Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15424 del 03/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 03/06/2021, (ud. 09/03/2021, dep. 03/06/2021), n.15424

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8575/2014 R.G. proposto da:

Sharmut Fashion S.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Brescia

Filippo e dall’Avv. Pagano Antonio, con domicilio eletto in Roma,

via G.B. Martini, n. 2, presso lo studio di quest’ultimo (studio

Palazzo);

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n.

12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la decisione della Commissione tributaria regionale

dell’Umbria n. 152/03/2013 depositata il 1 ottobre 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 marzo 2021

dal Consigliere Nicastro Giuseppe.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

a seguito di una verifica fiscale, della quale fu redatto processo verbale, l’Agenzia delle entrate notificò a Sharmut Fashion S.A. proprietaria del marchio “(OMISSIS)” – due avvisi di accertamento, per i periodi d’imposta, rispettivamente, 2006 e 2007, con i quali, sull’assunto che tale società, pur avendo la sede legale in Lussemburgo, avesse la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale nel territorio dello Stato, sicchè era soggetta a imposizione in Italia, accertò induttivamente IRES, IRAP e IVA, non considerando, in particolare, la deducibilità di costi per Euro 517.195,30 (risultanti da due fatture passive emesse da Gurmit S.A.) e alcune ritenute che la società avrebbe subito;

Sharmut Fashion S.A. impugnò gli avvisi di accertamento davanti alla Commissione tributaria provinciale di Perugia, che, riuniti i ricorsi, li rigettò;

avverso tale pronuncia, Sharmut Fashion S.A. propose appello alla Commissione tributaria regionale del Lazio (hinc anche: “CTR”) che lo rigettò con la motivazione che: a) “il punto fondamentale è sicuramente quello della “estero vestizione” attribuita alla soc. appellante. Sul punto, viste le trasformazioni societarie, i passaggi delle quote di partecipazione, le sovrapposizioni degli amministratori, tutti italiani ad eccezione di uno, che ricorrono nei consigli di amministrazione della controllante e delle controllate; che le attività si svolgono principalmente in Italia comprese le attività bancarie. La società appellante di fatto ha in Lussemburgo solo la sede legale, mentre l’attività effettiva e di direzione viene svolta in Italia e quindi, come ha chiarito anche la Corte di Cassaizone, la situazione effettiva e sostanziale prevale su quella formale. Quindi la Commissione ritiene che la società sia fiscalmente residente in Italia”; b) “(i)n merito alla lementata errata determinazione del reddito imponibile ai fini IRES e IRAP, la parte solo in sede di appello fornisce una serie di riflessioni a sostegno della deducibilità totale quale costo afferente l’esercizio 2006. Per alcuni contenuti si potrebbe rilevare anche l’inammissibilità perchè sollevati per la prima volta in questo grado di giudizio. Ma entrando nel merito l’operato dell’Ufficio appare corretto, in quanto il comportamento della società è contraddittorio là dove parte delle fatture della Gurmit vengono ritenute ammortizzabili come costo afferente il marchio mentre una parte dovrebbe essere considerata spesa dell’esercizio. Considerato anche per questo aspetto il gioco societario, perchè Gurmit è la società che ha ceduto le partecipazioni della Sharmut Fashion alla G-Brands e quindi anche se indirettamente era proprietaria del marchio (OMISSIS) e che le fatture alla Gurmit le ha pagate nel 2006 la G. Brands, non è chiaro a cosa si riferiscano le prestazioni di cui alle fatture in contestazione, ma visto che parte di esse sono state considerate dalla stessa società come costo per l’acquisto del marchio e quindi ammortizzabili secondo legge, bene ha fatto l’Ufficio a comprenderci anche l’importo di cui al contenzioso”; c) “(p)er le ritenute che parte appellante ritiene non essere state conteggiate per intero, agli atti non sono stati rinvenuti documenti che comprovassero quanto asserito e quindi anche per questa parte l’appello va respinto”;

avverso tale decisione – depositata in segreteria il 1 ottobre 2013 e non notificata – ricorre per cassazione Sharmut Fashion S.A., che affida il proprio ricorso, notificato il 31 marzo/1 aprile 2014, a tre motivi;

l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, notificato il 15/16 maggio 2014.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e/o “falsa/errata” applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73, la violazione e/o “falsa/errata” applicazione dei commi 5-bis e 5-ter dello stesso art. 73, e la violazione e/o “falsa/errata” applicazione degli artt. 49 e 55 Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), in quanto: a) relativamente alle “prove della asserita esterovestizione” addotte “dai verificatori”: a.1) le “quindici email inviate e/o ricevute, in prevalenza dai signori Tiberi e Filippucci (presunti amministratori di fatto) (…) si riferiscono (…) ad esercizi sociali (e quindi fiscali) successivi al 2006 e 2007”, sicchè “attengono a fatti societari afferenti anni di imposta successivi a quelli contestati, e dunque, del tutto privi di qualsiasi valenza dimostrativa con riguardo alla localizzazione territoriale dei processi societari vissuti dalla Sharmut ed operati nel 2006 e nel 2007”; a.2) “il rilievo relativo ai mutui” non considera che “la prima stipula, avvenuta nel 2007 (..), costituisce un fatto isolato e comunque concentrato negli ultimi mesi dell’anno” e che “la seconda stipula, avvenuta ad agosto del 2008, (…) non ha alcuna valenza probatoria sul periodo d’imposta oggetto dell’accertamento”; a.3) il rilievo che “dal registro Europeo dei marchi emerge, quale indirizzo dichiarato dalla Sharmut per qualsiasi comunicazione afferente il marchio, l’indicazione “c/o G-Industry 1946 S. r. l., (OMISSIS)”” non considera “che la G-Industry 1946 S.r.l. (…) gestiva la linea di abbigliamento con marchio (OMISSIS) nè che la variazione di indirizzo, tra l’altro di sola corrispondenza, è avvenuta a seguito della stipula con la G-Industry 1946 S.r.l. del contratto di Master-licence”; a.4) la tesi secondo cui Sharmut Fashion S.A. “svolgerebbe la sua attività societaria effettiva in Italia poichè (…) nel corso dell’anno 2005 (…) avrebbe (come in effetti ha) stipulato 11 contratti, con 11 società diverse, di diritto italiano, aventi, a loro volta, come oggetto sociale, la commercializzazione di diverse tipologie di prodotti”, cui “si sarebbero poi aggiunti (…) ulteriori quattro contraenti, sempre italiani (con ulteriori quattro rapporti contrattuali in Italia)”, “confonde (…) quello che è l’oggetto (…) dell’attività di impresa propria della società lussemburghese Sharmut (…) con, invece, l’oggetto (…) della attività di impresa proprio, di volta in volta, delle singole società commerciali (americane, cinesi o, nel caso che ci occupa, italiane) che (…) vengono a concludere un contratto con il proprietario lussemburghese del marchio”; a.5) poichè “la società, nei fatti, si deve limitare semplicemente ad “amministrare” il patrimonio di diritti immateriali posseduti e, quindi, almeno prevalentemente (..), ad “incassare” periodicamente le royalties a lei dovute dai concessionari nazionali sparsi per il mondo” e poichè, “(p)er sviluppare questa attività operativa che è strutturalmente minima (…) non vi è affatto bisogno di avere a disposizione strutture organizzative e/o amministrative costose, oppure di tipo “pletorico””, “(n)on è ammesso (…) dedurre, (…) come invece i verificatori vorrebbero fare, dalla struttura snella della Sharmut, una sua asserita residenza sostanziale in Italia, in Assisi”; b) relativamente al fatto che “(i) verificatori, infine, contestano la circostanza che i signori Filippucci e Tiberi hanno fatto parte del Consiglio di amministrazione della società Sharmut (fino al 30 luglio 2007) che controllava direttamente la società G-Industry 1946, S.r.l.” – posto che il primo periodo del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, comma 5-ter, che, “(ali fini della verifica della sussitenza del controllo di cui al comma 5-bis, rileva la situazione esistente alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero controllato” – “la società Sharmut aveva perso il controllo nella società di diritto italiano, la G-Industry1946 S.r.l. prima della chiusura dell’esercizio (31 dicembre 2006). Pertanto, si ritiene non applicabile la presunzione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, commi 5-bis e 5-ter “; c) tali disposizioni del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, commi 5-bis e 5-ter, si pongono in contrasto con gli artt. 49 e 55 TFUE in quanto “presumere una residenza fiscale come (da esse) previsto (…) equivale a una restrizione alla libertà di stabilimento e, parimenti, equivale ad una discriminazione, se fondata sull residenza dei soci o degli amministratori”;

al termine dell’esposizione del motivo, la ricorrente deduce altresì che, “date le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’applicazione delle norme tributarie, alla fattispecie in esame è senz’altro applicabile il noto principio giurisprudenziale secondo cui le sanzioni tributarie non sono applicabili allorchè la violazione discenda da incertezza normativa ovvero dall’interpretazione non univoca delle disposizioni tributarie accertata dal giudice, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1996, art. 8 (recte: 1992);

con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83 e ss., per avere la CTR affermato l’indeducibilità, nel periodo d’imposta 2006, dei costi di Euro 517.195,00 risultanti da due fatture emesse da Gurmit S.A. per “Consulenza e assistenza stilistica per competenza 2006”, nonostante gli stessi, relativi a cosiddetti “costi di stilismo” – cioè a “servizi (…) finalizzati alla presentazione della collezione annuale oltre alle spese per l’organizzazione dell’intero evento mediatico/pubblicitario” – siano “caratterizzat(i) da una utilità che si esaurisce nell’anno” e “dunque, costi di periodo e quindi addebitati al conto economico” e abbiano “generato i ricavi di vendita (…) realizzati nello stesso anno di imposta 2006” (non costituendo, perciò, costi “per l’acquisto del marchio e quindi ammortizzabili”);

con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 23, comma 2, lett. b), e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 25, u.c., per non avere la CTR riconosciuto le ritenute subite sui compensi (royalties) per l’utilizzazione di marchi, nonostante l'”esibizione (…) di apposita documentazione attestante le ritenute d’acconto subite sulle royalties anni 2006 e 2007 da parte del sostituto d’imposta (così come risulta dal verbale prot. n. 46037 del 03.03.2011)” dell’Agenzia delle entrate;

il primo motivo non è fondato;

esso concerne la questione della cosiddetta “esterovestizione”, termine con cui si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare, in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, e ha costituito oggetto di ampia disamina da parte di questa Corte con le sentenze 07/02/2013, n. 2869, 21/12/2018, n. 33234, 21/06/2019, n. 16697 e, da ultimo, 09/03/2021, n. 6476);

in proposito, è opportuno prendere le mosse dalla sentenza della Corte di giustizia 12 settembre 2006, in causa C-196/04, Cadbury Schweppes plc e Cadbury Schweppes Overseas Ltd, la quale, con riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, ha affermato, in tema di libertà di stabilimento, che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà (punto 37) ma che, per contro, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa “se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato” (punto 51);

la Corte di giustizia ha precisato che, poichè l’obiettivo della libertà di stabilimento è quello di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio (punti 52 e 53), la nozione di stabilimento implica l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercè l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro, sicchè essa presuppone, quindi, “un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale” (punto 54);

ne discende che una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere “lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale” (punto 55);

tali concetti sono stati ribaditi dalla sentenza della Corte di giustizia 28 giugno 2007, in causa C-73/06, Planzer Luxembourg Sàrl, la quale, nell’interpretare l’ottava e la tredicesima direttiva in materia di Iva (direttive del Consiglio, rispettivamente, 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in tema di rimborso dell’imposta ai soggetti passivi non residenti all’interno del Paese, e 17 novembre 1986, 86/560/CEE, in tema di rimborso ai soggetti passivi non residenti nel territorio della Comunità), premesso che, per costante giurisprudenza, gli interessati non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente del diritto comunitario (punto 44), ha affermato che ciò accadrebbe se un soggetto passivo intendesse fruire del sistema di rimborso, alle condizioni enunciate dalle citate direttive, quando l’indirizzo dell’impresa “non corrisponde ad alcuna realtà economica” (punto punto 45), in particolare, “nè alla sede dell’attività economica del soggetto (…), nè ad un centro di attività stabile dal quale quest’ultimo svolge le sue operazioni” (punto 49);

più di recente, si è affermato che, affinchè consimili meccanismi rispondano a una pratica abusiva, occorre che essi abbiano come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle norme e, inoltre, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale (Corte di giustizia, sentenza 17 dicembre 2015, in causa C-419/14, WebMindLicenses Kft), occorrendo, a tal fine, la disamina della singola operazione (si veda anche Corte di Giustizia, sentenza 7 settembre 2017, in causa C-6/16, Equiom SAS ed Enka SA);

sul piano interno, la fattispecie di causa è regolata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, comma 3, secondo cui “(a)i fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”;

viene qui altresì in rilievo l’art. 4 Convenzione tra l’Italia e il Lussemburgo per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire le evasioni fiscali, firmata a Lussemburgo il 3 giugno 1981, ratificata e resa esecutiva dalla L. 14 agosto 1982, n. 747, il quale prevede, come criterio principale, quello che, ai fini della Convenzione, “l’espressione “residente di uno Stato contraente” designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga” (paragrafo 1) e, come criterio sussidiario per le persone giuridiche, quello che, “quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è residente dello Stato contraente in cui si trova la sede della sua direzione effettiva” (paragrafo 3);

peraltro, le due discipline, interna e pattizia, a ben vedere, sono sostanzialmente equivalenti, atteso che la seconda rinvia, come criterio generale, alla legislazione interna e assume, poi, come criterio sussidiario nel caso di accertata doppia residenza, quello della sede “effettiva” della società, che non è altro che il criterio decisivo anche per la norma interna, secondo la consolidata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale di questa;

la nozione di “sede dell’amministrazione”, infatti, in quanto contrapposta alla “sede legale”, deve ritenersi coincidente con quella di “sede effettiva” (di matrice civilistica), intesa come il luogo dove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (Cass., 16/06/1984, n. 3604, 04/10/1988, n. 5359, 18/01/1997, n. 497, 13/04/2004, n. 7037, 12/03/2009, n. 6021, 28/01/2014, n. 2813);

un analogo principio è stato affermato, con specifico riferimento al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, comma 3, da Cass. pen., 24/01/2012, n. 7080, 21/02/2013, n. 32091, 13/07/2018, n. 50151;

sullo stesso specifico punto, la citata sentenza della Corte di giustizia 28 giugno 2007, Planzer Luxembourg Sàrl, ha statuito che la nozione di sede dell’attività economica “indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultima” (punto 60), e che la determinazione del luogo della sede dell’attività economica di una società implica “la presa in considerazione di un complesso di fattori, al primo posto dei quali figurano la sede statutaria, il luogo dell’amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta la politica generale di tale società. Possono essere presi in considerazione anche altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie” (punto 61);

tanto premesso, si deve ritenere che la sentenza impugnata non si sia discostata dai principi sin qui esposti;

essa, pur nella sua sinteticità, è, in vero, corretta in diritto, atteso che, dopo avere menzionato gli elementi probatori acquisiti al giudizio, giunge, in sostanza, alla conclusione dell’assimilazione del concetto (fiscale) di “sede dell’amministrazione” – indicata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, comma 3, come uno dei criteri alternativi ai fini della residenza dell’ente – a quello (civilistico) di sede effettiva della società, e intende quest’ultima, in sostanziale conformità ai principi sopra enunciati, come il luogo in cui si svolge in concreto la gestione e la direzione dell’attività d’impresa (“l’attività effettiva e di direzione viene svolta in Italia”), pervenendo ad affermare la residenza fiscale in Italia, sulla base, perciò, del criterio sopra menzionato (con conseguente assorbimento di eventuali altre indagini, quali quelle relative all’oggetto principale dell’attività);

inoltre, con riguardo alle doglianze riassunte come profilo sub a) del motivo, esse: da un lato, sono rivolte non – come è necessario contro le statuizioni della sentenza impugnata ma direttamente contro gli elementi di prova dell'”esterovestizione” addotti “dai verificatori”; dall’altro lato, per come sono formulate, appaiono mirare a una generale rivalutazione degli stessi elementi, là dove acquisiti al giudizio, nella prospettiva di una rivisitazione dell’accertamento di fatto compito dalla CTR, la quale non è consentita nel giudizio di legittimità;

quanto alla doglianza riassunta come profilo sub b) del motivo con la quale la ricorrente deduce l’inapplicabilità alla fattispecie di causa della presunzione, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, commi 5-bis e 5-ter, di esistenza nel territorio dello Stato della sede dell’amministrazione perchè, alla data di chiusura dell’esercizio, non aveva più il controllo di G-Industry 1946 s.r.l. – essa risulta del tutto estranea alla ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale, come si è visto, ha ritenuto che Sharmut Fashion S.A. avesse la sede amministrativa nel territorio italiano per la ragione che “l’attività effettiva e di direzione viene svolta in Italia” e, quindi, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, comma 3, senza fare dunque applicazione della presunzione prevista dagli invocati commi 5-bis e 5-ter;

quanto, infine, alla doglianza riassunta come profilo sub c) del motivo – con la quale la ricorrente deduce il contrasto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, commi 5-bis e 5-ter con gli artt. 49 e 55 TFUE – essa è del tutto priva di rilevanza atteso che, come si è appena visto, la CTR non ha fatto applicazione di tali commi;

la richiesta di disapplicazione delle sanzioni, formulata dalla ricorrente al termine dell’esposizione del primo motivo, è inammissibile;

in base all’ormai consolidato orientamento di questa Corte, il potere del giudice tributario di dichiarare, anche in sede di legittimità, l’inapplicabilità delle sanzioni per errore sulla norma tributaria, nel caso di obiettiva incertezza sulla portata o sull’ambito applicativo della stessa, sussiste solo in presenza di una domanda del contribuente formulata nei modi e nei termini processuali appropriati, la quale non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di appello o nel giudizio di legittimità (tra le tante, Cass., 24/10/2008, n. 25676, 01/06/2012, n. 8823, 14/01/2015, n. 440, 14/07/2016, n. 14402);

da ciò l’inammissibilità della richiesta, non potendo essa trovare ingresso per la prima volta nel giudizio di legittimità;

il secondo motivo non è fondato;

premesso che, per quanto si è detto, Sharmut Fashion S.A. si deve considerare residente in Italia – e non stabile organizzazione in Italia (con la conseguenza che non è qui applicabile la disciplina della deduzione delle spese prevista, per la “determinazione degli utili di una stabile organizzazione”, dall’art. 7, par. 3, della ricordata Convenzione tra l’Italia e il Lussemburgo – costituisce un orientamento consolidato di questa Corte quello secondo cui, nell’accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’onere della prova dei presupposti dei costi e oneri deducibili che concorrono alla determinazione del reddito d’impresa, compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe sul contribuente (tra le tante, Cass., 25/02/2010, n. 4554, 30/12/2010, n. 26480, 08/10/2014, n. 21184, 26/04/2017, n. 10269);

è quindi onere dello stesso contribuente fornire la prova dei “fatti costitutivi” del costo, documentandone, in particolare, l’esistenza e la natura, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione;

ciò premesso, si deve ritenere che la sentenza impugnata non si sia discostata da tali principi;

essa, in particolare, non incorre nel denunciato vizio di violazione e/o falsa applicazione di norme di legge, atteso che, dopo avere evidenziato le ritenute “contraddittorietà” della condotta della società contribuente e peculiarità dei rapporti esistenti tra questa e la società emittente le fatture (nonchè di entrambe con “G-Brands”), la CTR, con l’asserire conclusivamente che “non è chiaro a cosa si riferiscano le prestazioni di cui alle fatture in contestazione”, ha in sostanza affermato che la contribuente non aveva assolto l’onere effettivamente su di essa gravante – di fornire la prova, in particolare, della natura dei beni o servizi acquistati e, quindi, dell’integrale deducibilità dei relativi costi nel periodo d’imposta 2006;

in ogni modo, si deve osservare come, insieme con il ricorso, la società ricorrente non abbia depositato documenti o contratti diretti a supportare quanto sostenuto;

il terzo motivo è inammissibile per carenza di autosufficienza;

ai fini del rispetto di tale principio, la società ricorrente – che, con lo stesso motivo, lamenta in sostanza il mancato esame, da parte della CTR, della documentazione comprovante le ritenute asseritamente subite sulle royalties percepite per l’utilizzazione di marchi – avrebbe dovuto almeno indicare, a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), il tempo e la fase in cui era avvenuto il deposito di tale documentazione nel giudizio di merito (Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726), onere che non è stato adempiuto;

in conclusione, il ricorso deve essere rigettato;

le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e sono liquidate come indicato in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – comma inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del suddetto art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 9 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2021

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