Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15461 del 22/06/2017

Cassazione civile, sez. I, 22/06/2017, (ud. 12/04/2017, dep.22/06/2017),  n. 15461

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco A. – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16882/2013 proposto da:

L.R.A., (c.f. (OMISSIS)), La.Ro.An. (c.f. (OMISSIS))

e L.V.G. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliati in

Roma, Circonvallazione Trionfale n. 47, presso l’avvocato Consalvi

Cristiana, che li rappresenta e difende, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Italfondiario S.p.a., (incorporante della Castello Gestione Crediti

S.r.l.), nella qualità di procuratrice della Castello Finance

s.r.l., a sua volta cessionaria dei crediti di Intesa Gestione

Crediti s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via Alfredo Casella n. 38, presso

l’avvocato Sabbadini Giancarlo, che la rappresenta e difende

unitamente agli avvocati Raffa Michele, Tasca Pierluigi, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 572/2012 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 21/05/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/04/2017 dal cons. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con sentenza del 6 febbraio 2006 il Tribunale di Sanremo, in parziale accoglimento dell’opposizione, proposta da L.R.A., La.Ro.An. e L.V.G., avverso il decreto ingiuntivo emesso nei loro confronti su ricorso di Intesa BCI Gestione Crediti s.p.a., ora Italfondiario, revocava il detto provvedimento monitorio e condannava gli opponenti al pagamento della somma di Euro 98.673,90, oltre interessi convenzionali.

2. – La sentenza era impugnata dagli ingiunti, i quali domandavano alla Corte di appello di Genova la declaratoria di nullità della sentenza, l’accertamento della illiceità del comportamento della banca nell’applicazione di interessi anatocistici e usurari, la condanna della stessa alla restituzione delle somme indebitamente addebitate e al risarcimento dei danni.

La Corte ligure, nella resistenza della banca, con sentenza pubblicata in data 21 maggio 2012, riformava la pronuncia di primo grado condannando gli appellanti, in solido, al pagamento della somma di Euro 62.149,51 oltre interessi. Tale importo risultava essere la sommatoria dei saldi debitori – pari a Euro 52.918,17 – di alcuni conti correnti, nei quali erano confluite le spettanze della banca per due prestiti d’uso d’oro, e di quanto ancora dovuto alla stessa banca a titolo di rimborso per un finanziamento di Lire 50.000.000: rimborso che doveva essere ancora onorato per Euro 9.231,34.

La pronuncia è impugnata per cassazione da L.R.A., La.Ro.An. e L.V.G.; i motivi di ricorso sono quattro. Resiste con controricorso Italfondiario. I ricorrenti hanno depositato la memoria di cui all’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1283 c.c. e dell’art. 644 c.p., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Rilevano i ricorrenti che la Corte di merito aveva conferito prevalenza ai conteggi elaborati dal consulente tecnico che escludevano, ai fini del calcolo del T.E.G., la commissione di massimo scoperto. Osservano, al riguardo, che la predetta commissione andava considerata nel procedimento di verifica del carattere usurario degli interessi, trattandosi di un costo collegato all’erogazione del credito, costituendo essa il corrispettivo dell’onere, per la banca, di tenere a disposizione del cliente una provvista di liquidità. Rilevano, altresì, che il giudice dell’impugnazione aveva erroneamente deciso anche la questione afferente la capitalizzazione trimestrale degli interessi relativi ai contratti di prestito d’uso d’oro; osservano che gli interessi trimestrali previsti nei suddetti contratti costituivano remunerazione per l’impiego del metallo prezioso nell’arco del periodo e che, pertanto, tali interessi avrebbero dovuto essere considerati dal c.t.u. e dalla Corte territoriale. Concludono gli istanti ricordando come le istruzioni della Banca d’Italia non avessero valore vincolante per gli istituti bancari e che la soglia dell’usura andava rideterminata seguendo i criteri fissati dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 2 bis, comma 2.

1.1. – Il motivo va disatteso.

Nella prima parte esso si basa su di un evidente fraintendimento. Infatti, diversamente da quanto opinano i ricorrenti, la Corte di appello ha incluso la commissione di massimo scoperto nel calcolo del T.E.G. (e quindi del tasso soglia), recependo, sul punto, le affermazioni della giurisprudenza penale di questa Corte in tema di usura (cfr. sentenza impugnata, pag. 6). Gli ulteriori rilievi formulati dagli istanti nella memoria ex art. 378 c.p.c. (pagg. 3 ss.), i quali si basano su una ricognizione della consulenza esperita in grado di appello (la quale evidenzierebbe che le commissioni di massimo scoperto sarebbero state computate solo parzialmente ai fini del calcolo del tasso soglia), si collocano al di fuori del perimetro del motivo (per come articolato in ricorso), e prospettano, oltretutto, una questione di fatto riguardo alla quale l’atto di impugnazione è, comunque, carente di autosufficienza.

Alla luce di quanto sopra risulta pure non conferente la censura fondata sul richiamo al D.L. n. 185 del 2008.

Per quanto riguarda, invece, la capitalizzazione degli interessi maturati sui prestiti d’uso in oro, la Corte di merito ha motivatamente escluso l’anatocismo sulla base dei seguenti, rilievi: i contratti di prestito in questione avevano una durata trimestrale e prevedevano perciò la liquidazione, sempre trimestrale, degli interessi; il mancato pagamento degli interessi alla scadenza pattuita ne giustificava l’addebito sul conto corrente “di appoggio”; tali interessi non potevano quindi considerarsi anatocistici, non consistendo in interessi trimestrali maturati sugli interessi passivi del conto corrente, ma costituivano, piuttosto, poste passive di un rapporto contrattuale diverso da quello di conto corrente, sebbene fossero affluite sul conto stesso alla scadenza trimestrale (pagg. 6 s. della sentenza). Tali affermazioni sono corrette: è inconfutabile che il semplice transito degli interessi sul conto corrente non determini alcun fenomeno anatocistico; non risulta poi accertato, da parte del giudice del merito, che i predetti interessi siano stati capitalizzati (non rilevando, all’evidenza, che essi siano stati liquidati con cadenza trimestrale), nè i ricorrenti formulano, sul punto, una censura munita della necessaria specificità e dell’altrettanto doverosa chiarezza.

2. – Con il secondo motivo vengono denunciate la violazione e falsa applicazione dell’art. 1815 c.c., comma 2, e dell’art. 1284 c.c., comma 3, nonchè dell’art. 644 c.p.; è anche dedotto un vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un fatto controverso del giudizio. Si dolgono i ricorrenti di due affermazioni contenute nella sentenza impugnata: quella per cui la rideterminazione dei saldi dei conti correnti, depurata dall’anatocismo e dalla commissione di massimo scoperto, conduceva a un saldo finale complessivo comunque ampiamente a credito per la banca; quella per la quale solo per due conti correnti, e solo per pochi trimestri, si era riscontrato il superamento del tasso soglia. I ricorrenti rilevano che il superamento, pure occasionale, del tasso soglia determinava la nullità delle clausole che prevedevano gli interessi; censurano, al riguardo, la pronuncia impugnata, per omessa pronuncia in ordine alla richiesta di declaratoria di nullità dei singoli contratti di finanziamento, di anticipo, di affidamento, di prestito d’uso, di fideiussione e di conto corrente. Osservano, inoltre, che la Corte di Genova non aveva eliminato “dai saldi contabili presentati dal c.t.u. (…) gli interessi anatocistici e definiti usurari, perchè superanti il tasso di soglia”: a tale riguardo richiamano le risultanze desumibili da una relazione del consulente tecnico di parte. Deducono infine che la sentenza impugnata andava cassata anche per una carenza motivazionale, dal momento che il superamento della soglia usuraria riscontrata per due soli contratti e per pochi trimestri imponeva di affermare l’inesistenza del diritto della banca quanto alla corresponsione degli interessi, anche legali.

2.1 – Le esposte censure non hanno fondamento.

L’accertamento contabile relativo ai singoli rapporti sfugge, come è evidente, al sindacato di questa Corte. Nè esso può essere posto in discussione in questa sede sulla scorta dei rilievi svolti in una consulenza tecnica di parte, di cui non è precisata la localizzazione all’interno dei fascicoli delle fasi di merito e di cui non è nemmeno riprodotto il contenuto. E’ appena il caso di ricordare che, in base all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, compete al ricorrente indicare esattamente nel ricorso in quale fase processuale siano stati acquisiti i documenti ed in quale fascicolo di parte essi si trovino: incombente che assolve al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli, d’ufficio o di parte (Cass. 12 dicembre 2014, n. 26174; Cass. 7 febbraio 2011, n. 2966; Cass. 3 luglio 2009, n. 15628). Inoltre i documenti debbono essere riportati nella loro completezza in modo da consentire alla Corte una compiuta valutazione circa la loro decisività (sul punto cfr. Cass. 28 febbraio 2006, n. 4405; in senso sostanzialmente conforme, tra le tante: Cass. 28 giugno 2006, n. 14973; Cass. 8 settembre 2006, n. 19305; Cass. 20 febbraio 2007, n. 3920; Cass. 16 febbraio 2007, n. 3651; Cass. 11 giugno 2007, n. 13619; Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 3 gennaio 2014, n. 48): il che significa che, nella fattispecie, gli istanti erano onerati di trascrivere gli stralci dell’elaborato, da loro richiamato, su cui intendevano fondare la censura; solo in tal modo, difatti, le loro deduzioni avrebbero potuto assumere un sufficiente livello di specificità.

D’altro canto, la pronuncia impugnata poggia sull’accertamento compiuto dal c.t.u. e la contestazione dell’esattezza delle conclusioni dell’espletata consulenza mediante la pura e semplice contrapposizione ad esse delle diverse valutazioni espresse dal consulente tecnico di parte non serve, di per sè, ad evidenziare alcun errore delle prime – con conseguente insufficienza della motivazione della sentenza che ad esse si sia limitata a riferirsi -, ma solo la diversità dei giudizi formulati dagli esperti (Cass. 28 marzo 2006, n. 7078; Cass. 12 agosto 1994, n. 7392).

Per quel che concerne, poi, il tema della mancata elisione degli interessi – operazione, questa, che è evidentemente prospettata avendo riguardo al disposto dell’art. 1815 c.c., comma 2, secondo cui se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi – deve osservarsi che anche sul punto si delinea una carenza di autosufficienza del motivo, giacchè gli istanti non trascrivono i brani della consulenza tecnica d’ufficio che sarebbero rilevanti per la precisa comprensione delle modalità di ricalcolo dei saldi debitori. Oltretutto, la censura è articolata in maniera contraddittoria, dal momento che in rubrica sono invocate violazioni di legge, oltre che un vizio motivazionale, mentre nel corpo del motivo si lamenta una omessa pronuncia (fattispecie, questa, riconducibile, come è ben noto, all’error in procedendo).

3. – Il terzo mezzo contiene una censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 117 e dell’art. 118, commi 1, 2 e 3 t.u.b.. Si assume che dagli atti e dai documenti di causa era emerso che la banca, unilateralmente, aveva innalzato il tasso di interesse, senza darne preavviso al cliente, finendo per richiedere arbitrariamente allo stesso maggiori importi non dovuti: non risultava, infatti, che fosse stata sottoscritta l’apposita clausola relativa allo jus variandi con riguardo ai contratti concernenti i prestiti in oro e ciò poteva evincersi dagli estratti conto trasmessi dalla banca al momento dell’addebito degli interessi sui contratti di conto corrente. Viene dedotto che tali interessi erano stati addebitati a un tasso tre volte superiore, “facendo lievitare il montante in capitalizzazione composta”. Nel corpo del motivo, che è svolto in modo alquanto confuso, si rileva altresì che la banca, con la propria condotta, aveva violato il precetto dettato dall’art. 1287 c.c.: si richiama, in particolare, la consulenza tecnica d’ufficio da cui sarebbe risultato che “gli interessi sono stati estrapolati dei conti e messi in addebito a fine rapporto senza specificare le motivazioni, in netto contrasto con il precetto dettato dall’art. 1287 c.c., costituendo comunque un nuovo montante (…) sul nuovo saldo contemplato nella sentenza impugnata”.

3.1. – Il motivo non merita accoglimento.

Della questione relativa all’incremento del tasso di interesse la sentenza impugnata non parla, nè i ricorrenti chiariscono come la stessa fosse stata proposta in fase di gravame. Come è noto, ove con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; cfr. pure: Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391; Cass. 12 luglio 2006, n. 14599; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2270).

Per il resto, il mezzo prospetta temi che, oltre ad essere esposti in modo poco chiaro, sfuggono al sindacato di legittimità e risultano pure carenti della necessaria specificità, avendo particolarmente riguardo alle risultanze di causa cui dovrebbero aderire.

4. – Con il quarto motivo è lamentata violazione di legge con riferimento all’art. 644 c.p., nonchè insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto controverso decisivo per il giudizio. La censura ha ad oggetto la statuizione nella sentenza impugnata con cui è respinta la domanda risarcitoria. Sostengono i ricorrenti che la responsabilità della banca sussisteva in ragione della condotta illecita imputabile a quest’ultima. Osservano di aver subito un gravissimo danno conseguente alla loro segnalazione alla Centrale dei rischi della Banca d’Italia e fanno altresì menzione degli ulteriori danni patiti a titolo di perdita di chance, avendo riguardo alla mancata erogazione del credito, nonchè ai pregiudizi patrimoniali consistenti sia “nel mancato plusvalore del magazzino merci a decorrere dall’anno 2002 sino al 2012 e nel fatto di non aver potuto sviluppare alcun investimento sul magazzino” sia nel “blocco totale – derivato dalla trascrizione del pignoramento degli immobili dei fideiussori”. Lamentano inoltre i ricorrenti che non sia stato liquidato in loro favore il danno all’immagine, all’onore e alla reputazione sociale in conseguenza della segnalazione alla Centrale dei rischi: evidenziano, al riguardo, che il danno non patrimoniale subito dal soggetto illegittimamente segnalato è in re ipsa.

4.1. – Il motivo non è fondato.

Con riguardo al danno la Corte di merito ha osservato che, in considerazione dell’opinabilità e della mancata uniformità delle interpretazioni giurisprudenziali quanto al calcolo del TEG, mancavano le condizioni per attribuire rilevanza penale alla condotta della banca, e ciò quantomeno sotto il profilo dell’elemento psicologico del reato; lo stesso giudice dell’impugnazione ha poi evidenziato che le indagini tecniche avevano consentito di ridurre, e non di azzerare, l’oggetto della pretesa creditoria e che, essendo gli appellanti inadempienti, non poteva affermarsi che ad essi dovesse risarcirsi un danno.

Ora, con riferimento alla quantificazione del danno patrimoniale, i ricorrenti utilizzano argomenti che, a quanto consta, presentano carattere di novità. Peraltro, per affermare l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale, i medesimi avrebbero dovuto allegare e provare, nella precedente fase, che il danno stesso ebbe a determinarsi nonostante la loro inadempienza nei confronti della banca (inadempienza conclamata, anche se ridimensionata, nel corso del giudizio, rispetto a quanto inizialmente dedotto con la domanda monitoria dall’odierna controricorrente): di contro, nemmeno nel ricorso per cassazione i ricorrenti spiegano perchè, ad esempio, la perdita di chance correlata all’infondato addebito della somma di Euro 99.667.62 (pari a quanto intimato col provvedimento ingiuntivo) non si sarebbe prodotta in presenza della minore esposizione di Euro 62.149,51 (accertata dalla Corte di appello).

Per quel che concerne il danno non patrimoniale, poi, la decisione si fonda sulla ritenuta insussistenza dell’elemento soggettivo del reato di usura. Il relativo accertamento sfugge al sindacato di legittimità in quanto appare congruamente motivato (per una analoga fattispecie, si veda Cass. pen. 19 febbraio 2010, n. 12028, in motivazione). Correttamente, del resto, la Corte di Genova ha conferito rilievo, sul piano giuridico, all’elemento soggettivo del reato. Infatti, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, nell’ipotesi di fatto illecito astrattamente configurabile come reato, l’accertamento del giudice civile deve essere condotto secondo la legge penale e deve avere ad oggetto l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi: ne consegue che, affinchè possa ritenersi configurato un reato e consequenzialmente la responsabilità del suo autore per il danno non patrimoniale, occorre non solo che sia integrato l’elemento materiale del reato, ma anche l’elemento psicologico, il cui mancato accertamento esclude l’ipotizzabilità del danno non patrimoniale ai sensi del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. (Cass. 25 settembre 2009, n. 20684; Cass. 14 febbraio 2000, n. 1643).

5. – Il ricorso è rigettato.

6. – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

 

LA CORTE

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie, nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione prima Civile, il 12 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2017

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