigliere Dott. Giovanni Carleo;

sentita la difesa svolta per conto del Comune di Mirandola, che ha

concluso per il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento di

quello incidentale con vittoria di spese.

Udito il P.G. in persona del dr. Wladimiro De Nunzio che ha concluso

per il rigetto di entrambi i ricorsi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 6/9 aprile 1990 il Tribunale di Modena dichiarava il fallimento della società S. Giacomo s.r.l. nominando curatore S.M.. La procedura fallimentare, nel corso della quale erano alienati gli immobili della società con decreto di trasferimento in data 8.2.01 veniva chiusa in data 8.11.2001. Con avviso di accertamento e di liquidazione notificato il 5 febbraio 2003 il Comune di Mirandola contestava al S. l’omessa denuncia ai fini ICI ed accertava l’imposta dovuta per gli anni dal 1993 al 2001. Il S. adiva la CTP di Modena contestando la sua carenza di legittimazione passiva. La Commissione tributaria provinciale adita accoglieva il ricorso deducendo che il fallimento era chiuso per cui gli atti impositivi dovevano essere indirizzati alla società tornata in bonis. Proponeva appello il Comune di Mirandola. La Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna respingeva il gravame in ordine alla debenza dell’imposta, ponendo le sanzioni pecuniarie a carico del curatore e compensando le spese di giudizio. Avverso la detta sentenza il S. ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in un unico motivo. Il Comune di Mirandola resiste con controricorso e propone a sua volta ricorso incidentale articolato in un unico motivo. Entrambe le parti hanno quindi depositato memorie difensive a norma dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, vanno riuniti il due ricorsi, quello principale proposto dal S., e quello incidentale, proposto dal Comune di Mirandola, in quanto rivolti avverso la medesima sentenza.

La ragione di doglianza, svolta dal ricorrente principale ed articolata sotto il profilo della violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 e art. 112 c.p.c. nonchè sotto il profilo dell’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, si fonda sulla considerazione che la CTR, differenziando in sede di appello il soggetto passivo del tributo, vale a dire la società fallita poi tornata in bonis, dalla persona fisica, autrice della violazione, avrebbe ad un tempo preso in considerazione una domanda nuova non consentita dall’art. 57 citato ed avrebbe pronunciato ultrapetita. E ciò, senza peraltro motivare in alcun modo sulle ragioni che l’avevano indotta ad enucleare “dall’unitario avviso, chiaramente diretto ad un unico soggetto due distinti e diversi provvedimenti, l’uno per il recupero dell’imposta … l’altro di irrorazione delle sanzioni …”.

La doglianza, svolta dal Comune di Mirandola ed articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione di norme (D.Lgs. 504 del 1992, artt. 1, 3 e 10, R.D. n. 267 del 1942, artt. 42 e 120, art. 2484 c.c. nonchè della motivazione insufficiente e contraddittoria, si fonda invece sulla considerazione che la C.T.R. avrebbe errato nel ritenere che il debito della procedura fallimentare debba ricadere non sul curatore ma sulla società tornata in bonis. Ed invero, premesso che la normativa ICI prevede specifichi obblighi in capo al curatore, tenuto al versamento ed alla dichiarazione, adempimenti non compiuti dal S., la CTR avrebbe sbagliato per aver trascurato che “gli avvisi emessi dal Comune riguardano proprio le annualità 1993-200 i maturate in costanza di fallimento, annualità rispetto alle quali: a) la società fallita aveva subito lo spossessamento degli immobili b) alla società fallita non competeva nè pagare nè dichiarare alcunchè ai fini ICI” Inoltre, la sentenza sarebbe viziata da insufficiente e/o contraddittoria motivazione in quanto, pur riconoscendo che il presupposto ICI è costituito dal possesso degli immobili, ha considerato contraddittoriamente a carico della società un debito relativo ad un periodo in cui si era verificato lo spossessamento della società fallita.

Entrambi i ricorsi sono infondati. Quanto alla censura del ricorrente principale, giova premettere che l’avviso di accertamento e di liquidazione, notificato il 5 febbraio 2003, fu emesso dal Comune di Mirandola nei confronti del S. personalmente e non quale curatore del fallimento della società S.Giacomo s.r.l, contestandogli direttamente l’omessa denuncia ai fini ICI, con l’applicazione delle relative sanzioni, ed accertando a suo carico l’imposta dovuta per gli anni dal 1993 al 2001. La circostanza, già risultante dall’intestazione dell’avviso e dall’indicazione, come luogo di recapito, dello studio professionale del curatore e non già della sede della società, è pacificamente riconosciuta dallo stesso ricorrente sia nel ricorso in primo grado – pag. 2. parzialmente trascritta dal contro ricorrente – nella parte in cui deduce “non v’è dubbio che la pretesa esteriorizzata dal Comune … debba intendersi rivolta al dott. S.M. personalmente e non al medesimo quale organo della procedura” sia nelle controdeduzioni in secondo grado – pag. 2 sempre trascritta in ricorso dal ricorrente incidentale – nella parte in cui scrive con avviso di accertamento … il Comune di Mirandola contestava al dott. S. l’omessa denuncia ai fini dell’ICI … enunciando la pretesa nei suoi confronti siccome curatore del Fallimento” eccependo sin dall’avvio del giudizio che il Comune avrebbe dovuto emettere l’avviso, non nei suoi confronti, ma nei confronti della società tornata in bonis.

Ciò premesso, corre l’obbligo di chiarire che, nel ritenere la fondatezza della pretesa tributaria nei confronti del curatore fallimentare limitatamente alle sanzioni pecuniarie e non anche in ordine all’imposta dovuta il giudice di secondo grado non violò affatto il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, giacche si limitò ad accogliere, sia pure soltanto in parte, la pretesa tributaria avanzata dal Comune con l’atto impugnato.

Nè in alcun modo ebbe a violare il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57.

Ed invero, premesso che il principio generale dell’esclusione dello ius novorum nel giudizio tributario di appello espresso nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 comporta la preclusione del mutamento in secondo grado degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa, deve sottolinearsi che l’accoglimento parziale del petitum proposto dal Comune non comportò per ragioni di ovvia evidenza nè il mutamento del tema di indagine nè il mutamento del tema della decisione portandoli su clementi di fatto diversi da quelli già presenti nel giudizio di primo grado.

Ugualmente infondato è inoltre il profilo di censura, riguardante l’omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 formulato dal ricorrente principale riguardo alla distinzione operata dalla CTR in tema di imputabilità del debito di imposta da una parte e delle sanzioni pecuniarie dall’altra, ed invero, la Commissione di secondo grado, contrariamente alla doglianza del ricorrente, non ha invece omesso di motivare a riguardo, evidenziando opportunamente come a suo avviso sussistesse la necessità di operare valutazioni differenziate in quanto, se il presupposto dell’imposta e costituito dal possesso degli immobili, i quali restano nel patrimonio del proprietario anche durante la procedura fallimentare, al contrario “le sanzioni amministrative sono riferibili alla persona fisica che ha commesso la violazione di norme tributarie”, a norma del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 2, comma 2. Ne deriva che la CTR ha provveduto a spiegare in maniera chiara le ragioni della sua decisioni così da consentire il controllo della correttezza del percorso logico-argomentativo intrapreso.

Ed è appena il caso di sottolineare, a riguardo, come il ricorrente principale non abbia assolutamente censurato la sentenza impugnata sotto il profilo della violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 2, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 con la conseguenza che non è tema che possa essere esaminato in questa sede la questione della responsabilità del curatore fallimentare in riferimento alla norma applicata da giudice regionale e della sua sopravvivenza a seguito dell’intervento del D.L. n. 269 del 2003, convertito nella L. n. 326 del 2003, art. 7, secondo cui le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridiche sono esclusivamente a carico della persona giuridica. Passando infine all’esame della doglianza formulata dal ricorrente incidentale, mette conto di premettere che la dichiarazione di fallimento di un’impresa non comporta il suo venir meno, ma solo la perdita della legittimazione sostanziale e processuale da parte del suo titolare (cfr Cass. 12893/07). Giova aggiungere che, poichè la ratio della procedura concorsuale è quella di assicurare unitariamente l’esecuzione sul patrimonio del fallito e di assicurare la par condicio creditorum, la perdila della legittimazione sostanziale non significa affatto perdita della titolarità dei rapporti nè dal lato attivo nè dal lato passivo. Del resto, la stessa incapacità processuale è soltanto relativa nel senso che il fallimento determina per il fallito la perdita della capacità di stare in giudizio limitatamente ai rapporti nei quali subentra il curatore, per cui egli, il fallito, può ancora agire, senza alcuna autorizzazione, sia sul piano sostanziale che processuale, per far valere i diritti strettamente personali, ovvero i diritti patrimoniali, dei quali si disinteressino gli organi del fallimento.

La premessa torna utile nella misura in cui evidenzia come un’impresa non sia privata, per effetto del fallimento, della sua veste di soggetto passivo del rapporto tributario. Ne deriva che la sentenza impugnata non merita censura alcuna quando la C.T.R. ha ritenuto che il debito di imposta doveva ricadere, non sul curatore, bensì sulla società fallita, alla quale nelle more della procedura concorsuale gli immobili, oggetto dell’alienazione di cui al decreto di trasferimento in data 8.2.01, continuavano ad appartenere a titolo di proprietà. Nè sussiste la dedotta contraddittorietà della motivazione, per aver la CTR dapprima riconosciuto i presupposto dell’ICI nel possesso degli immobili e quindi “considerato a carico della società un debito relativo ad un periodo in cui si era verificato lo spossessamento della società fallita” alla luce del consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui soltanto all’emissione del decreto di trasferimento degli immobili compresi nel fallimento a cura del giudice delegato deve essere ricollegato l’effetto traslativo della proprietà dei beni con conseguente mutamento del soggetto passivo dell’imposta a norma del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 3 (Cass. n. 17636/04, n. 24670/07, n. 9384/09).

Considerato che la sentenza impugnata appare in linea con i principi richiamati, ne consegue che anche il ricorso incidentale in esame, siccome infondato, deve essere rigettato. Sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese di questo giudizio in considerazione del rigetto di entrambi i ricorsi proposti.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Compensa tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2010

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