Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15415 del 26/07/2016


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Cassazione civile sez. I, 26/07/2016, (ud. 14/06/2016, dep. 26/07/2016), n.15415

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPPI Aniello – Presidente –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Fallimento C.S. s.r.l., in persona del curatore

fallimentare, rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Buscaino,

elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Alessandro

Piccioli in Roma, via Pietro Tacchini n. 7, come da procura a

margine dell’atto;

– ricorrente –

contro

INTESA SAN PAOLO s.p.a., in persona del procuratore

P.G., rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Ferraguto,

elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via

Liberiana n.17, come da procura a margine dell’atto;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza n. 1904/2011 della Corte d’appello

di Milano, depositata il 27.6.2011, nel giudizio iscritto al n.

3878/2005 RG.;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

giorno 14 giugno 2016 dal Consigliere relatore Dott. Massimo Ferro;

udito per il ricorrente l’avv. A. Piccioli;

udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso e

la condanna alle spese.

Fatto

IL PROCESSO

Il fallimento C.S. s.r.l. Fallimento impugna la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 1904/2011, che ebbe a respingere il suo appello interposto avverso la sentenza Trib. Milano 8.4.2005 c così ribadendo il non fondamento della domanda, esperita ai sensi dell’art. 67, comma 2 l.f., volta alla dichiarazione di inefficacia delle rimesse operate dalla società fallita per 925.872.137 Lit nell’anno anteriore al fallimento sul conto corrente già acceso presso Cariplo s.p.a., banca poi incorporata nell’attuale controricorrente Intesa Sanpaolo s.p.a..

Anche secondo la corte d’appello, faceva difetto la prova della scientia decoctionis, non desumibile dalle alterazioni del bilancio cui era ricorsa la società fallita, trattandosi di circostanze di non immediata evidenza, mentre l’andamento del conto corrente risultava regolare “sia in dare che in avere”, con ordini di pagamento eseguiti dalla banca in modo normale ove portati da assegni, a fronte di un quadro esterno indiziario non sintomatico, per la concomitante assenza di protesti ed esecuzioni. Nè alcun valore poteva assumere il diverso precedente, culminato in altra sentenza resa favorevolmente alla procedura ma con l’attuale banca invero subentrata al non coincidente originario Banco ambrosiano veneto, con altri elementi di fatto attinenti all’andamento del conto.

Il ricorso è affidato a tre motivi, cui resiste la banca con controricorso. Il fallimento ha depositato memoria.

Diritto

I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 329 e 342 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, avendo erroneamente ritenuto la corte d’appello che non fosse stata specificamente contestata l’affermazione del primo giudice circa la non immediata rilevabilità della falsità di bilanci della società poi fallita.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce l’erronea applicazione dell’art. 346 c.p.c. ed il vizio di motivazione, avendo la corte d’appello omesso di esaminare le risultanze dei bilanci 1990-1995 della fallita, non potendosi dire rinunziate le domande o eccezioni non accolte nella sentenza del tribunale.

Con il terzo motivo, si deduce violazione dell’art. 67 l.f., degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., ed ancora vizio di motivazione, apparendo errata la scelta della corte d’appello di conferire rilevanza assorbente al preteso andamento regolare del conto, circostanza assurta a decisiva per escludere la conoscenza dello stato d’insolvenza e nonostante si trattasse di conto non affidato, i bilanci fossero stati alterati, le banche avessero chiesto alla famiglia sottostante al capitale della società di concedere ipoteche.

1. Il primo motivo è inammissibile, avendo omesso il ricorrente di censurare la principale ratio decidendi esplicitata nella sentenza, posto che la corte d’appello dà conto che le alterazioni di bilancio, da cui la procedura vorrebbe trarre la prova dell’elemento soggettivo dell’azione intrapresa, non avevano una “immediata evidenza”. Tale precisa ricognizione di fatto, rende irrilevante il motivo, del tutto circoscritto al preteso mancato esame della circostanza, invece decisivamente affrontata ed oggetto di accertamento, negativamente concluso.

2. Il secondo motivo è infondato. Come pure parte ricorrente riconosce, la dedotta omissione di esame avrebbe avuto riguardo ad “argomentazioni squisitamente probatorie”, non potendosi allora la censura risolversi in una violazione del principio di cui all’art. 346 c.p.c.. A tal proposito, da un lato Cass. 23978/2015 ha precisato che l’appellante che intende ottenere il riesame delle istanze istruttorie non ammesse o non esaminate in primo grado ha l’onere, in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, di reiterarle nell’atto introduttivo del gravame ai sensi degli artt. 342 e 345 c.p.c., ma non anche ai sensi dell’art. 346 c.p.c., che riguarda l’appellato vittorioso, il quale può solo riproporre le domande ed eccezioni che non sono state accolte in primo grado ovvero non esaminate perchè ritenute assorbite. Dall’altro lato, è stato anche deciso che l’interpretazione degli artt. 189, 345 e 346 c.p.c., secondo cui l’istanza istruttoria non accolta nel corso del giudizio, che non venga riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, deve reputarsi tacitamente rinunciata, non contrasta con gli artt. 47 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nè con gli artt. 2 e 6 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (ratificato con L. 2 agosto 2008, n. 130), nè con gli artt. 24 e 111 Cost., non determinando alcuna compromissione dei diritti fondamentali di difesa e del diritto ad un giusto processo, poichè dette norme processuali, per come interpretate, senza escludere nè rendere disagevole il “diritto di difendersi provando”, subordinano, piuttosto, lo stesso ad una domanda della parte che, se rigettata dal giudice dell’istruttoria, va rivolta al giudice che decide la causa, così garantendosi anche il diritto di difesa della controparte, la quale non deve controdedurre su quanto non espressamente richiamato (Cass. 10748/2012). Nella fattispecie, all’opposto, il giudice del merito ha selettivamente individuato – arrestando il suo accertamento alla disamina degli elementi pertinenti quanto all’elemento soggettivo dell’azione – le circostanze rilevanti al fine di dar conto della significatività sintomatica dei fatti d’insolvenza, per come traibili, per un verso, dallo specifico rapporto bancario e, per altro verso, dal quadro indiziario di possibile rappresentazione esterna, escludendo che il difetto di protesti ed esecuzioni permettesse di dare importanza ad ogni altro elemento, evidentemente ininfluente ed assorbito. Si è trattato allora di insindacabile valutazione delle prove, non censurabile in sede di legittimità.

3. Il terzo motivo è infondato, ostando al suo accoglimento il principio, cui questo Collegio intende dare continuità, per cui in tema di revocatoria fallimentare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo contraente deve essere effettiva, ma può essere provata anche con indizi e fondata su elementi di fatto, purchè idonei a fornire la prova per presunzioni di tale effettività. La scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione ed il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l’esistenza del fatto ignoto costituiscono un apprezzamento di fatto che, se adeguatamente motivato, sfugge al controllo di legittimità (Cass. 3336/2015).

Ne consegue che il ricorso va rigettato, con la condanna alle spese del presente grado, secondo la regola della soccombenza e come meglio determinate in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, liquidate in Euro 8.200 (di cui 200 per esborsi), oltre al 15% a forfait sui compensi e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2016

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