Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15383 del 28/06/2010

Cassazione civile sez. III, 28/06/2010, (ud. 03/05/2010, dep. 28/06/2010), n.15383

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. PETTI Giovanni Battista – Consigliere –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28805-2005 proposto da:

C.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

Roma PIAZZA CAVOUR, presso la Cancelleria della CORTE di CASSAZIONE

rappresentato e difeso dall’Avvocato VITANTONIO CONTEDUCA con studio

in 72015 FASANO (BR) Via FRATELLI CERVI, 18 con delega in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

N.E.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 94/2004 del Tribunale di Brindisi – SEDE

DISTACCATA DEL TRIBUNALE di FASANO, depositata iL 06/10/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/05/2010 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO;

udito il P.M. in persona dei Sostituto Procuratore Generale Dott.

LECCISI Giampaolo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.1. Con ricorso affidato a cinque motivi C.M. ha impugnato la sentenza in data 6-10-2004 con la quale il Tribunale di Brindisi ha confermato la sentenza del Giudice di pace di Fasano di rigetto della domanda proposta dall’odierno ricorrente nei confronti di N.E. per il pagamento della somma di L. 3.510.000 a titolo di corrispettivo di opere edili.

1.2. Nessuna attività difensiva è stata svolta da parte intimata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Entrambi i giudici del merito hanno ritenuto attendibile la tesi difensiva della N., secondo cui il C. aveva assunto l’obbligo di eseguire i lavori, del cui pagamento si controverte nel presente giudizio, allo scopo di estinguere un proprio debito verso la N.; tuttavia – diversamente dal Giudice di pace, che aveva ricondotto la fattispecie ad un caso di compensazione di reciproche pretese creditorie – il Tribunale ha inquadrato rapporti tra le parti nell’ambito normativo dell’art. 1197 c.c., ritenendo che il C., obbligato verso la N. per il godimento del locale di mq. 150 di proprietà di quest’ultima, in luogo della corresponsione del corrispettivo pecuniario, avesse: assunto l’obbligo di eseguire dei lavori presso l’abitazione della creditrice in funzione solutoria del preesistente debito verso la N..

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 101, 112 e 184 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 e L. n. 353 del 1990, art. 18 da parte del giudice di appello. A tal riguardo il ricorrente lamenta che il giudice di appello abbia dichiarato l’irritualità delle prove richieste da esso C. nel primo grado del giudizio e in particolare osserva che: a) il Tribunale ha erroneamente interpretato l’ordinanza in data 4-2-1995, con la quale, nel primo grado del giudizio, il V.P.O. aveva dichiarato la contumacia della convenuta N. e rinviato la causa all’udienza del 8-4-1995 per la precisazione delle conclusioni “in assenza di richieste istruttorie dell’attore”, ritenendo che l’assenza di richieste istruttorie di parte attrice costituisse la ragione del rinvio per la precisazione delle conclusioni; viceversa – a parere del ricorrente – l’ordinanza doveva intendersi nel senso che l’assenza di richieste istruttorie alla successiva udienza sarebbe stata condizione essenziale per la precisazione delle conclusioni; b) la decisione impugnata ha violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, nonchè quello del contraddittorio, per avere dichiarato l’irritualità delle ordinanze ammissive delle prove dell’attore (e, precisamente, quella del 30-4-1996, ammissiva dell’interrogatorio delle parti e quella del 28-7-1998, ammissiva della prova testimoniale dello stesso C.) in difetto di appello incidentale della N. sul punto e per avere, altresì, modificato la motivazione del primo giudice, che aveva accolto l’eccezione di compensazione della N. ed avere prefigurato, piuttosto, l’ipotesi della prestazione in luogo di adempimento; c) la medesima decisione ha violato le norme sul diritto delle parti di richiedere i mezzi istruttori (artt. 183 e 184 c.p.c.) e sulla discrezionalità del giudice di ammettere le prove richieste dalle parti.

1.2. Con il terzo motivo – il cui esame si antepone al secondo per una maggiore sintesi espositiva, attesa la parziale identità delle questioni – si denuncia violazione degli artt. 112, 113 degli artt. 1362 e 1173 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. A tal riguardo parte ricorrente lamenta che il Tribunale, pur in assenza di appello incidentale, “interpreta erroneamente ex novo sia l’eccezione difensiva della N.E. rassegnata in primo grado (eccezione di compensazione) … sia il contratto di appalto che il C. ha stipulato con la N.E. … per la somma concordata di L. 3.000.000 oltre IVA …”.

1.2.1. Nessuno dei suesposti rilievi coglie nel segno.

Per quanto riguarda il primo ordine di censure (sub a e c del primo motivo) con cui il ricorrente si duole della (presunta) dichiarazione di irritualità delle ordinanze ammissive dei propri mezzi istruttori, si osserva che le censure stesse sono inammissibili per carenza di interesse a impugnare. Invero – contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente – il giudice di appello non ha affatto dichiarato “l’irritualità” delle prove dell’attore (tant’è che le ha esaminate, ancorchè non le abbia ritenute attendibili e/o esaustive), ma si è limitato ad osservare che “l’eventuale” accoglimento del primo motivo di gravame del C. – che lamentava l’irrituale ammissione della prova contraria, articolata dalla convenuta (peraltro, per quanto dedotto in questa sede, mai espletata) – avrebbe travolto anche la contestuale ammissione delle prove, anch’esse tardivamente articolate dal medesimo C..

A margine di quanto sopra può aggiungersi che trattandosi di vicenda processuale iniziata in epoca antecedente al 30-4-1995 – non è prospettabile la violazione, dedotta dal ricorrente, dell’art. 184 c.p.c. come modificato dalla L. n. 353 del 1990, art. 18.

1.2.2. Per quanto riguarda l’altro ordine di censure sub b del primo motivo e quelle (sostanzialmente ripetitive) di cui al terzo motivo, si osserva che il vizio di “ultra” ed “extra” petizione ricorre solo quando il giudice, interferendo indebitamente nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi di identificazione dell’azione o dell’eccezione, pervenendo ad una pronunzia non richiesta o eccedente i limiti della richiesta o eccezione, mentre deve escludersi la violazione dell’art. 112 c.p.c. tutte le volte in cui la pronunzia vi corrisponda nel suo risultato finale, sebbene fondata su argomentazioni giuridiche diverse da quelle prospettate dalle stesse parti. Invero il giudice è libero di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate, attenendo ciò all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge (cfr. ex plurimis: Cass. n. 14552/2005; n. 26999/2005). In particolare rientra nella potestas decidendi del giudice la facoltà di procedere alla qualificazione giuridica delle eccezioni proposte, fermo restando che tale potere trova un limite in relazione agli effetti giuridici che la parte vuole conseguire deducendo un certo fatto, nel senso che la prospettazione di parte vincola il giudice a trarre dai fatti esposti l’effetto giuridico domandato (Cass. n. 21484/2007). Inoltre tale compito appartiene non soltanto al giudice di primo grado, ma anche a quello d’appello, che resta a sua volta libero di attribuire al rapporto controverso una qualificazione giuridica difforme da quella data in prime cure con riferimento all’individuazione della causa petendi (Cass. n. 12471/2001) e ha altresì il potere di dare una qualificazione giuridica dell’eccezione diversa da quella prospettata dalla parte e nella sentenza di primo grado, quando il punto formi oggetto della controversia devoluta al suo esame, con ciò non incorrendo nel vizio di extrapetizione (Cass. n. 3965/1984).

Ciò posto e considerato che, nel caso di specie, era in contestazione l’avvenuta estinzione dell’obbligazione di pagamento dei lavori dedotti in giudizio dal C. e che, dal canto suo, la N. assumeva di nulla dovere, per avere l’altra parte assunto l’obbligazione di effettuare i suddetti lavori a titolo di pagamento dell’occupazione di un immobile di sua proprietà, il Giudice di appello, confermando la decisione di primo grado, non ha fatto conseguire alla N. un risultato diverso e ulteriore rispetto a quello perseguito e già ottenuto con la statuizione di rigetto del primo giudice. Invero la circostanza che i fatti – così come descritti dalla convenuta – siano stati inquadrati dal Tribunale nell’ambito dell’art. 1197 c.c. attiene alla qualificazione giuridica dell’eccezione; mentre il fatto che il Tribunale abbia escluso che sia stata acquisita la prova della determinazione convenzionale del corrispettivo, portato in fattura e preteso dal C., non comporta una diversa “interpretazione” del rapporto di appalto dedotte in giudizio, ma attiene alla valutazione della prova dei fatti costitutivi della pretesa. L’una e l’altra attività esulano dall’art. 112 c.p.c., risultando svolte, nel caso in esame, in termini immuni da vizi logico-giuridici.

I due motivi vanno rigettati.

2. Il secondo motivo, nonchè quarto e il quinto riguardano tutti la valutazione del materiale probatorio e, attesa la stretta interconnessione, nonchè la ripetitività delle censure, vengono esaminati congiuntamente per l’economia della motivazione.

2.1. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 232 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Al.

riguardo parte ricorrente lamenta che il giudice di appello non abbia riconosciuto valore confessorio alla mancata comparizione della convenuta per rendere l’interrogatorio deferitole;, tenuto conto anche del fatto che la stessa N. aveva volontariamente omesso di far assumere la prova orale cui era stata abilitata.

2.2. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Al riguardo parte ricorrente lamenta che il giudice di appello abbia argomentato in termini incongrui, insufficienti e contraddittori in ordine alla qualificazione dei rapporti tra le parti e, in specie, in ordine al carattere oneroso dell’appalto tra esse intercorso e al pagamento del canone di fitto, relativamente al locale di proprietà dell’attrice, erroneamente interpretando e valutando l’interrogatorio del C. e le prove testimoniali.

2.3. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 113 e 115 c.p.c. e art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Al riguardo parte ricorrente lamenta la violazione del principio secondo cui insta et alligata et provata partium iudex decidere debet, in quanto il giudice di appello non avrebbe tenuto conto delle prove (interrogatorio, fattura non contestata, deposizioni testimoniali e documentazione fotografica) acquisite in ordine all’esecuzione da parte del C. dei lavori in questione in favore della convenuta, svolgendo argomentazioni generiche, vaghe e contraddittorie.

2.3.1. Tutte le censure sopra esposte, così come articolate, pur lamentando formalmente un difetto di motivazione e violazione di legge, si risolvono, in realtà, nella (non più ammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti ormai definitivamente accertati in sede di merito, poichè con esse, lungi dal prospettarsi un vizio rilevante della sentenza gravata sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 5 ovvero l’erronea applicazione delle norme in rubrica, ci si limita ad invocare una diversa lettura delle risultanze come accertare e ricostruite dal Tribunale. Senonchè la valutazione delle risultanze probatorie, così come la scelta, fra esse, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge invero apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al Giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre pur astrattamente possibili, non incontra altro limite che quello di indicare (come puntualmente ed esaurientemente avvenuto nel caso di specie) le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare ogni e qualsiasi deduzione difensiva.

Ciò posto, rileva il Collegio che la decisione impugnata si sottrae al sindacato di legittimità e ha fatto corretta applicazione del criterio di distribuzione della prova, atteso che il giudice di appello ha, da un lato, evidenziato l’insufficienza del riscontro probatorio in ordine all’effettività dei lavori e soprattutto il difetto di prova (e prima ancora) di allegazione in ordine alla determinazione convenzionale del corrispettivo e, dall’altro, rilevato che, l’assunto della convenuta in ordine all’efficacia estintiva delle prestazioni rese rispetto al proprio controcredito, trovava conferma proprio nelle parziali ammissione dell’originario attore.

Va precisato che l’esattezza delle suddette valutazioni non può formare oggetto di contestazione in sede di legittimità, essendo notoriamente preclusi alla Corte di cassazione l’esame degli elementi fattuali e l’apprezzamento fattone dal giudice del merito al fine di pervenire al proprio convincimento. Ciò che rileva in questa sede, dunque, è che i criteri di valutazione utilizzati sono conformi nello specifico alla norma generale espressa dall’art. 116 c.p.c., che – salvo i casi di prova legale – è quella del libero convincimento del Giudice, inteso come libertà di valutare gli elementi probatori, con il limite, qui rispettato, di dare conto dei criteri adottati. La valutazione dei singoli e specifici elementi operata nella, sentenza impugnata è, infatti, valutazione di merito, come tale non censurabile in sede di legittimità perchè sorretta da una motivazione congrua e logica.

2.3.2. Parte ricorrente lamenta che il giudice di appello abbia svolto un’interpretazione strettamente letterale delle dichiarazioni da essa rese in sede di interrogatorio, senza, peraltro, neppure accennare ad un’interpretazione esclusiva (e non meramente alternativa) di quella assunta a fondamento della decisione impugnata; deduce, inoltre, che è stata malamente interpretata la prova orale e/o negata affidabilità ai testi, senza, con ciò, infirmare il punto nodale della decisione impugnata e, cioè, che è del tutto mancata la prova dell’esistenza di una convenzione tra le parti in ordine al preteso corrispettivo dei lavori, tale non potendo considerarsi la fattura emessa dal C.. Invero la fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale ed alla sua funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto (come l’elenco delle merci, il loro prezzo, le modalità di pagamento ed altro), si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito, sicchè quando tale rapporto sia contestato fra le parti la fattura, ancorchè annotata nei libri obbligatori, non può assurgere a prova del negozio ma costituisce al più un mero indizio (Cass. n. 9593/2004).

2.3.3. Anche la censura di omessa valutazione della mancata risposta all’interrogatorio formale – a prescindere dal difetto di autosufficienza, rilevabile anche in parte qua, in considerazione dell’omessa ritrascrizione in ricorso dei relativi capitoli di prova – è inidonea a fondare un vizio rilevante in questa sede, atteso che l’art. 232 c.p.c., a differenza dell’effetto automatico di ficta confessio ricollegato a tale vicenda dall’abrogato art. 218 c.p.c., riconnette a tale comportamento della parte soltanto una presunzione semplice che consente di desumere elementi indiziari a favore della avversa tesi processuale (prevedendo che il giudice possa ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio “valutato ogni altro elemento di prova”), onde l’esercizio di tale facoltà, rientrando nell’ambito del potere discrezionale del giudice stesso, non è suscettibile di censure in sede di legittimità (Cass. 28/02/2003, n. 2864).

In sostanza il ricorrente – pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado e la violazione dei principi in materia di prova – sollecita (in contrasto con i limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) una nuova valutazione delle risultanze fattuali del processo ad opera di questa Corte, onde surrettiziamente trasformare il giudizio di Cassazione in un terzo grado di merito.

Il ricorso va, dunque, rigettato.

Nulla deve disporsi in ordine alle spese del giudizio di legittimità non avendo parte intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 3 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2010

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