Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15454 del 14/07/2011

Cassazione civile sez. III, 14/07/2011, (ud. 27/04/2011, dep. 14/07/2011), n.15454

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6368/2009 proposto da:

Z.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato SEVERINI

Fabio, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GALLESE

RICCARDO giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO SALUTE, PROCURA REPUBBLICA PRESSO TRIBUNALE PADOVA,

CONSIGLIO ORDTNE MEDICI VETERINARI PROVINCIA PADOVA, COMMISSIONE

CENTRALE ESERCENTI PROFESSIONI SANITARIE;

– intimati –

avverso la decisione n. 34/2008 della COMMISSIONE CENTRALE ESERCENTI

PROFESSIONI SANITARIE di ROMA, emessa il 28/3/2008, depositata il

31/12/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

27/04/2011 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso con il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. Z.A., medico veterinario, ha proposto ricorso per cassazione contro la decisione del 31 dicembre 2008, con la quale la Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie ha rigettato il ricorso da lui proposto avverso la decisione del 25 maggio 2005, con la quale l’Ordine dei Medici Veterinari della Provincia di Padova gli aveva irrogato la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per mesi uno, in relazione a due addebiti disciplinari, il primo consistito nell’avere eseguito interventi ad una tariffa inferiore al minimo ed il secondo nell’avere instaurato una convenzione con l’Ente Lega Nazionale per la Difesa del Cane, senza inviare questa per la preventiva approvazione all’ordine professionale.

p.2. Il ricorso è stato proposto contro la stessa Commissione, il Ministro della Salute, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Padova ed il Consiglio dell’Ordine dei Medici veterinari della Provincia di Padova.

Nessuno degli intimati ha resistito.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Il ricorso prospetta sei motivi.

Il primo, relativo a violazione di norme sul procedimento, concerne il giudizio disciplinare nella sua interezza e, quindi, la decisione impugnata quanto ad entrambi gli illeciti ascritti al ricorrente.

Il secondo, il terzo, il quarto ed il sesto motivo riguardano questioni, il primo di diritto processuale, e gli altri di diritto sostanziale, afferenti solo all’illecito relativo alla inosservanza dei minimi tariffari.

Il quinto motivo riguarda, sempre sotto il profilo del diritto sostanziale, soltanto l’altro illecito disciplinare.

p.2. Con il primo motivo di ricorso si deduce “nullità del procedimento di 1^ grado per violazione del diritto di difesa in relazione alla L. n. 221 del 1950, art. 39 ed agli artt. 24 e 111 Cost.”.

L’esposizione del motivo inizia con l’asserto che “la decisione impugnata non ha colto il senso ed il contenuto della eccezione della nullità del procedimento per violazione del diritto del ricorrente”.

Seguono: a) un richiamo alla natura amministrativa del procedimento disciplinare davanti al Consiglio dell’Ordine ed alla natura giurisdizionale del procedimento davanti alla Commissione centrale;

b) la riproduzione del principio di diritto di cui a Cass. n. 7765 del 2005; c) l’asserzione che la questione di nullità del “procedimento di primo grado”, cioè di quello amministrativo, era stata prospettata alla Commissione con un motivo e precisamente con la seguente espressione: “occorre preliminarmente eccepire e rilevare la nullità del procedimento disciplinare quale concretamente posto in essere dall’Ordine professionale di Padova, per violazione del diritto di difesa del ricorrente sotto diversi profili. Anzitutto la documentazione relativa al procedimento disciplinare non è stata posta immediatamente a disposizione del ricorrente e ciò quando ne fu fatta richiesta dal sottoscritto difensore”; d) la specificazione che la “eccezione” era stata sollevata non solo con riferimento a quanto avvenuto nel corso del procedimento “di primo grado, laddove è stato negato all’incolpato di avere copia degli esposti prima di essere sentito a difesa, quanto piuttosto con l’inspiegabile quanto censurabile comportamento del C.d.O. dei Medici Veterinari di Padova che, dopo l’emissione della propria decisione, si è rifiutato di rilasciare copia alla parte ed al suo difensore, la copia degli atti e documenti del fascicolo”, di modo che “con detto comportamento si è impedito al ricorrente di avere piena conoscenza di tutti gli atti su cui la decisione era stata assunta”.

Dopo queste deduzioni si assume che la questione proposta con il motivo, “di violazione del procedimento e del diritto di difesa, sarebbe relativa a due comportamenti ben precisi”, “uno relativo al mancato rilascio degli esposti che avevano originato l’azione disciplinare durante la fase istruttoria del procedimento, quando il ricorrente è stato chiamato a discolparsi”, “il secondo perchè alla difesa non è stato concesso il diritto di prendere visione del verbale delle testimonianze rese dal C.d.O. di Padova, con la conseguenza che il ricorso alla Commissione Centrale è stato avanzato senza la completa documentazione e basandosi solo sulla memoria dei partecipanti”.

p.2.1. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

E’ inammissibile per difetto di indicazione specifica degli atti processuali su cui si fonda, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, quanto alla censura relativa alla seconda pretesa violazione delle norme del procedimento a presidio del diritto di difesa, cioè il mancato rilascio del verbale delle testimonianze rese al Consiglio dell’Ordine in vista della proposizione del ricorso alla Commissione Centrale: infatti, non si fornisce alcuna indicazione – a differenza di quanto si fa riproducendo il passo sopra riportato – del tenore dell’atto di impugnazione davanti a essa con il quale la doglianza sarebbe stata dedotta.

Onde il motivo, quanto alla censura in questione, è privo di autosufficienza, principio che nell’art. 366 c.p.c., n. 6, trova il suo precipitato normativo.

La censura sarebbe, comunque, inammissibile anche per difetto di specificità, poichè non si fornisce alcuna precisazione su come e perchè la mancata disponibilità dei verbali delle testimonianze abbia in concreto leso l’esercizio del diritto di difesa per il tramite dell’impugnazione davanti alla Commissione. E’ palese che, avendo il ricorrente potuto prendere visione nel procedimento davanti ad essa dei verbali, avrebbe dovuto e potuto evidenziare in questa sede quali elementi da essi risultanti e quali elementi tendenti a criticare la rappresentazione in essi fornita non aveva potuto utilmente indicare a sostegno dell’impugnazione davanti alla Commissione. Sicchè, la denunciata violazione del diritto di difesa appare del tutto astratta e, sia pure a livello di enunciazione come motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, priva di decisività, cioè carente della necessaria allegazione di come essa abbia potuto incidere negativamente sulla decisione. Ne consegue che, se la censura fosse esaminabile, l’apprezzamento della sua fondatezza risulterebbe impossibile, perchè, se anche la violazione lamentata fosse stata compiuta, il suo riconoscimento non potrebbe giustificare la cassazione della decisione impugnata senza che fosse dimostrato che da essa il ricorrente ha ricevuto un concreto pregiudizio.

p.2.2. Con riferimento alla prima censura, viceversa, il Collegio osserva che essa appare infondata, al lume dello stesso principio di diritto evocato dal ricorrente, cioè quello affermato da Cass. n. 7765 del 2005 nei seguenti termini: “In tema di procedimento disciplinare a carico di professionisti esercenti la professione medico sanitaria, ogni questione relativa ad eventuali irregolarità della fase amministrativa deve essere posta dall’interessato in limine, o comunque prima che sia assunta la decisione, affinchè l’organo disciplinare sia posto in condizione di dimostrare immediatamente l’insussistenza ovvero l’irrilevanza della irregolarità (nella specie, mancata presenza del relatore nella fase istruttoria). In difetto di rilievi di sorta, in tale fase, da parte dell’incolpato, ogni questione relativa alla validità della seduta della Commissione di disciplina deve ritenersi preclusa e, dunque, non più prospettabile innanzi alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, chiamata a decidere sul ricorso dell’incolpato avverso la decisione a lui contraria”.

L’infondatezza emerge per il fatto che dalla stessa illustrazione del motivo risulta che la mancata messa a disposizione degli esposti dai quali prese avvio il procedimento disciplinare non fu fatta oggetto di prospettazione come irregolarità all’autorità disciplinare.

Infatti, nella illustrazione del motivo si omette qualsiasi specificazione al riguardo, mentre dall’esposizione del fatto emerge che, dopo la richiesta di copia degli esposti, l’invito dell’Ordine alla riformulazione della richiesta con controfirma del qui ricorrente e la reiterazione in conformità con lettera raccomandata del 7 dicembre 2004, il ricorrente, essendo rimasta senza esito la richiesta, si limitò a formulare nuovamente una sollecitazione, mentre non prospettò, o almeno dice di averla prospettata nel successivo sviluppo del procedimento disciplinare, una formale questione di irregolarità del procedimento.

Non risulta, dunque, allegato che alla perdurante inerzia dell’autorità disciplinare, il ricorrente abbia fatto, all’atto dell’apertura del procedimento con la raccomandata del 28 febbraio 2005, la formale prospettazione della questione di irregolarità.

Ne discende che la questione non avrebbe potuto formare oggetto di impugnazione davanti alla Commissione e quest’ultima avrebbe dovuto rilevare l’inammissibilità del relativo motivo.

Tale inammissibilità dev’essere rilevata dal Collegio e comporta soltanto la correzione della motivazione della decisione impugnata in senso conforme, fermo il dispositivo di essa.

3. Con il secondo motivo si lamenta “violazione di legge, violazione del diritto di difesa in relazione alla L. n. 221 del 1950, art. 39, ed agli artt. 24 e 111 Cost., lamentandosi che, la Commissione, affermando che “allo stato pertanto la documentazione prodotta dal ricorrente appare lacunosa e inidonea a sovvertire il convincimento che lo stesso praticasse tariffe non rispondenti ai minimi”, avrebbe determinato una inversione dell’onere della prova a carico del ricorrente quale incolpato, nel mentre nel giudizio disciplinare vige il principio accusatorio.

p.3.1. Il motivo – che, come s’è detto, si riferisce soltanto all’illecito disciplinare relativo alla inosservanza di minimi tariffari (come è reso palese, se ve ne fosse bisogno, dal quesito di diritto che lo chiude) – è privo di fondamento.

Il passo motivazionale censurato non è idoneo ad evidenziare la prospettata inversione dell’onere della prova, atteso che il riferimento alla inidoneità della documentazione prodotta dal ricorrente non ne è sintomatico, prestandosi ad essere inteso anche come relativo a documentazione prodotta in replica ad emergenze istruttorie contrarie addotte dall’autorità disciplinare ed esistenti in atti, evidenziatrici dell’illecito contestato: sarebbe stato necessario che il ricorrente evidenziasse con opportuni riferimenti allo svolgimento processuale o l’assenza o l’inconsistenza di tali elementi.

In sostanza, il passo motivazionale censurato non rivela affatto la violazione prospettata.

p.4. Con il terzo motivo si denuncia “violazione di legge, violazione degli artt. 10 e 81 (ex art. 85) del Trattato Istitutivo della Comunità Europea”.

Vi si prospetta che erroneamente la Commissione avrebbe disatteso il motivo di impugnazione con cui si era dedotta la contrarietà della tariffa approvata dal C.d.O. dei Medici Veterinari di Padova, in quanto obbligatoria, alle disposizioni degli artt. 10 e 81 (ex 85) del Trattato CE, in quanto discorsive del mercato e limitative della libertà di concorrenza.

La valutazione espressa in tal senso dalla Commissione (che nella motivazione ha anche rilevato che ratione temporis non era applicabile comunque la disciplina di cui al D.L. n. 223 del 2006, convcrtito nella L. n. 248 del 2006, che ha soppresso l’obbligatorietà delle tariffe ove prevista ed imposto ai vari codici deontologici professionali di adeguarsi) nel senso della compatibilità dell’obbligatorietà delle tariffe con l’ordinamento comunitario sarebbe stata erronea, poichè non avrebbe considerato che nella specie – a differenza di quelle degli avvocati – le tariffe della professione veterinaria sono approvate senza che abbia luogo uno dei presupposti in presenza dei quali la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE ha ammesso che un sistema di obbligatorietà delle tariffe professionali possa essere compatibile con le cennate disposizioni comunitarie. Tale presupposto sarebbe rappresentato dall’esistenza di un potere statale di vigilanza e sorveglianza sulle determinazioni degli ordini, come quello previsto per gli avvocati, per i quali la tariffa stessa è approvata dall’autorità statale, tant’è che viene emanata con un D.M..

A sostegno del motivo viene citata la sentenza resa dalla Corte di Giustizia CE sulla causa C-35/99 e quella resa nei procedimenti riuniti C-94/04 e C-202/04 proprio a proposito delle tariffe degli avvocati.

p.4.1. Il motivo è fondato.

Premesso che nella specie viene in rilievo il problema della compatibilità con le norme del Trattato CE su indicate di discipline interne, se del caso di diretta emanazione dagli ordini professionali, prescrittive di minimi da osservarsi obbligatoriamente dal professionista nei rapporti con i clienti, il Collegio rileva che l’incidenza di dette norme è stata chiarita – come sostiene il ricorrente – dalla Corte di Giustizia CE dapprima nella sentenza resa nella causa C-35/99 (Arduino) e, quindi, nella sentenza della Grande Sezione del 5 dicembre 2006, resa sulle cause riunite C-94/04 (Cipolla) e C-202/04 (Macrino).

Tali sentenze sono, com’è noto, intervenute sulle tariffe obbligatorie relative alla professione forense, ma hanno posto dei principi che sono da ritenere estensibili alla problematica nascente dall’obbligatorietà delle tariffe professionali in generale e, quindi, anche alle tariffe della professione medica e veterinaria.

La prima sentenza si espresse in questi sensi: “(…) 32. Con le sue questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice a quo chiede sostanzialmente se gli artt. 5 del Trattato CE (divenuto art. 10 CE) e 85 del Trattato ostino all’adozione da parte di uno Stato membro di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell’ordine, qualora tale misura statale sia adottata nell’ambito di un procedimento come quello previsto dalla normativa italiana. 33. In via preliminare, la Corte rileva che, estendendosi a tutto il territorio di uno Stato membro, la detta misura statale può pregiudicare il commercio tra gli Stati membri ai sensi dell’art. 85, n. 1, del Trattato (v., in tal senso, precitata sentenza Commissione/Italia, punto 48). 34. Anche se è vero che, di per sè, l’art. 85 del Trattato riguarda esclusivamente la condotta delle imprese e non le disposizioni legislative o regolamentari emanate dagli Stati membri, ciò non toglie che tale articolo, in combinato disposto con l’art. 5 del Trattato, obbliga gli Stati membri a non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, idonei a eliminare l’effetto utile delle regole di concorrenza applicabili alle imprese sentenze 21 settembre 1988, causa 267/86, Van Eycke, Racc. pag. 4769, punto 16, 17 novembre 1993, causa C-185/91, Reiff, Racc. pag. 1-5801, punto 14, 9 giugno 1994, causa C-I53/93, Delta Schiffahrts- und Speditionsgesellschaft, Racc. pag. 1-2517, punto 14, 5 ottobre 1995, causa C-96/94, Centro Servizi Spediporto, Racc. pag. 1-2883, punto 20, e Commissione/Italia, precitata, punto 53; v. anche, per quanto riguarda l’art. 86 del Trattato CE (divenuto art. 82 CE), sentenza 16 novembre 1977, causa 13/77, GB-Inno-BM, Racc. pag. 2115, punto 31.

35. La Corte ha dichiarato che si è in presenza di una violazione degli artt. 5 e 85 del Trattato quando uno Stato membro imponga o agevoli la conclusione di accordi in contrasto con l’art. 85, o rafforzi gli effetti di siffatti accordi, ovvero tolga alla propria normativa il suo carattere pubblico delegando ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni d’intervento in materia economica (v. precitate sentenze Van Eycke, punto 16, Reiff punto 14, Delta Schiffahrts- und Speditionsgesellschaft, punto 14, Centro Servizi Spediporto, punto 21, e Commissione/Italia, punto 54). 36. Al riguardo, il fatto che uno Stato membro prescriva ad un’organizzazione di categoria l’elaborazione di un progetto di tariffa per le prestazioni non priva automaticamente la tariffa infine redatta del suo carattere di normativa statale. 37. Lo stesso vale quando i membri dell’organizzazione di categoria possono essere qualificati come esperti, indipendenti dagli operatori economici interessati, e sono tenuti dalla legge a fissare le tariffe prendendo in considerazione non soltanto gli interessi delle imprese o delle associazioni di imprese del settore che li ha designati, ma anche l’interesse generale e gli interessi delle imprese degli altri settori o degli utenti dei servizi di cui trattasi (v., in tal senso, precitate sentenze Reiff, punti 17-19 e 24; Delta Schiffahrts- und Speditionsgesellschaft, punti 16-18 e 23, 17 ottobre 1995, cause riunite da C-140/94 a C-142/94, DIP e a., Racc. pag. 1-3257, punti 18 e 19, e Commissione/Italia, precitata, punto 44). 38. Dalla descrizione dell’ambito normativo nazionale nella causa principale risulta che lo Stato italiano obbliga il CNF, composto esclusivamente di avvocati eletti da appartenenti alla categoria, a presentare ogni biennio un progetto di tariffa degli onorari di avvocato contenente limiti minimi e massimi. Anche se, ai sensi dell’art. 58 del regio decreto legge, gli onorari e le indennità devono essere fissati con riferimento al valore delle controversie, al grado dell’autorità chiamata a conoscerle e, per il settore penale, alla durata dei procedimenti, il regio decreto legge non indica, in realtà, criteri di interesse pubblico di cui il CNF dovrebbe tener conto. 39.

Pertanto, la normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale non contiene modalità procedurali, nè prescrizioni di merito idonee a garantire, con una probabilità ragionevole, che il CNF si comporti, in sede di elaborazione del progetto di tariffa, come un’articolazione del pubblico potere che agisce per obiettivi di interesse pubblico. 40. Tuttavia, non risulta che lo Stato italiano abbia rinunciato ad esercitare il suo potere di decisione in ultima istanza o a controllare l’applicazione della tariffa, come tendono a confermare le circostanze menzionate al punto 10 della presente sentenza. 41. Da un lato, il CNF è incaricato soltanto di approntare un progetto di tariffa privo, in quanto tale, di forza vincolante. In mancanza di approvazione da parte del Ministro, il progetto di tariffa non entra in vigore, e resta in vigore la tariffa precedentemente approvata. Per questo motivo, il Ministro ha il potere di far emendare il progetto dal CNF. Inoltre, il Ministro è assistito da due organi pubblici, il Consiglio di Stato ed il CIP, dai quali deve ottenere il parere prima di qualsiasi approvazione della tariffa. 42. Dall’altro, l’art. 60 del regio decreto legge dispone che la liquidazione degli onorari è effettuata dagli organi giudiziari in base ai criteri stabiliti dall’art. 57 del R.D.L., tenuto conto della gravità e del numero di questioni trattate.

Inoltre, in talune circostanze eccezionali, il giudice può, con una decisione debitamente motivata, derogare ai limiti minimi e massimi fissati in applicazione dell’art. 58 del R.D.L.. 43. Pertanto, non si può affermare che lo Stato italiano abbia delegato ad operatori privati la responsabilità di prendere decisioni di intervento nel settore economico, il che porterebbe a privare del suo carattere statale la normativa di cui trattasi nella causa principale. Per i motivi esposti ai punti 41 e 42 della presente sentenza, non gli si può neanche contestare di imporre o di favorire la conclusione di intese in contrasto con l’art. 85 del Trattato o di rafforzarne gli effetti. 44. Occorre quindi risolvere le questioni pregiudiziali nel senso che gli artt. 5 e 85 del Trattato non ostano all’adozione da parte di uno Stato membro di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell’ordine, qualora tale misura statale sia adottata nell’ambito di un procedimento come quello previsto dalla normativa italiana”.

Queste affermazioni vennero successivamente ribadite dalla Grande Sezione nella sentenza successiva.

Di esse, in quanto individuatrici del modo in cui debbono applicarsi le disposizioni del Trattato, che sono direttamente cogenti nell’ordinamento interno, dev’essere fatta applicazione nella valutazione di altri sistemi di applicazione di tariffe obbligatorie relativamente ad altri ambiti professionali e, quindi, all’ambito professionale della professione veterinaria.

p.4.2. Ora, com’è noto, una previsione espressa di legge abilitativa degli ordini professionali dei medici e dei veterinari alla fissazione delle tariffe per le prestazioni professionali in modo obbligatorio originariamente non esisteva nel nostro ordinamento.

Peraltro, il potere di fissazione di tariffe obbligatorie anche con rilevanza disciplinare era stato, invece, tradizionalmente rinvenuto dagli ordini professionali delle due categorie nella previsione dei poteri degli ordini, di cui al D.Lgs.C.P.S. 13 settembre 1946, n. 233, art. 3, lett. g), recante la disciplina di riordino degli ordini professionali delle due categorie.

Ma, sia pure con riferimento ai medici, la giurisprudenza di questa Corte aveva avuto modo di negare rilievo disciplinare all’inosservanza delle tariffe.

Cass. n. 395 del 1962 ebbe, infatti, ad affermare che “Gli ordini dei medici hanno il potere di fissare le tariffe per le prestazioni professionali nell’ambito della funzione, che a loro compete, di vigilare sul decoro della professione, e non già di fissare tariffe obbligatorie per tutti, per la tutela d’interessi di categoria, conseguentemente la convenzione con un ente mutualistico di un compenso forfettario per prestazioni continuative non può concretare un illecito disciplinare quando non si dimostri che, per il numero delle prestazioni cui il sanitario e tenuto, quel compenso risulti tanto inferiore ai minimi di tariffa da potere menomare il decoro della professione, tenuto anche conto dei vantaggi complessivamente stabiliti a favore del professionista stesso quali la sicurezza del compenso, la durata dell’accordo, l’attrezzatura sanitaria dell’ente, la possibilità di ulteriori sviluppi dell’attività professionale presso lo stesso ente o comunque presso una larga clientela, l’età e la posizione professionale, ed in genere ogni altra condizione inerente alla prestazione dell’attività professionale. E non rileva, sotto tale aspetto, che l’accordo per il compenso forfettario non sia stato autorizzato dall’ordine dei medici, nè che sia stata omessa ogni comunicazione al riguardo”.

A sua volta Cass. sez. un. n. 1529 del 1962 affermò che “Il potere disciplinare attribuito dalla legge ai consigli degli ordini dei medici, istituiti con finalità d’interesse pubblico, non può essere esercitato a tutela d’interessi meramente sindacali o economici, quale è quello di assicurare che i professionisti non accettino onorari inferiori ai minimi fissati nelle tariffe approvate dagli ordini medesimi”.

Con riferimento ai medici, tuttavia, la L. 21 febbraio 1963, n. 244 (Norme generali relative agli onorari ed ai compensi per le prestazioni medico-chirurgiche e istituzione della relativa tariffa) legge ora abrogata dal D.L. n. 112 del 2008, art. 24, introdusse, tuttavia, un sistema (durato fino al D.L. n. 223 del 2006) imperniato su tariffe obbligatorie: infatti, l’art. 1 di tale legge previde che “La tariffa nazionale degli onorari per le prestazioni medico- chirurgiche è approvata con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per la sanità, di concerto con il Ministro per il tesoro, sentito il parere del Consiglio di Stato, del Consiglio superiore di sanità e della Federazione nazionale degli Ordini dei medici, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri”.

Nessuna analoga disciplina (salvo per gli onorari relativi alle prestazioni dei medici veterinari operanti nell’ambito della sanità pubblica: non è qui il caso di darne conto) viceversa, venne mai introdotta per i medici veterinari, riguardo ai quali gli ordini professionali locali continuarono ad esercitare il potere di fissazione delle tariffe sempre ai sensi del già citato D.Lgs.C.P.S. n. 233 del 1946, art. 2, lett. g). La previsione della rilevanza disciplinare dell’inosservanza delle tariffe venne anche inserita nei Codici Etici di categoria di volta in volta approvati, come ad esempio quello approvato il 3 aprile 1993 dal Consiglio Nazionale della Federazione degli Ordini dei Veterinari Italiani (si veda l’art. 60).

Anche per i medici veterinari la sopravvenienza del D.L. n. 223 del 2006 determinò il venir meno della legittimazione degli ordini alla fissazione delle tariffe sulla base di detta fonte normativa.

p.4.3. Ora, la vicenda che si giudica si colloca pacificamente sotto il vigore della disciplina previgente.

E’ riguardo ad essa che va condotto il giudizio relativo alla compatibilita del sistema poggiante sul citato art. 2, lett. g) con le norme del Trattato CE sopra citate nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia.

E l’esame va condotto tenendo conto che la suddetta disciplina era improntata per i medici veterinari all’assenza di una approvazione delle tariffe fissate dagli ordini nell’esercizio del potere di cui alla citata lettera g) dell’art. 2 dei una approvazione e, quindi, di un diretto controllo su di esse. L’unico controllo esistente era quello genericamente esercitabile sugli ordini professionali dei veterinari dal dicastero competente.

L’assenza di approvazione da parte dell’autorità statale poneva le tariffe in quanto prevedenti minimi tariffari obbligatoli in evidente contrasto con i principi affermati dalla ricordata giurisprudenza comunitaria, siccome esattamente sostiene il ricorrente.

Il Collegio non ignora che ciò è stato escluso in una precedente occasione nella quale il tema della detta compatibilita è venuto all’esame di questa Sezione.

Cass. n. 16943 del 2003, infatti, proprio in un giudizio disciplinare relativo a medico veterinario, risulta, infatti, essersi posta il problema di tale compatibilità, ma ha ritenuto di risolverlo reputando che la rilevanza della normativa comunitaria in questione nell’escludere la liceità delle tariffe obbligatorie concerna soltanto il piano del rapporto fra professionista e cliente e non riguardi, invece, il piano del rilievo disciplinare del comportamento di inosservanza dei minimi tariffari. In sostanza, la previsione della tariffa obbligatoria non potrebbe spiegare i suoi effetti nel rapporto con il cliente, ma spiegherebbe i suoi effetti sul piano disciplinare, per cui il veterinario potrebbe legittimamente praticare una tariffa inferiore al minimo nel rapporto con il cliente e tuttavia, nel rapporto con il suo ordine professionale compirebbe un illecito disciplinare sanzionabile.

Questo convincimento si coglie nel seguente passo motivazionale della citata sentenza: “Non essendo qui in discussione il rapporto giuridico tra professionista e cliente, non deve stabilirsi se, come il ricorrente afferma il compenso professionale possa essere dalle parti liberamente pattuito: anche, infatti, a seguire tale tesi, resterebbe pur sempre fermo il sindacato dell’Ordine professionale sul concreto esercizio di tale affermata libertà, ed in particolare sul superamento dei limiti massimo e minimo della tariffa. Questa, anche se avesse – come il ricorrente sostiene quale corollario della tesi della libera determinabilità del compenso – carattere soltanto indicativo, sarebbe nondimeno anche in tal caso vincolante all’interno del gruppo organizzato, del quale l’organo, che ha fissato la tariffa ed è tenuto a tutelarne gli interessi costituisce diretta emanazione. La compatibilità tra le tariffe elaborate da Ordini professionali e gli arti. 5 e 85 del Trattato Ce (divenuti, in seguito a modifica, artt. 10 e 81), ha formato oggetto – in controversie tra professionisti appartenenti ad altre categorie e clienti di questioni pregiudiziali che non hanno fin qui trovato accoglimento da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee (vedami le sentenza 29 novembre 2001 in causa C-221/99 e 19 febbraio 2002 in causa C-35/99): giurisprudenza dalla quale questa C.S. nella controversia tra un avvocato ed un cliente ha tratto (sent. n. 3432 del 2003) la validità della disposizione statale che fissa il principio della normale inderogabilità dei minimi degli onorari. Sul ben diverso piano della responsabilità disciplinare del professionista – il solo che viene in considerazione in questa sede – tale questione, così come quella, ad essa strettamente connessa, della asserita violazione della L. n. 287 del 1990, appare del tutto irrilevante, e ciò in considerazione del già rilevato ambito del potere disciplinare, legittimamente esercitabile sulla condotta dell’iscritto in punto di determinazione dei compensi professionali, potere che non è stato fin qui ritenuto incompatibile con le disposizioni comunitarie nè è stato caducato dalla legge nazionale.

Le restrizioni, derivanti dalle norme comunitarie e da quelle nazionali, che delle prime hanno inteso fare applicazione, così come, al contrario, i maggiori spazi di libertà da esse riconosciuti, possono comportare il riesame della normativa sulla disciplinare questione sic, peraltro che involge valutazioni di opportunità e convenienza, come tali rimesse al potere discrezionale del legislatore che non ha fin qui ritenuto di esercitarlo, anche se in tal senso sono in corso in Italia ed all’estero, delle iniziative.

L’assenza di vizi motivazionali comporta l’infondatezza delle censure elevate, comprese quelle oggetto del primo motivo, avendo la stessa decisione dato, come sopra, adeguata risposta ai rilievi posti dalla sentenza rescindente”.

p.4.4. Il Collegio non condivide l’argomentare svolto dalla pronuncia sopra citata.

La ragione è che, ipotizzare che la contrarietà del sistema delle tariffe professionali obbligatorie al diritto comunitario ed in particolare alle indicate norme del Trattato abbia rilevanza solo nel rapporto fra il professionista ed il cliente significa dare una lettura incompatibile con la ratio sottesa a tali norme. Invero, se tale ratto è quella della massima tutela della libera concorrenza, affermare che un sistema di previsione di tariffe minime obbligatorie contraddica il diritto comunitario espresso dalle norme in discorso soltanto quanto allo svolgimento del rapporto fra professionista e cliente e che, dunque, legittimante in tale rapporto possa essere convenuto un compenso al di sotto del minimo e, tuttavia, nel contempo assegnare al comportamento del professionista che “scenda” al di sotto del minimo rilievo sul piano disciplinare, significa mortificare l’effettività dei principi comunitari e restringerne il rilievo in modo contrario alla loro ratio.

Invero, se il professionista lo si vuole (o, meglio, lo si voleva, dato che il discorso è rivolto al passato) libero di praticare corrispettivi inferiori al minimo al cliente, ma privo di tale libertà sul piano disciplinare, cioè verso il suo ordine professionale, risulta palese che la sua posizione è solo in apparenza libera su un versante e non sull’altro. E’ sufficiente osservare che il metus di subire sanzioni disciplinari, secondo il comune sentire, comporta più che un semplice deterrente al praticare tariffe inferiore ai minimi, l’effettiva negazione di tale possibilità. Ciò, alla stregua del principio per cui nemo contro se venti. O, se si vuole dire altrimenti, che è regola di comune esperienza che di norme nessuno ha interessi a compiere atti per sè pregiudizievoli.

D’altro canto, se anche – lo si osserva per assurdo – il fenomeno si ricostruisse in termini di sola deterrenza, la contrarietà alle norme del Trattato non cesserebbe di sussistere, perchè il metus a praticare tariffe inferiori ai minimi avrebbe attitudine anche solo potenziale a ledere il pieno dispiegarsi della concorrenza.

Il Collegio, dunque, ritiene di affermare il seguente principio di diritto, che giustifica l’accoglimento del terzo motivo e la cassazione della decisione sul punto in cui ha riconosciuto esistente la violazione dei minimi tariffari e le ha dato rilievo disciplinare:

“Nel regime anteriore al D.L. n. 223 del 2006, convertito nella L. n. 248 del 2006, le norme degli artt. 10 e 81 (ex 85) del Trattato CE rendevano illegittima la previsione da parte dei consigli dell’ordine dei veterinari di minimi tariffari obbligatori, sia sul piano dei rapporti fra medico veterinario e cliente, sia sul piano disciplinare, di modo che il comportamento di inosservanza del minimo tariffario da parte del medico veterinario non poteva essere sanzionato sul piano disciplinare, dovendosi, tra l’altro, ritenere illegittime norme dei codici deontologici succedutisi nel tempo prevedenti invece il rilievo disciplinare di tale comportamento”.

p.5. Il Collegio ritiene che l’accoglimento del terzo motivo determini l’assorbimento del quarto motivo, con cui, sull’assunto della incompatibilità delle tariffe obbligatorie con le norme del Trattato, si sostiene che la Commissione avrebbe dovuto sollevare davanti alla Corte di Giustizia la questione della compatibilità delle norme del Codice di deontologia sotto il cui vigore si collocò il preteso illecito disciplinare (indicate senza alcun riferimento individuatore dello stesso negli artt. 58 e 69 a loro volta non meglio identificati) con le norme degli artt. 10 e 81 del Trattato.

E’ peraltro opportuno rilevare la singolarità della prospettazione di tale motivo, là dove postula che una norme di carattere meramente regolamentare come quelle del Codice deontologico, come s’è visto a contenuto non imposto da previsione di legge, ma solo autorizzato, non possa essere senz’altro disapplicata dal giudice di diritto interno, come ha fatto questa Corte scrutinando il terzo motivo.

p.6. Il quinto motivo si riferisce soltanto al secondo illecito disciplinare sanzionato, quello relativo all’avere il ricorrente sottoscritto una convenzione con l’Ente Lega Nazionale per la Difesa del Cane, senza inviare questa per la preventiva approvazione all’ordine professionale. Si sostiene che l’imposizione di tale obbligo di rinvio desunta dal Codice deontologico si porrebbe anch’essa in contrasto con gli artt. 10 e 81 del Trattato, perchè la previsione di esso si porrebbe come “una palese ed ingiustificata violazione della libertà di iniziativa economica ed una restrizione della libera concorrenza anche per essersi sanzionata la sottoscrizione da parte del ricorrente”.

p.6.1. Il motivo è inammissibile sia perchè non rispetta il principio di autosufficienza, là dove sostiene che la decisione amministrativa era stata impugnata davanti alla Commissione sotto tale profilo ma non indica la parte dell’atto di impugnazione in cui ciò sarebbe stato dedotto, sìa per la sua assoluta genericità, atteso che non solo non individua come perchè si verificherebbe la postulata contrarietà.

p.7. Il sesto motivo torna a riferirsi all’illecito da violazione dei minimi tariffari e resta assorbito per l’accoglimento del terzo, perchè postula che il D.L. n. 223 del 2006, abbia determinato l’irrilevanza disciplinare dei comportamenti di inosservanza dei minimi tariffari anteriori alla sua entrata in vigore, ipoteticamente illegittimi prima di essa.

p.8. Conclusivamente, è accolto il terzo motivo. Sono rigettati il primo ed il secondo. E’ dichiarato inammissibile il quinto. Sono dichiarati assorbiti il quarto ed il sesto.

p.9. Il Collegio rileva a questo punto che l’accoglimento del terzo motivo comporta il venir meno della decisione impugnata quanto alla ritenuta esistenza dell’illecito disciplinare relativo all’inosservanza delle tariffe.

Poichè è esclusa in iure l’esistenza di tale illecito, non occorrendo accertamenti di fatto, deve farsi luogo a decisione sul merito riguardo al punto e, quindi, dichiararsi insussistente l’illecito disciplinare de quo.

Tale decisione, peraltro, può essere solo parziale, perchè l’accertamento della insussistenza di uno dei due illeciti, essendo stata la sanzione della sospensione determinata unitariamente, senza particolari distinguo circa la sua adeguatezza ai due illeciti e nel minimo edittale (previsto dal D.P.R. n. 221 del 1950, art. 40, n. 3), determina, ai sensi dell’art. 336, comma 1, l’automatica caducazione della parte della decisione impugnata relativa alla determinazione unitaria della sanzione e la necessità che la sanzione venga rideterminata con riferimento al solo illecito da mancata comunicazione dell’accordo, il quale, per effetto dell’esito del presente giudizio di cassazione quanto al primo ed al quinto motivo, resta ormai definitivamente accertato.

Il giudice di rinvio provvederà, dunque, alla sola rideterminazione della sanzione con riferimento all’illecito relativo all’avere il ricorrente instaurato una convenzione con l’Ente Lega Nazionale per la Difesa del Cane, senza inviare questa per la preventiva approvazione all’ordine professionale.

Il carattere parziale della decisione nel merito, induce a rimettere al giudice del rinvio la decisione sulle spese sia del giudizio di merito sia del giudizio di cassazione, che dovrà avere luogo valutando l’esito finale complessivo del giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo. Accoglie il terzo motivo. Dichiara inammissibile il quinto ed assorbiti il quarto ed il sesto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo parzialmente nel merito dichiara insussistente l’illecito relativo alla violazione dei minimi tariffari. Rinvia nei sensi di cui in motivazione alla Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie in diversa composizione. Rimette al giudice del rinvio la decisione sia sulle spese del giudizio di merito, sia sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 27 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2011

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