Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15392 del 20/07/2020

Cassazione civile sez. II, 20/07/2020, (ud. 27/02/2020, dep. 20/07/2020), n.15392

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20912/2019 proposto da:

C.S., rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO LANZILAO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositata il

04/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27/02/2020 dal Presidente Dott. FELICE MANNA.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

C.S., cittadina della (OMISSIS), domandava la protezione internazionale o quella umanitaria innanzi alla Commissione territoriale di Bologna, sostenendo di essere discriminata in patria a causa della sua adesione alla “Chiesa domestica” (emanazione non istituzionalizzata della Chiesa protestante). Deduceva, al riguardo, di aver subito ad opera della polizia due arresti e maltrattamenti di varia gravità, essendo stata accusata dell’attività vietata in Cina – di proselitismo.

La domanda era respinta dalla Commissione, che riteneva non credibile il racconto.

Proposta opposizione, anche il Tribunale di Bologna rigettava la domanda, evidenziando l’inconciliabilità delle circostanze dedotte, in particolare, con riferimento al secondo arresto della richiedente. In ragione di ciò escludeva la configura bilità sia di una fattispecie di rifugio sia di protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Riteneva, quindi, insussistente anche la possibilità della protezione sussidiaria ai sensi della lett. c) della norma precitata, non essendovi nella zona di provenienza della ricorrente alcuna situazione di violenza indiscriminata. Ed escludeva, infine, anche la possibilità di una protezione umanitaria, per difetto sia di un particolare radicamento della richiedente nel territorio italiano, sia di indicatori specifici oggettivi e soggettivi di protezione.

Per la cassazione di tale provvedimento la richiedente propone ricorso, affidato a cinque motivi.

Il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Il primo motivo lamenta, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, come “errato/contraddittorio”, ai fini della valutazione della condizione personale della richiedente, l’esame delle dichiarazioni che ella aveva reso alla Commissione territoriale. Con esso si deduce che parte ricorrente ha riferito di professare la religione “cattolica”, di appartenere ad una Chiesa cristiana domestica e di essere stata perseguitata per tale suo credo religioso. Ciò posto il Tribunale, ove anche ritenuto non credibile il racconto di lei, avrebbe dovuto approfondire la situazione generale del Paese di provenienza, per valutare l’esistenza in esso di un sistema generalizzato di violenza ai fini della concessione della protezione sussidiaria o umanitaria. A prescindere, quindi dalla sua storia personale, la richiedente ha allegato – si sostiene – “la lucida consapevolezza che il suo Paese non è in grado (di fronte al suo problema, ma potremmo dire di fronte a qualunque problema potesse presentarsi) di assicurare intervento e protezione, risultando “inutile” rivolgersi alla polizia o ad altri pubblici presidi”.

Il motivo contesta, inoltre, la diagnosi di non credibilità o coerenza, dato il livello culturale scolastico della ricorrente, e deduce che, ad ogni modo, quanto ritenuto dal Tribunale è del tutto ininfluente, dovendosi aver riguardo al Paese di provenienza e al relativo livello di pericolosità; e lamenta, infine, che il giudice di merito non abbia nè considerato l’integrazione sociale della richiedente in Italia nè fatto uso dei poteri officiosi che la legge gli attribuisce in materia, essendo questa sottratta al principio dispositivo.

2. – Col secondo motivo è dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso dalle parti, consistente nella persecuzione religiosa esistente in Cina, l’omessa consultazione delle fonti informative, la motivazione apparente del provvedimento e l’omessa applicazione dell’art. 10 Cost..

Si sostiene, in particolare, che nel provvedimento impugnato non è dato di comprendere nè come la richiedente potrebbe non essere esposta a gravi rischi per l’incolumità personale in caso di ritorno, nè quali elementi concreti dovrebbero emergere per far ritenere l’esistenza di un pericolo di vita, atteso che in Cina sono perseguitate le chiese domestiche cristiane.

3. – Il terzo motivo allega, in relazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la mancata concessione della protezione sussidiaria, cui la richiedente avrebbe avuto diritto in considerazione delle attuali condizioni sociopolitiche della Cina, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, nonchè l’omesso esame delle fonti informative e la mancata applicazione dell’art. 10 Cost..

Detto motivo reitera e sviluppa, mediante la citazione espressa di fonti normative e il richiamo alle informazioni sulla (OMISSIS), censure analoghe a quelle di cui al secondo mezzo, sottolineando, in particolare, che ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese d’origine del richiedente.

4. – Il quarto mezzo espone, in relazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, nonchè il difetto di motivazione e il travisamento dei fatti, in quanto l’assoluta mancanza di attività istruttoria sulle condizioni del Paese d’origine in tema di persecuzione religiosa, determinerebbe un’ipotesi di motivazione apparente.

5. – Col quinto motivo si lamenta, sempre in relazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, l’omessa applicazione della protezione umanitaria, ai sensi del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, per la persecuzione e i gravi rischi che la richiedente correrebbe in caso di rimpatrio, ed ancora l’omessa applicazione dell’art. 10 Cost. e l’omessa valutazione, a tal fine, delle condizioni personali della richiedente, in rapporto al principio di non refoulement, sancito dall’art. 19, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Sostiene parte ricorrente che nel caso in esame, nonostante l’ampia motivazione sulle problematiche religiose della Cina, il giudice di merito ha ritenuto insussistente la condizione di vulnerabilità cui si collega la protezione umanitaria, disattendendo il fatto che i seri motivi che la giustificano includono anche l’impedito esercizio delle libertà democratiche.

Inoltre, prosegue il motivo, il Tribunale non ha operato una valutazione individuale e della vita privata della richiedente, comparandola con quella cui ella si troverebbe esposta in caso di rimpatrio.

6. – Il primo motivo è manifestamente inammissibile sotto più profili.

In disparte sia l’incoerente sua intitolazione ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., benchè correlato non già ad una violazione o falsa applicazione di legge, ma ad un erroneo apprezzamento dei fatti, sia la commistione di profili diversi – rifugio, protezione sussidiaria e protezione umanitaria così da riferire agli uni i requisiti degli altri; tutto ciò a parte, il motivo non è pertinente alla stessa fattispecie in esame così come dedotta. La richiedente non ha allegato di aver subito torti che lo Stato di provenienza non voglia o non possa riparare, ma al contrario di essere stata perseguitata proprio e solo dalle istituzioni di esso, sicchè la doglianza di non poter chiedere ed ottenere “intervento e protezione” rivolgendosi “alla polizia o ad altri pubblici presidi” è fuori contesto.

Affatto generica, poi, è la censura inerente all’omessa indagine sulle condizioni di pericolosità della regione cinese di provenienza, visto che la ricorrente non ha neppure specificato in quale parte dei propri scritti difensivi della fase di merito avrebbe allegato l’esistenza di una situazione di violenza indiscriminata, rapportabile all’interpretazione che la giurisprudenza Euro-unitaria e di questa Corte Suprema ha dato del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (v. rispettivamente, sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12 e, da ultimo e fra le tante, Cass. n. 18306/19). E cioè di una violenza che abbia raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione di sua provenienza, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo alla vita o alla persona.

Nè il giudice avrebbe dovuto effettuare d’ufficio una tale indagine. Infatti, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte (cfr. nn. 2355/20 e 30105/18).

Del pari è a dirsi della censura riguardante la non ritenuta coerenza del racconto della richiedente, inammissibile in quanto suppone la possibilità di un sindacato di merito o almeno di un controllo di adeguatezza motivazionale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo previgente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012. Controllo non più attivabile in sede di legittimità, al di fuori della ben diversa ipotesi della nullità della sentenza per difetto, contraddittorietà assoluta o mera apparenza della motivazione, riducendo così al minimo costituzionale il sindacato di legittimità su di essa (cfr. S.U. n. 8053/14).

7. – Secondo, terzo e quarto motivo, da esaminare congiuntamente per la loro sostanziale ripetitività, sono infondati.

Come la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito, in tanto il giudice di merito è tenuto ad esercitare i poteri di cooperazione istruttoria di cui dispone in materia, in quanto egli ritenga credibile il narrato e, quindi, potenzialmente accordabile il rifugio e la protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), l’uno come l’altra dipendendo dal giudizio di globale coerenza interna e di sostanziale attendibilità del racconto del richiedente.

Infatti, in tema di riconoscimento della protezione internazionale, l’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, attiene al giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità, ed osta al compimento di approfondimenti istruttori officiosi, cui il giudice di merito sarebbe tenuto in forza del dovere di cooperazione istruttoria, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori; ne consegue che, in caso di racconto inattendibile e contraddittorio e per di più variato nel tempo, non è nulla la sentenza di merito che – come del resto affermato da Corte di Giustizia U.E., 26 luglio 2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko, e da Corte EDU, 12 novembre 2002, Dory c. Svezia – rigetti la domanda senza che il giudice abbia proceduto a nuova audizione del richiedente per colmare le lacune della narrazione e chiarire la sua posizione (v. n. 33858/19 e 16925/18).

Di riflesso e nella specie, il Tribunale non era tenuto a riscontrare, tramite l’acquisizione delle COI (acronimo di Country of Origin Information), l’esistenza della dedotta persecuzione religiosa delle Chiese domestiche, avendo esso escluso, con motivazione non suscettiva di sindacato in questa sede di legittimità, che la richiedente fosse credibile sotto il profilo dell’asserito sua adesione ad una house church cristiana. Con la conseguenza che non è omesso l’esame di alcun fatto decisivo e discusso, e che la motivazione del provvedimento impugnato non è nè apparente nè svolta in violazione dell’art. 10 Cost., il quale, peraltro, è interamente attuato e regolato dai tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, ed al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3 (giurisprudenza costante di questa Corte: v. per tutte, nn. 16362/16 e 10686/12, del resto citate dalla stessa parte ricorrente).

8. – Anche il quinto motivo non ha pregio.

Il giudizio di comparazione, che parte ricorrente lamenta essere mancato nel provvedimento del Tribunale nell’escludere la protezione umanitaria (applicabile ratione temporis alla fattispecie), presuppone pur sempre la vulnerabilità del richiedente. Questa ricorre in presenza di alcuna delle condizioni di cui al T.U. n. 286 del 1998, art. 19, ovvero nell’ipotesi della c.d. vulnerabilità di ritorno, quale risultato, cioè, di un raggiunto livello di integrazione nel Paese di accoglienza che, rapportato a quello che il richiedente ritroverebbe nel Paese d’origine, faccia prevedere a suo danno la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. n. 4455/18). Solo in presenza di elementi di un’effettiva integrazione tale giudizio comparativo ha ragion d’essere, sicchè correttamente il Tribunale, avendo ritenuto che non emergesse nè radicamento nè vulnerabilità, non l’ha operato.

9. – In conclusione il ricorso va respinto.

10. – Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente.

11. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito.

Sussistono le condizioni processuali per il raddoppio, a carico della parte ricorrente, del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2020

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