Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15382 del 22/07/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 15382 Anno 2015
Presidente: DI CERBO VINCENZO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 25415-2009 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F.

97103880585, in persona del

legale rappresentante pro tempore, domiciliata in
ROMA,

PIAZZA

dell’avvocato
rappresentata
2015

e

presso

MAZZINI

27,

STUDIO

TRIFIRO’

difesa

lo
&

dall’avvocato

studio
PARTNERS,
TRIFIRO’

SALVATORE, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2064
contro

DONA’ LINDA c.f. DNOLND77L57L736F, domiciliata in
ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE

Data pubblicazione: 22/07/2015

SUPREMA DI

CASSAZIONE,

rappresentata

e difesa

dall’avvocato NICOLA ZAMPIERI, giusta delega in atti;
controricorrente

avverso la sentenza n. 53/2009 della CORTE D’APPELLO
di VENEZIA, depositata il 14/05/2009 r.g.n. 782/2006;

udienza del 07/05/2015 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;
udito l’Avvocato GIUA LORENZO per delega TRIFIRO’
SALVATORE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

i

RG. n. 25415/09
Ud. 7.5.15
Poste Italiane S.p.A. e. Donà
Estensore: dott. Antonio Manna

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 14.5.09 la Corte d’appello di Venezia confermava la
pronuncia n. 345/06 del Tribunale della stessa sede che, dichiarato nullo il termine

apposto al contratto di lavoro subordinato stipulato, per il periodo 21.9.2000 —
4.11.2000, tra Poste Italiane S.p.A. e Linda Donà, aveva accertato la sussistenza
d’un rapporto a tempo indeterminato tra le parti, con diritto per la lavoratrice al
ripristino del rapporto e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data della
messa in mora, con detrazione dell’ aliunde percepturn.
Per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a nove
motivi.
L’intimata resiste con controricorso.
Inizialmente attivato il procedimento di cui agli artt. 380-bis e 375 c.p.c., all’esito
dell’adunanza in camera di consiglio la causa è stata rimessa alla pubblica udienza.
Poste Italiane S.p.A. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Il Collegio ha deliberato la redazione della motivazione in forma semplificata.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Con il primo motivo il ricorso principale denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 1372 c.c., per non avere la Corte territoriale accolto
l’eccezione di risoluzione del contratto per mutuo consenso ravvisabile in fatti
concludenti costituiti, nel caso di specie, nell’avere la lavoratrice lasciato decorrere
circa 2 anni e mezzo dalla cessazione del rapporto prima di agire in giudizio e
nell’avere, nelle more, trovato altra occupazione.
Il motivo è infondato.
Invero, la giurisprudenza di questa S.C. — cui va data continuità – è ormai
consolidata nello statuire che nel rapporto di lavoro a tempo determinato la mera
inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé
insufficiente a far ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo
consenso. Affinché possa configurarsi una tale risoluzione è necessario che sia
accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo
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Poste Italiane S.p.A. c. Donà
Estensore: don. Antonio Manna

contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali
circostanze significative – una chiara e certa volontà comune di porre fine ad ogni
rapporto lavorativo, tenuto conto, altresì, del fatto che l’azione diretta a far valere

l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle
disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo
determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto
con norme imperative ex artt. 1418 e 1419 cpv. c.c., per sua natura imprescrittibile
pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo
indeterminato risultante dalla conversione ex lege del rapporto cui era stato apposto
illegittimamente il termine (cfr., ex aliis, Cass. 15.11.2010 n. 23057; conf. Cass.
1°.2.2010 n. 2279).
Ed ancora, afferma Cass. n. 9583/2011 che grava sul datore di lavoro, che
eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze da
cui ricavare la volontà chiara e certa delle parti far cessare definitivamente ogni
rapporto di lavoro (v., sempre in senso conforme, Cass. 2.12.2002 n. 17070).
Tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all’esame di questa
S.C., ritenuto giuridicamente corretta l’affermazione dei giudici di merito secondo
cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta
per due o tre anni o più, non è sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di
valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del
rapporto per tacito mutuo consenso.
Aggiunge icasticamente Cass. n. 23501/2010, cit.: “D’altra parte, come è noto,
l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di
lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è
consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità
parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c. c. e art.
1419 c. c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c. c., è imprescrittibile,
pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo
indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine
apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e
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Ud. 7.5.15

Poste Italiane S.p.A. e. Dona
Estensore: doti. Antonio Manna

la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire
elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di
risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in

unóttica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso
psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come
risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93
n. 824). Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di
tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può
contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un
effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in
tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per
vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina
della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo
contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per
la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza
del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia
accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche
di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere
complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa
delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto
lavorativo” (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). È, inoltre,
onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso
allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279
dell’i /2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007).” (v., altresì, Cass. n.
23499/2010 cit. ed altre ancora).
Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o, comunque, a
non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la
scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione
giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze della

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cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce
un tacito mutuo consenso).
La sentenza impugnata ha correttamente escluso che un mutuo consenso alla

risoluzione possa desumersi dal mero decorso del tempo fra la scadenza del
rapporto a termine e l’esercizio dell’azione in giudizio da parte della lavoratrice.
Né è indicativa d’un intento risolutorio la condotta di chi sia stato costretto ad
occuparsi o comunque a cercare un’occupazione dopo aver perso il lavoro per cause
diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso
analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione), trattandosi di comportamenti
entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita
dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dall’illegittima apposizione del termine.

2- Con il secondo e il terzo motivo il ricorso denuncia vizio di motivazione in
quanto la sentenza impugnata avrebbe dapprima riconosciuto e, poi, negato la
pienezza dell’autonomia delle parti sociali di fronte alla delega ex art. 23 legge n.
56/87, non considerando che la delega loro conferita ex lege non incontra limiti,
neppure di durata.
I due motivi (da esaminarsi congiuntamente perché connessi) sono inammissibili
vuoi perché si collocano all’esterno dell’area dell’art. 360 co. l° n. 5 c.p.e. – in
quanto il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne
solo la motivazione in fatto, giacché quella in diritto può sempre essere corretta o
meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione (v. art. 384 ult. co . c.p.c.), senza
che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire — vuoi perché risultano
sforniti del momento di sintesi del fatto controverso e decisivo, necessario ex art.
366 bis c.p.c. (applicabile razione temporis, nel caso di specie) per circoscriverne
puntualmente i limiti in maniera da non ingenerare incertezze in sede di
formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ex aliis,
Cass. S.U. 1°.10.07 n. 20603; Cass. Sez. III 25.2.08 n. 4719; Cass. Sez. III 30.12.09
n. 27680).

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3- Con il quarto, quinto e sesto motivo il ricorso denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 1 e 2 legge n. 230/62, 23 legge n. 56/87 e dei vari accordi
collettivi succedutisi tra il 26.11.94 e il 18.1.2001, nonché vizio di motivazione,

avendo la gravata pronuncia erroneamente ritenuto che essi prevedessero un limite
temporale alle assunzioni a termine pur essendosi le parti collettive dato
reciprocamente atto del perdurare delle esigenze aziendali che consentivano la
stipula di contratti di lavoro a tempo determinato.
I tre motivi — da esaminarsi congiuntamente perché connessi — sono infondati.
L’impugnata sentenza non ha affatto statuito la necessità di un qualche limite
temporale alla possibilità di assunzione a termine, ma ha semplicemente attribuito
rilievo decisivo alla considerazione che il contratto di lavoro in oggetto è stato
stipulato – ai sensi dell’art. 8 CCL 26.11.94, come integrato dall’accordo aziendale
25.9.97 – in data successiva al 30.4.98, allorquando era espressamente venuta meno
la copertura autorizzatoria prevista dalla stessa autonomia collettiva.
Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da
questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCL del 2001 e al
d.lgs. n. 368/2001) – è sufficiente a sostenere l’affermata nullità del termine apposto
al contratto de quo.
A tale riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588 è stato precisato che
l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 legge n. 56/87, del potere di
definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n.
230/62, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle
‘parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori
ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione
della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a
tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi
specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di

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procedere ad assunzioni a tempo determinato (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063; cfr.,
altresì, Cass. 20.4.2006 n. 9245; Cass. 7.3.2005 n. 4862; Cass. 26.7.2004 n. 14011).
Ove però — come accaduto nel caso di specie — un limite temporale (quello del

30.4.98) sia stato in concreto previsto dalle parti collettive (anche con accordi
integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della
clausola di apposizione del termine (v., ex aliis, Cass. n. 316/2011; Cass. 23.8.2006
n. 18383; Cass. 14.4.2005 n. 7745; Cass. 14.2.2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va
anche qui ribadito, in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con
l’accordo sindacale del 25.9.97, integrativo dell’art. 8 CCL 26.11.94, e con il
successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16.1.98, le parti hanno convenuto
di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla
trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e
rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del
30.4.98; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
avvenute dopo il 30.4.98, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con
l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti in contratti a
tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 legge n. 230/62 (cfr., ex aliis, Cass. n.
316/2011, cit.; Cass. 1°.10.2007n. 20608; Cass. 28.1.2008 n. 28450; Cass. 4.8.2008
n. 21062; Cass. 27.3.2008 n . 7979; Cass. n. 18376/2006).
In base a tale orientamento consolidato non merita, quindi, censura la statuita la
declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, il che assorbe ogni
ulteriore argomentazione a riguardo svolta nel motivo in esame.
Quanto all’accordo 18.1.2001, esso è irrilevante nel caso di specie perché
successivo alla stipula del contratto a termine invalidamente pattuito.

4- Con il settimo motivo il ricorso denuncia violazione dell’art. 23 legge n. 56/87,
dell’art. 8 CCL 26.11.94, dell’accordo integrativo 25.9.97, degli artt. 115 e 116
e.p.c. e dell’alt 2697 c.c., per avere la gravata pronuncia ritenuto che la società
ricorrente avrebbe dovuto provare non solo l’effettività dell’esigenza di
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ristrutturazione sul piano generale, ma anche l’incidenza del processo
riorganizzativo sull’unità produttiva cui era stata addetta la lavoratrice.
11 motivo è inammissibile vuoi perché censura una mera motivazione ad

abundatiam operata dalla gravata pronuncia, vuoi perché comunque superato dalla
sopra evidenziata nullità del termine in quanto apposto dopo la data del 30.4.98.

5- Con l’ottavo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli
artt. 1206, 1207, 1217, 1219, 2094 e 2099 c.c., perché la Corte di merito non
avrebbe svolto alcuna verifica in ordine all’effettiva messa in mora del datore di
lavoro, e formula il seguente quesito di diritto: “Se, per il principio di corrispettività
della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale
dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle
retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia
costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione
lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 e segg. cod. civ.”.
Doglianza sostanzialmente analoga viene fatta valere con il nono motivo, sotto
forma di vizio di motivazione.
L’ottavo motivo è inammissibile perché si risolve nell’enunciazione in astratto
delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto
ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v., fra
le altre, Cass. 4.1.2011 n. 80). Infatti, il quesito di diritto, richiesto a pena di
inammissibilità del relativo motivo, in base a consolidata giurisprudenza di questa
Corte deve essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente
riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr., ad es., Cass. S.U. 5A .07 n. 36),
dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente.
Del resto, è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto
da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa
proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di
diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie”
(v. Cass. S.U. 30.10.2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in
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t1d. 7.5.15
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base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica
sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7.4.2009 n. 8463).
Né può ignorarsi che, nella specie, anche l’illustrazione del motivo risulta

generica perché non chiarisce per quale ragione non costituirebbe rituale offerta
della prestazione lavorativa (come, invece, ritenuto in sede di merito) quella
evincibile dalla lettera di attivazione del tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c.
Quanto al vizio di motivazione dedotto con il nono motivo, esso è inammissibile
per mancanza del momento di sintesi.

6- L’inammissibilità degli ultimi due motivi assorbe la questione, ventilata da
Poste Italiane S.p.A. in sede di memoria ex art. 378 c.p.c., relativa all’eventuale
incidenza, nella vicenda in esame, del sopravvenuto art. 32, commi 5 0 , 6° e 70 ,
legge 4.11.2010 n. 183: per altro, per poter applicare nel giudizio di legittimità lo
ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina
del rapporto controverso è necessario non solo che quest’ultima sia pertinente alle
questioni oggetto di censura (in ragione della natura del controllo di legittimità, il
cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso: cfr. Cass. 8.5.2006 n.
10547; Cass. 27.2.2004 n. 4070), ma anche che il motivo investa il tema coinvolto
nella disciplina sopravvenuta (il che non si verifica nel caso odierno poiché gli
ultimi due motivi di impugnazione sono, appunto, inammissibili).
7- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza e si distraggono ex art. 93 c.p.c. in favore del difensore dichiaratosi
anticipatario.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di
legittimità, liquidate in curo 100,00 per esborsi e in euro 3.500,00 per compensi

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Ud. 7.5.15
Poste Italiane S.p.A. c. Donò
Estensore: dott. Antonio Manna

professionali, oltre accessori come per legge, spese da distrarsi in favore dell’avv.
Nicola Zampieri, dichiaratosi anticipatario.

Così deciso in Roma, in data 7.5.15.

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