Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15404 del 22/07/2015


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 15404 Anno 2015
Presidente: CAPPABIANCA AURELIO
Relatore: FERRO MASSIMO

-cC5

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:

VENTURA Riccardo, rappr. e dif. dagli avvocati Sergio Ventura e Mario Contaldi,
con elez. di dom. presso la persona e nello studio del secondo, in Roma, via P.L. da
Palestrina n.63, come da procura a margine dell’atto
-ricorrente —
contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., rappr. e dif. dall’Avvocatura
Generale dello Stato, elett. dom. nei relativi uffici, in Roma, via dei Portoghesi n.12
-controricorrente-

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estensore co

Data pubblicazione: 22/07/2015

per la cassazione della sentenza Comm. Tribut. Reg. Piemonte 8.4.2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 30 aprile 2015
dal Consigliere relatore dott. Massimo Ferro;

udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale dott. Riccardo Fuzio, che
ha concluso per il rigetto del ricorso.

IL PROCESSO
Riccardo Ventura impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale
Piemonte 8.4.2009 che, confermando e sia pur con differente motivazione la
sentenza C.T.P. Torino n. 64/27/2007, ebbe a respingere per la parte principale il
suo appello, così ribadendo la legittimità della cartella di pagamento emessa
dall’Ufficio, a seguito di controllo automatizzato ex art.36bis d.P.R. n.600 del 1973,
per omesso versamento dell’IRAP a saldo per l’anno 2003 e reveniente dal modello
unico 2004, sul presupposto che la professione esercitata dal contribuente, quale
avvocato, era dotata dei requisiti organizzativi, in termini di beni e di ausilio di
strutture, di cui all’art.2 d.lgs. n.446 del 1997.
Ritenne in particolare la C.T.R. — riconosciuta l’ammissibilità della contestazione
giudiziale del tributo, dato che l’iscrizione a ruolo non era avvenuta a seguito di
avviso di accertamento ‘definitivo – che l’appello non poteva per il resto essere
accolto, in quanto l’appellato non aveva fornito alcuna prova quanto all’asserito
svolgimento della sua attività presso uno studio legale di terzo e con fatturazioni
esclusive ai corrispondenti titolari, dovendo invece valorizzarsi l’esercizio di
un’attività presso una propria struttura e con beni strumentali di apprezzabile entità
rispetto ai compensi.
Il ricorso è affidato ad un motivo, cui resiste con controricorso Agenzia delle
Entrate. Il ricorrente ha depositato memoria.
I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il motivo, si deduce la violazione di legge, in relazione all’art.360 co.1 n.3
cod.proc.civ., quanto all’art. 2 d.lgs. n. 446/1997, avendo errato la C.T.R. ove non ha
applicato il requisito esonerativo dall’IRAP al professionista, come nel caso, privo di
autonoma organizzazione, per difetto di collaboratori o dipendenti, con utilizzo di
beni strumentali modesti e inserito in struttura altrui.
Va preliminarmente osservata l’irritualità dell’eccezione preliminare ripetuta da
Agenzia dell’Entrate, rispetto ad una dedotta sollevazione già avanti alle commissioni
di merito e relativa all’inammissibilità del ricorso del contribuente per assenza di vizi
propri dell’atto impugnato, stante la sua omessa riproposizione in rituale ricorso
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estensore c

uditi l’avvocato Gianluca Contaldi in sostituzione per delega dell’avv. Mario Contaldi
per il ricorrente e l’avvocato Gianna Maria De Socio per l’Avvocatura Generale dello
Stato;

1. Il ricorso non è ammissibile. La censura non coglie la ratio decidendi della pronuncia
impugnata che, nel fare esplicita applicazione degli indirizzi interpretativi attinenti alla
nozione di autonoma organizzazione in capo al professionista, e dunque chiarendo
che questa sussiste ove si riscontri un profitto aggiuntivo, conseguente all’apporto di
terzi ovvero beni strumentali rilevanti, rispetto all’apporto della propria preparazione,
nega con altrettale nettezza che il ricorrente abbia assolto all’onere della prova cedente
in tema a suo carico ed anzi contesta ogni concludenza delle affermazioni sulla
supposta prestazione collaborativa nello studio professionale di terzi che avrebbe
contrassegnato l’attività del contribuente, sottolineando infine la non marginalità degli
elementi impiegati nell’organizzazione, per tipologia e costi. A fronte di tali passaggi
argomentativi inequivoci, il ricorrente ha del tutto omesso in questa sede una puntuale
indicazione del fatto decisivo e controverso in sé (cioè quello /a cui differente
considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa, Gas s. 18368/2013),
errando proprio e già all’altezza del tipo di censura frapposta alla sentenza, mal
utilizzando il mezzo del ‘n.3 anziché del n.5 del co. 1 dell’art.360 cod.proc.civ. (Cass.
26292/2014). In ogni caso, ed inoltre, per potersi configurare il vizio di motivazione
su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità
fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla
controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata,
avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, mentre il mancato esame di
elementi probatori — che il ricorrente omette di indicare – costituisce vizio di omesso
esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali
da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia
probatoria delle altre circostanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la regio
decidendi venga a trovarsi priva di base (Cass. 24092/2013).
Risulta all’opposto pacifico che la motivazione della sentenza della C.T.R. da un lato,
e come visto, nega che l’appellante abbia assolto all’onere della prova di cui era
gravato e dall’altro anzi impegna in modo esplicito proprio i fattori del nucleo
essenziale del principio di diritto consistente nel non aver potuto individuare, con
riguardo all’art.2 del d.lgs. n.446 del 1997, il limite di applicazione della norma, cioè
l’inesistenza di un’autonoma organizzazione, affermandosi così il presupposto
impositivo a carico del professionista, la cui attività — con apprezzamento di fatto
insindacabile in questa sede, perché effettivamente motivato con adeguata indicazione
degli elementi di prova – nemmeno è stata diversamente ricostruita oltre una mera
affermazione dell’essersi svolta mediante prestazioni rese verso uno studio
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o
estensore consdt:(

incidentale. In ogni caso, si può rilevare che la cartella esattoriale emessa ex art. 36bis
del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, può essere impugnata, ai sensi dell’art. 19 del
d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non solo per vizi propri ma anche per motivi attinenti
al merito della pretesa impositiva, poiché non rappresenta la mera richiesta di
pagamento di una somma definita con precedenti atti di accertamento,
autonomamente impugnabili e non impugnati, ma riveste anche natura di atto
impositivo, trattandosi del primo ed unico atto con cui la pretesa fiscale è stata
esercitata nei confronti del dichiarante (Cass. 1263/2014).

Tale motivazione esprime perciò in modo compiuto gli elementi di fatto affluiti al
processo e da tener presenti nella qualificazione giuridica dell’attività svolta dal
contribuente, nonché le relative modalità di organizzazione, senza errare nella loro
ricostruzione.
2. Sulla principale questione, peraltro, questa Corte già ebbe a precisare, in tema di
struttura allocativa dell’onere della prova in materia e suggerendo al giudice di merito
e a titolo esemplificativo la valorizzazione delle dichiarazioni fiscali, che “si tratta di
regola empirica che facilita l’onere probatorio in un processo caratterkzato da limitazioni istruttorie,
quale quello tributario, sostanialmente incentrato sulle prodnioni documentali e sugli eventuali
poteri acquisitori riservati in via integrativa al giudice tributario (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7,
comma 1). Fermo restando che graverà sul contribuente che proponga domanda di ripetkione di
indebito (contro il silenio-rifiuto od il diniego espresso di rimborso) dimostrare il fatto costitutivo
della sua pretesa, cioè la mancana della causa (autonoma organkazione) che giustifica il prelievo
fiscale.” (Cass. 3678/2007). A tale riguardo, il mezzo di censura condotto ai sensi
dell’art.360 co.1. n.3 cod.proc.civ. non permette di rilevare, anche nella sua lettura
meno formale, che la C.T.R. non abbia fatto buon governo del principio di diritto
indicato, avendo invece essa restituito al controllo impugnatorio una motivazione
adeguata, cioè esprimendo un giudizio di non minimalità organizzativa riferibile al
professionista, non contraddetto da circostanze antagoniste, per le quali potesse
invece e negativamente ipotizzarsi, al contrario e in astratto, che il contribuente
versava, per il periodo in esame o per parte di esso, nelle condizioni di mancanza di
autonoma organizzazione.
3. Né si può infine ascrivere alcuna portata condizionante alle decisioni di merito
tratteggiate in ricorso, poiché, al di là della mancata prova della loro definitività e
dell’illustrazione meramente argomentativa con cui esse sono state richiamate, opera
in tema il principio, cui prestare qui ossequio, per il quale la sentenza del giudice
tributario che definitivamente accerti il contenuto e l’entità degli obblighi del
contribuente per un determinato periodo d’imposta fa stato, quanto ai tributi dello
stesso tipo da questi dovuti per gli anni successivi, solo per gli elementi che abbiano
un valore condizionante inderogabile rispetto alla disciplina della fattispecie esaminata,
sicché, laddove risolva una situazione fattuale riferita ad uno specifico periodo
d’imposta, essa non può estendere i suoi effetti automaticamente ad un’altra annualità,
ancorché siano coinvolti tratti storici comuni (Cass. 1837/2014).
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estensori

s. m.ferro

professionale altrui che altresì la coordinava. Di tale studio, secondo la C.T.R., non è
stata offerta nessuna prova o anche solo allegazione nominativa (non potendosi a tale
stregua assumere da ultimo la citazione di estremi nella memoria ex art.378
cdo.proc.civ.), tra le fatture ve ne erano alcune emesse — nel 2002 — indicanti una
domiciliazione dello studio in Torino con presunzione di autonomia, infine
comparivano elementi di costo, tra cui le spese relative ai locali di studio e i consumi,
gli acquisti di beni, i quali, oltre al peso specifico rispetto ai compensi,
contraddicevano la invocata assenza di autonoma organizzazione del professionista
stesso ed il suo far parte di uno studio altrui senza esserne il corresponsabile.

Pertanto il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna alle spese secondo la
regola della soccombenza e liquidazione come meglio da dispositivo.
P. Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento
delle spese del procediMento di legittimità, liquidate in euro 1.500, oltre alle spese
eventualmente prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 30 aprile 2015.

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