Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15381 del 13/07/2011

Cassazione civile sez. III, 13/07/2011, (ud. 25/05/2011, dep. 13/07/2011), n.15381

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.F. (OMISSIS), D.A.M.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO VITTORIO

EMANUELE II 269, presso lo studio dell’avvocato VACCARELLA ROMANO,

che li rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

F.D. (OMISSIS), Z.G.P.

(OMISSIS), M.M. (OMISSIS), C.

A. (OMISSIS), M.U.L. (OMISSIS),

B.E.C. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA SANTA TERESA 23, presso lo studio

dell’avvocato PIETROSANTI FABRIZIO, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato DI CHIO GIUSEPPE giusta delega in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

e contro

M.A. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 430/2009 della CORTE D’APPELLO di TORINO, 3^

SEZIONE CIVILE, emessa il 30/1/2009, depositata il 25/03/2009, R.G.N.

2142/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/05/2011 dal Consigliere Dott. GIOVANNI CARLEO;

udito l’Avvocato ROMANO VACCARELLA;

udito l’Avvocato GIUSEPPE DI CHIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo che ha concluso per l’accoglimento del 2^ motivo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata in data 20.2.2006 F.D., M.A., M.U.L., M.M., B.E.C., C.A. e Z.G.P. convenivano in giudizio D.A.M. e T.F. esponendo di essere stati membri del consiglio di amministrazione dell’Ente Ordine Mauriziano di Torino, disciolto il 19 settembre 2002; che, dopo lo scioglimento degli organi amministrativi, erano stati nominati un commissario straordinario ed un vicecommissario, rispettivamente nelle persone della dr.ssa D.M. e l’avv. T.F.; che, nel corso di un’assemblea tenutasi presso l’ospedale Mauriziano il 23 gennaio 2003, alla quale avevano partecipato medici, infermieri, rappresentanti sindacali ed organi di stampa, l’avv. T. aveva dichiarato che al Mauriziano si rubava, si corrompeva, si assumevano persone per favorire politici, si dichiarava il falso nei bilanci contabili dell’azienda, usando tra l’altro il termine “associazione a delinquere”; che tali dichiarazioni erano state poi pubblicate su importanti quotidiani come La Stampa e Repubblica; che la dr.ssa D. con una nota dettata all’Ansa il 10 febbraio 2004 aveva dichiarato che la vicenda riguardante l’ente era simile a quella Parmalat con miliardi di deficit e persone che si erano mangiati i soldi; che tali dichiarazioni erano state diffuse a mezzo della La Stampa e di Repubblica ed erano state ribadite in un’intervista rilasciata al TG regionale di Rai 3 nonchè in un’altra intervista rilasciata ad un giornalista della “La Stampa” e pubblicata il 12.2.2004 dove alla richiesta di fare i nomi delle persone che avrebbero mangiato i soldi dell’Ente, aveva risposto “tutti quelli che hanno amministrato, sono tanti”. Tutto ciò premesso, gli attori chiedevano quindi la condanna della D. e del T. al risarcimento dei danni subiti nonchè alla pubblicazione per estratto della eventuale sentenza di condanna sui quotidiani sopra citati. In esito al giudizio, il Tribunale di Torino respingeva le domande e condannava gli attori alla rifusione delle spese.

Avverso tale decisione i soccombenti proponevano appello ed in esito al giudizio di impugnazione la Corte di Appello di Torino con sentenza depositata in data 25 marzo 2009 condannava la D. e il T. al risarcimento del danno non patrimoniale arrecato alle controparti.

Avverso la detta sentenza la D. e il T. hanno quindi proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi, illustrato da memoria. Resistono con controricorso gli epigrafati resistenti.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Torna opportuno premettere, ai fini di una più agevole comprensione dei termini della controversia, che le due prime doglianze, articolate, entrambe, sotto il profilo della violazione di legge (artt. 116 e 244 c.p.c.) e della motivazione insufficiente su punti decisivi della controversia, sono svolte, rispettivamente, la prima, dal T., la seconda dalla D..

Con la prima, il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui la Corte di merito ha attribuito agli articoli di stampa il valore di testimonianze vere e proprie e le ha ritenuto prevalenti su quelle assunte in udienza, riconoscendo alle “virgolette” usate dai giornalisti la virtù di rendere fedele il resoconto di quanto dichiarato in assemblea. Ciò, senza considerare la contraddittorietà e l’insufficienza della motivazione per aver dato rilievo agli articoli sulla base del senso attribuito dai giornalisti alle dichiarazioni e non sulla base del tenore letterale, e per aver utilizzato spezzoni trascurando la coerenza globale delle dichiarazioni. Con la seconda, la ricorrente lamenta, anch’essa, che la Corte, fondando la sua decisione su una nota Ansa, abbia attribuito ingiustamente rilievo di prova, per giunta esclusiva, ad articoli di stampa in ordine al contenuto di un documento mai acquisito agli atti, con una motivazione del tutto mancante sia in ordine al frainteso paragone con la Parmalat, in realtà riguardante esclusivamente le dimensioni del dissesto, sia in ordine alle dichiarazioni rese nell’intervista.

Ciò premesso, mette conto di sottolineare che, come appare evidente dalla lettura delle due censure, riportate nella loro essenzialità, sia l’una che l’altra – che vanno trattate congiuntamente proponendo sostanzialmente la stessa questione – non concernono nè l’esercizio del diritto di critica (con cui si manifesta la propria opinione, la quale può essere esternata anche con l’uso di un linguaggio colorito e pungente, purchè non leda la integrità morale del soggetto) nè la continenza o meno dei fatti descritti, ma riguardano, invece ed esclusivamente, la questione se gli articoli di stampa possano costituire o meno una prova testimoniale, prevalente o addirittura esclusiva e se la motivazione dei giudici di merito sia sufficiente e non contraddittoria. Con la conseguenza che l’oggetto dell’attenzione di questa Corte deve esaurirsi necessariamente nell’esame delle specifiche ragioni delle due doglianze senza estendersi ai diversi profili, incidentalmente, trattati dai difensori nel corso della discussione orale.

Esaurita tale premessa, si deve rilevare, in primo luogo, l’inammissibilità dei profili, attinenti al vizio motivazionale, in quanto non sono accompagnati dal prescritto momento di sintesi, (omologo del quesito di diritto), volto a circoscriverne puntualmente i limiti, oltre a richiedere sia l’indicazione del fatto controverso, riguardo al quale si assuma l’omissione, la contraddittorieta o l’insufficienza della motivazione sia l’indicazione delle ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione (Cass. ord. n. 16002/2007, n. 4309/2008 e n. 4311/2008). E ciò, alla luce dell’orientamento di questa Corte secondo cui “in caso di proposizione di motivi di ricorso per cassazione formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse, sostanziandosi tale prospettazione nella proposizione cumulativa di più motivi, affinchè non risulti elusa la “ratio” dell’art. 366 bis cod. proc. civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati, con la conseguenza che, ove il quesìto o i quesiti formulati rispecchino solo parzialmente le censure proposte, devono qualificarsi come ammissibili solo quelle che abbiano trovato idoneo riscontro nel quesìto o nei quesiti prospettati, dovendo la decisione della Corte di cassazione essere limitata all’oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l’illustrazione. (S..U.5624/09, Cass. 5471/08) Passando quindi all’esame dei profili inerenti le violazioni di legge, mette conto di sottolineare preliminarmente che la valenza probatoria degli articoli di stampa, in sè e per sè, non può essere affermata o esclusa in astratto ma deve essere verificata in concreto, caso e per caso. A tal fine, spetta pertanto al giudice del merito, nell’esercizio del suo potere-dovere di vagliare la attendibilità, la concludenza e la rilevanza degli elementi probatori, verificare innanzitutto la presenza dei giornalisti, nel luogo ed al tempo, dell’accaduto che descrivono oppure delle dichiarazioni e delle testimonianze che raccolgono, nonchè controllare l’accuratezza del resoconto e la completezza e la fedeltà delle dichiarazioni riportate previa valutazione del contenuto intrinseco dell’articolo e delle modalità tecniche con cui vengono descritti i fatti e riferite le dichiarazioni dei soggetti intervistati, attribuendo il giusto rilievo sia a quelle frasi, contenute nell’articolo di stampa, che rivelano la presenza in loco del giornalista, sia a quelle frasi, riportate tra virgolette, che testimoniano il contenuto di un’intervista, secondo il metodo cui ogni giornale notoriamente ricorre per contrassegnare le dichiarazioni testuali pronunciate dall’intervistato. Con la conseguenza che, ove presentino i requisiti indicati, anche gli articoli di stampa possono rientrare fra le risultanze probatorie, dalle quali il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento secondo il suo prudente apprezzamento a norma dell’art. 116 c.p.c..

E’ appena il caso di osservare che, nel caso di specie, la Corte territoriale si è per l’appunto attenuta ai criteri suddetti accertando in primo luogo la partecipazione degli organi di stampa all’assemblea del 23 gennaio 2003 (cfr pag. 21 della sentenza impugnata) e la presenza dei giornalisti in occasione delle dichiarazioni di cui alla nota Ansa del 10.2.04 (cfr pag.28);

verificando quindi che le dichiarazioni più significative e rilevanti rese dai ricorrenti erano state riportate tra virgolette oppure con l’espressa indicazione della persona che le aveva fatte;

spiegando infine con chiarezza le ragioni che giustificavano la scelta degli articoli di stampa come fonte privilegiata del proprio convincimento con la considerazione che gli articoli di stampa erano stati pubblicati subito dopo i fatti mentre le dichiarazioni dei testi, viziate peraltro da evidente contraddittorietà, erano state rese a distanza di molti anni ed apparivano per tale ragione meno attendibili.

Giova aggiungere che, secondo il consolidatissimo orientamento ai questa Corte, spetta peraltro al giudice del merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità’ e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità’ dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ora, le ragioni di doglianza svolte, come risulta di ovvia evidenza dal loro stesso contenuto e dalle espressioni usate, non concernono in realtà violazioni o false applicazioni del dettato normativo bensì la valutazione della realtà fattuale, come è stata operata dalla Corte di merito) la quale nella scelta delle risultanze di prova ha privilegiato le une rispetto alle altre. Nè a questa Corte è riconosciuto dalla legge il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito. Con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile la doglianza mediante la quale la parte ricorrente, pur deducendo formalmente un vizio di legittimità o anche un vizio motivazionale, avanza, nella sostanza delle cose, così come nel caso di specie, un’ulteriore istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

Passando all’esame della terza doglianza, articolata sotto il profilo dell’omessa motivazione, deve rilevarsi che, ad avviso dei ricorrenti, la Corte di merito avrebbe sbagliato nel ritenere che le espressioni da loro usate potessero riguardare gli altri membri del C.d.A, diversi dal Presidente B. e dal direttore generale.

Ciò, in quanto essi, contrariamente al Presidente ed al direttore rispettivamente in carica dal 1995 e dal 1990, erano divenuti membri del C.d.A. solo dal marzo 2001 ed avevano cogestito il Mauriziano per un arco di tempo assai limitato avendo per giunta un ruolo solo marginale. Su tale fatto decisivo, la motivazione era stata omessa o comunque appariva insufficiente.

La doglianza è infondata. All’uopo, mette conto di evidenziare che la Corte territoriale nella motivazione della sentenza ha diffusamente trattato il problema dell’individuazione dei destinatari delle offese rivolte dal L. pervenendo alla conclusione che, ad onta del fatto che non erano stati fatti nomi in particolare, nè i giornalisti nè i vari testimoni presenti all’assemblea del 23 gennaio 2003 ebbero alcuna difficoltà a collegare le accuse rivolte dal vicecommissario straordinario ai componenti del disciolto consiglio di amministrazione. E ciò, in considerazione del contesto in cui le parole del T. furono pronunciate, trattandosi di un’assemblea indetta ad appena tre mesi di distanza dall’inizio del commissariamento, volta ad illustrare ai dipendenti dell’ente Mauriziano le cause del grave stato di dissesto nel quale l’Ente stesso era stato trovato dall’organo commissariale. Con la conseguenza che l’attribuzione del dissesto finanziario alla cattiva gestione del C.d.A. comportava inevitabilmente che le espressioni come “in questo ospedale si è costituita un’associazione a delinquere”, ovvero “al Mauriziano si rubava, si corrompeva, si assumevano persone per favorire politici, si dichiarava il falso nei bilanci contabili …” usate dal T. venissero automaticamente anche se implicitamente collegate a tutti i membri del C.d.A..

Ugualmente, il fatto che la vicenda che aveva portato al commissariamento dell’ordine Mauriziano fosse stata parificata dalla D. a “quella Parmalat” – così continua la Corte – non consente di dubitare che, pur in difetto dell’indicazione dei nomi dei responsabili, le accuse fossero riferite a tutti i componenti del consiglio di amministrazione, non potendo essere individuate se non nelle persone che in detto ente erano investite dei poteri di amministrazione quelle che si erano “mangiate i soldi” e che avevano contribuito ad un deficit nell’ordine di “miliardi” e, più in particolare, di circa “700 miliardi di lire” (intervista rilasciata al Telegiornale del Piemonte alle ore 19,30 dell’11.2.2004). Ciò, senza considerare che tali dichiarazioni erano state ribadite in un’altra intervista rilasciata ad un giornalista della “La Stampa” e pubblicata il 12.2.2004 dove alla richiesta di fare i nomi delle persone che avrebbero mangiato i soldi dell’Ente, la ricorrente aveva risposto “tutti quelli che hanno amministrato, sono tanti”.

Tutto ciò premesso e considerato, risulta pertanto con chiara evidenza come la Corte territoriale, in effetti, abbia argomentato adeguatamente sul merito della controversia con una motivazione sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione. Nè d’altra parte il motivo del ricorso in esame è riuscito ad individuare effettivi vizi logici o giuridici nel percorso argomentativo dell’impugnata decisione. Giova aggiungere inoltre che, come ha già avuto modo di statuire questa Corte, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al Giudice di legittimità non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il Giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al Giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al Giudice di legittimità. (così Cass. n. 8808/08 in motivazione). Ne deriva l’infondatezza della censura.

Resta l’ultima doglianza, svolta dai ricorrenti, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 75 c.p.c. e L. Fall., art. 43), la quale si fonda sulla considerazione che la Corte di Appello avrebbe sbagliato quando ha deciso anche sull’appello proposto da M.A. sulla base di una procura rilasciata il 10.12.2007 benchè fosse stato dichiarato fallito con sentenza n. 30195 dell’1.10.2007 del Tribunale di Torino e fosse quindi privo di legittimazione processuale.

Anche quest’ultima censura è infondata. A riguardo, giova sottolineare che questa Corte con indirizzo ormai consolidato ha avuto modo di affermare il principio secondo cui l’incapacità del fallito è relativa, nel senso che egli può ancora agire, senza alcuna autorizzazione, sia sul piano sostanziale che processuale, per far valere i diritti strettamente personali, ovvero i diritti patrimoniali, dei quali si disinteressino gli organi del fallimento (Cass. 6873/94, 256/04, 17145/03, 10146/98, 6693/00). Nell’inerzia del curatore, il fallito può pertanto iniziare un processo o anche soltanto proseguirlo, senza che le altre parti possano eccepire il difetto di incapacità, nè in mancanza possa rilevarlo di ufficio il giudice, essendo legittimato all’eccezione il solo curatore in quanto si tratta di un’incapacità stabilita a garanzia della massa creditoria (Cass. n. 21250/08, n. 11011/04, n. 17418/04, n. 17145/03, n. 5238/99, n. 12879/99). Considerato che la sentenza impugnata appare in linea con il principio richiamato, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato. L’alterno esito delle decisioni di merito giustifica la compensazione delle spese tra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2011

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