Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15448 del 14/07/2011

Cassazione civile sez. III, 14/07/2011, (ud. 08/04/2011, dep. 14/07/2011), n.15448

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SEGRETO Antonio – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29314/2006 proposto da:

BETON GRANULATI S.P.A. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore Sig. M.P., elettivamente

domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE ARNALDO DA BRESCIA 9/10, presso lo

studio dell’avvocato MANNOCCHI MASSIMO, rappresentata e difesa

dall’avvocato PIERGENTILI Carlo giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

B.G. (OMISSIS), B.A.

(OMISSIS), BR.AN. (OMISSIS), B.

P. (OMISSIS), B.W. (OMISSIS),

B.V. (OMISSIS), FLLI BRIGHI & C S.N.C.

(OMISSIS);

– intimati –

sul ricorso 33209/2006 proposto da:

B.P., B.V., B.A., B.

W., BR.AN., F.B. F.LLI BRIGHI DI BRIGHI GIOVANNINO & C

S.N.C., B.G., elettivamente domiciliati in ROMA,

PIAZZA VERBANO 8, presso lo studio dell’avvocato ESPOSITO LUIGI, che

li rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso e

ricorso incidentale;

– ricorrenti –

e contro

BETON GRANULATI S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 858/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

SEZIONE TERZA CIVILE, emessa il 3/06/2005, depositata il 26/07/2005

R.G.N. 1692/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/04/2011 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito l’Avvocato MANNOCCHI MASSIMO (per delega dell’Avv. PIERGENTILI

CARLO);

udito l’Avvocato ESPOSITO LUIGI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso con il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 26/7/2005 la Corte d’Appello di Bologna, in parziale accoglimento del gravame interposto dalla società Fratelli Brighi di Brighi Giovannino & C. s.n.c. nonchè dai sigg.ri G., A., P., W., An. e B.V., e dagli eredi del defunto Br.Vi., e in conseguente parziale riforma della pronunzia Trib. Rimini 27/9/2002, dichiarava i medesimi non tenuti al risarcimento dei danni in favore dell’appellata società C.V. Calcestruzzi Valconca s.p.a. (già Beton Granulati s.p.a.), cui erano stati viceversa condannati da Trib. Rimini 27/9/2002 per violazione di patto di non concorrenza.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la Società Beton Granulati s.p.a. propone ora ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo.

Resistono con controricorso la società Fratelli Brighi di Brighi Giovannino & C. s.n.c. nonchè i sigg. G., A., P., e gli eredi del defunto Vi., W., An. e B.V., che spiegano altresì ricorso incidentale sulla base di unico motivo, illustrato da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con unico motivo la ricorrente principale denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che, a fronte della ritenuta violazione del patto di non concorrenza per aver riattivato il preesistente stabilimento di (OMISSIS), la corte di merito ne abbia poi contraddittoriamente negato la sussistenza, argomentando dalla mancata contrazione dei proventi nel periodo temporale in considerazione e dall’avere essa “aumentato le proprie commesse ed i propri guadagni”, laddove è viceversa “evidente” che “in un mercato con consumi in crescita, e quindi con aumento della domanda di prodotto, il danno da mancato guadagno è rappresentato appunto dai minori introiti conseguiti … per effetto della riattivazione dello stabilimento di (OMISSIS), nel periodo di vigenza del patto di non concorrenza”.

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con -fra l’altro- l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in quale modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito e la sentenza impugnata (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842; Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come la medesima faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., al patto di non concorrenza di cui all’atto 12/5/1982, alla esperita C.T.U.), limitandosi a meramente richiamarli (ad es. la C.T.U.) ovvero a riprodurli (ad es., l’impugnata sentenza, contenente il patto di non concorrenza di cui all’atto 12/5/1982), senza invero debitamente -per la parte d’interesse in questa sede- riprodurli nel ricorso ovvero puntualmente indicare in quale sede processuale, pur individuati in ricorso, risultino prodotti, e, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, se siano stati prodotti anche in sede di legittimità (v. Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279).

A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Va per altro verso ribadito che l’interpretazione del contratto è riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione (v. Cass. 21/4/2005, n. 8296).

Il sindacato di legittimità può avere cioè ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (v. Cass., 29/7/2004, n. 14495).

Orbene, nel caso la ricorrente denunzia vizio di motivazione asseritamente affettante l’impugnata sentenza, ma finisce per porre in realtà censure di violazione di norme di diritto, senza peraltro compiutamente argomentare in ordine ai criteri ermeneutici di cui denunzia la violazione, laddove si limita a sostanzialmente riproporre le tesi non accolte dal giudice del gravame di merito, ovvero a formulare censure di carattere assolutamente generico o del tutto apodittiche.

A tale stregua essa viola invero il principio in base al quale la denunzia di violazione delle regole di ermeneutica contrattuale esige la specifica indicazione non solo dei canoni in concreto inosservati ma anche del modo mediante il quale si è realizzata la violazione, laddove la denunzia del vizio di motivazione implica la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice del merito (v. Cass., 16/1/2007, n. 828; Cass., 25/10/2006, n. 22899).

Nessuna delle due censure può invece risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice sostanziantesi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione.

Orbene, tali principi risultano invero ignorati dall’odierna ricorrente, la quale trascura di considerare che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare v. Cass., 20/3/2006, n. 6091; Cass., 25/2/2004, n. 2803).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti – salvo i casi tassativamente previsti dalla legge – (v. Cass., 16/1/2007, n. 828; Cass., 25/10/2006, n. 22899; Cass., 8/5/2006, n. 10503; Cass., Sez. Un., 11A giugno 1998, n. 5802).

Il motivo di ricorso per cassazione con il quale alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non può essere d’altro canto utilizzato per far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, non valendo esso a proporre in particolare un pretesamente migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice, e non ai possibili vizi del relativo iter formativo (v.

Cass. 9/5/2003, n. 7058).

Il motivo di ricorso per cassazione viene altrimenti come nella specie a risolversi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.

Nè ricorre, d’altro canto, vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., 18/5/1973, n. 1433;

Cass., 28/6/1969, n. 2355). Quando cioè la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190;

Cass., 17/3/1971, n. 748; Cass., 23/6/1967, n. 1537).

Secondo del pari risalente orientamento di questa Corte, al giudice di merito non può peraltro imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti come nella specie da un esame logico e coerente. Non di tutte le prospettazioni delle parti e di tutte le emergenze istruttorie, bensì di quelle ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo.

In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse.

Orbene, il ricorrente non ha invero osservato i suindicati principi, limitandosi invero a dolersi delle statuizioni contenute nell’impugnata sentenza deducendo essere al riguardo “senz’altro contraddittorio ed illogico affermare … che la società appellata, odierna ricorrente, dopo aver provato l’illecita condotta altrui, non avrebbe fornito alcuna dimostrazione di aver patito pregiudizio”, limitandosi a meramente ed apoditticamente, in palese violazione del principio di autosufficienza, fare riferimento alle risultanze della C.T.U. e ad argomentare in base all’evidenza, sostenendo che il rilievo per il quale “la C.M. nel periodo considerato non subì alcuna contrazione dei propri proventi, avendo aumentato le proprie commesse ed i propri guadagni non significa che la medesima società non (abbia) subito un danno, poichè, come è evidente, in un mercato con consumi in crescita, e quindi con aumento della domanda di prodotto, il danno da mancato guadagno è rappresentato appunto dai minori introiti conseguiti dall’odierna ricorrente per effetto della riattivazione dello stabilimento di San Vito, nel periodo di vigenza del patto di non concorrenza”.

Laddove l’impugnata sentenza risulta sul punto correttamente informata al principio che sono risarcibili solamente i danni conseguenza, da provarsi da parte del danneggiato ai sensi dell’art. 2697 c.c. (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).

Nè la ricorrente formula d’altro canto al riguardo censura di violazione di norme di diritto o denunzia di error in procedendo.

Vale in argomento ulteriormente sottolineare che, come questa Corte non ha mancato di osservare, quella data dal giudice al contratto non deve essere invero l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni;

sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (v. Cass., 2/5/2006, n. 10131; Cass., 25/10/2006, n. 22899).

Alla stregua di tutto quanto sopra rilevato ed esposto emerge allora evidente come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierna ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., essa in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza del motivo consegue il rigetto del ricorso principale, con conseguente assorbimento del ricorso incidentale condizionato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 8 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2011

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