Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15390 del 21/06/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 21/06/2017, (ud. 30/03/2017, dep.21/06/2017),  n. 15390

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13599/2011 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PO, 25/B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.M.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 791/2010 della Corte D’Appello di Firenze,

depositata il 10/06/2010, R.G.N. 1612/2007.

Fatto

RILEVATO

che con sentenza in data 10 giugno 2010 la Corte di Appello di Firenze ha confermato le sentenze del Tribunale di Siena che avevano dichiarato la nullità del termine apposto al contratto intercorso tra Poste Italiane s.p.a. e L.M., dichiarando la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data dal 2 maggio 2002 ordinando alla società il ripristino del rapporto (sentenza n. 149 del 17.6.2005) e condannandola al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate e non corrisposte dalla data messa in mora alla effettiva riammissione in servizio oltre rivalutazione ed interessi dalle scadenze al saldo (sentenza n. 191 del 29.9.2006). Che avverso tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi ulteriormente illustrati con memoria. L.M. è rimasta intimata.

Diritto

CONSIDERATO

Che con i motivi di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11, in relazione alla L. n. 56 del 1987, art. 23, ed agli accordi collettivi tra Poste italiane e organizzazioni sindacali del 17, 18 e 23 ottobre 2001, 11 dicembre 2001, 11 gennaio 2002,13 e 17 aprile 2002, nonchè omessa e contraddittoria motivazione in relazione alla presunta irrilevanza degli accordi nazionali stipulati dalle parti successivamente alla scadenza del C.C.N.L. 2001 e il regime di “vacatio contrattuale” (primo motivo). La violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, in relazione alla Direttiva comunitaria n. 99/70/CEE ed all’accordo quadro concluso dall’UNICE, dal CEP e dal CES (secondo motivo); violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1 e degli artt. 11 e 15 preleggi e dell’art. 136 Cost., in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 214 del 2009. Contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (terzo motivo). In via subordinata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo per il giudizio e violazione e falsa applicazione art. 12 disp. gen., art. 1419 c.c., D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1 e art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 5 e 3 (quarto motivo); violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 (quinto motivo) chiedendo, infine, per il caso di mancato accoglimento delle censure sopra esposte, l’applicazione dell’jus superveniens (L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32).

Che il primo motivo è infondato atteso che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11, accanto alla continuazione degli effetti, fino alla scadenza, dei contratti individuali conclusi in attuazione della normativa previgente, ha infatti previsto anche, “in via transitoria e salve diverse intese”, il mantenimento dell’efficacia delle clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati ai sensi della citata L. n. 56 del 1987, art. 23 e vigenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo, fino alla loro data di scadenza. Questa Corte ha chiarito, con orientamento cui occorre dare continuità, che in materia di assunzioni a termine del personale postale, l’art. 74, comma 1, del c.c.n.l. 11 gennaio 2001 del personale non dirigente di Poste Italiane s.p.a. stabilisce il 31 dicembre 2001 quale data di scadenza dell’accordo. Ne consegue che i contratti a termine stipulati successivamente a tale data non possono rientrare nella disciplina transitoria prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11 – che aveva previsto il mantenimento dell’efficacia delle clausole contenute nell’art. 25 del suddetto c.c.n.l. stipulate ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 – e sono interamente soggetti al nuovo regime normativo, senza che possa invocarsi l’ultrattività delle pregresse disposizioni per il periodo di vacanza contrattuale collettiva, ponendosi tale soluzione in contrasto con il principio secondo il quale i contratti collettivi di diritto comune operano esclusivamente entro l’ambito temporale concordato dalle parti (Cass. n. 16424 del 13/07/2010, n. 20441 del 12/10/2015 05/07/2016 n. 13671). Tali principi sono stati correttamente applicati dalla Corte territoriale, con riguardo al contratto in esame che è stato stipulato dopo il 31.12.2001.

Che il secondo ed il terzo motivo di ricorso non investono specificatamente la ratio decidendi della sentenza che in esito ad una corretta ricostruzione del quadro normativo ha in concreto verificato, con accertamento incensurabile in sede di legittimità poichè sorretto da coerente e logica motivazione aderente ai principi dettati dal D.Lgs. n. 368 del 2001, che il contratto non specificava adeguatamente le ragioni della temporaneità dell’assunzione con riferimento alle esigenze tecniche organizzative e produttive. Le censure infatti ricostruiscono in via generale il quadro normativo senza specificare in concreto come e perchè la decisione adottata non sarebbe coerente con la ricostruzione cui pure ha aderito la Corte di merito.

Che il quarto motivo di ricorso è del pari infondato alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, att. 39, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999170/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (cfr. tra le tante Cass. 21/05/ 2008, n. 12985, Cass. 12/07/2012, n. 11785 e recentemente Cass. sez. 6 28/04/016 n. 8457).

Che l’ultimo motivo di ricorso è invece fondato nella parte in cui chiede che si applichi lo ius superveniens dettato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32. Con tale disposizione, applicabile a tutti i giudizi pendenti e anche al giudizio di legittimità, è introdotto “un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente” ed “il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto”, mentre a partire da tale sentenza il datore di lavoro è obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva (cfr. Corte Costituzionale n. 303 del 2011). Con la L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13 (in G.U. n. 153 del 3-7-2012), si è poi chiarito che “La disposizione di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro” (per una applicazione degli indicati principi ed una completa ricostruzione del quadro normativo cfr. Cass. 17/03/2016 n. 5298).

Che sotto tale profilo, pertanto, il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata deve essere rinviata alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione che quantificherà il risarcimento del danno applicando la disciplina sopravvenuta di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5 e 6.

che la Corte in sede di rinvio provvederà a regolare le spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

 

La Corte, accoglie l’ultimo motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione, rigettati gli altri.

Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 30 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2017

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