Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1537 del 22/01/2018


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Cassazione civile, sez. II, 22/01/2018, (ud. 22/11/2017, dep.22/01/2018),  n. 1537

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato il 24 giugno 1992, i sigg. P.D. e P.M.G. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Benevento, la sig.ra F.C. chiedendo l’accertamento del loro titolo di comproprietà, ciascuno per 1/4 degli immobili ubicati in (OMISSIS), individuati in catasto alla partita (OMISSIS) fol. (OMISSIS) p.lla (OMISSIS), con la conseguente declaratoria di illegittimità dell’accatastamento effettuato (in difetto di alcun valido titolo di trasferimento) a nome esclusivo della convenuta, ordinando al responsabile della competente Conservatoria di volturare, a nome di essi attori, la proprietà degli anzidetti immobili in ragione della dedotta percentuale proprietaria.

Si costituiva in giudizio la F., la quale, oltre ad instare per il rigetto della domanda principale, formulava domanda riconvenzionale intesa all’ottenimento della dichiarazione di accertamento dell’acquisto per usucapione della proprietà degli immobili dedotti in controversia sussistendone i presupposti di legge. Nelle more del giudizio, essendo intervenuto il decesso dell’attore P.D., si costituivano i suoi eredi ( L.L., P.U., P.M., P.P.) mentre l’altra attrice rinunciava agli atti del giudizio, con successiva accettazione da parte della convenuta.

Con sentenza n. 1554 del 2004, la Sezione Stralcio del Tribunale adito dichiarava la cessazione della materia del contendere in ordine al rapporto processuale instauratosi tra P.M.G. e la convenuta, rigettava la domanda principale così come reiterata dagli eredi dell’altro attore ed accoglieva, invece, la domanda riconvenzionale di usucapione avanzata dalla F..

Nei confronti della sentenza di primo grado formulavano appello le parti soccombenti e, con comparsa del 27 marzo 2012, spiegava intervento – ai sensi dell’art. 344 c.p.c. – l’Università degli Studi del Sannio (in qualità di donataria – con atto del 21 febbraio 2007 – dell’immobile oggetto di causa donatole dalla F.C.), la quale insisteva per il rigetto dell’appello. Con sentenza n. 1896 del 2013 (depositata il 14 maggio 2013), la Corte di appello di Napoli respingeva l’appello (confermando l’impugnata sentenza), condannava gli appellanti alla rifusione delle spese del grado in favore della F. e disponeva la compensazione delle stesse con riguardo al rapporto processuale incardinatosi tra gli appellanti e la suddetta interventrice Università.

A sostegno dell’adottata decisione la Corte partenopea rilevava, in via pregiudiziale, che – pur essendo ammissibile l’allegazione, da parte del difensore della P.M.G., di copia del verbale di conciliazione sottoscritto all’udienza del 22 ottobre 2008 in altra causa pendente dinanzi al Tribunale di Benevento dai procuratori speciali di L.L., P.M.G. e P.U. da una parte e di F.C. dall’altra, con le sottoscrizioni personali delle parti medesime – le dichiarazioni in essa contenute non potevano considerarsi rilevanti ai fini dell’esclusione dell’invocata usucapione (essendo, peraltro, il termine ventennale del possesso idoneo a tal fine già maturato al momento della notificazione della citazione in primo grado). Ciò premesso, la Corte di secondo grado, esaminando i motivi di gravame, riteneva che alcun formale rituale disconoscimento della sottoscrizione del dante causa P.P. (nella prodotta missiva del 10 gennaio 1972 e nella depositata scrittura datata 3 febbraio 1973 intercorsa tra il medesimo e P.D.) era stato effettuato – ai sensi dell’art. 214 c.p.c., mediante la dichiarazione resa dal procuratore degli originari attori nel relativo verbale di udienza, siccome essa era stata compiuta genericamente e, quindi, con modalità inidonee alla specifica contestazione dell’autenticità delle sottoscrizioni (con la derivante legittima utilizzabilità di detti documenti in funzione della decisione).

Con riferimento alle doglianze riferite alla dichiarata usucapione in favore della F., il giudice d’appello osservava che, in effetti, gli appellanti avevano impostato la loro difesa esclusivamente sulla contestazione del titolo di godimento in capo all’appellata, negando la sola configurabilità di un possesso “animo domini” ma non del “corpus possessionis”. Non avendo gli appellanti fornito la prova del loro assunto (ovvero che l’immobile fosse stato goduto dalla controparte solo per tolleranza o a titolo di detenzione per effetto di un contratto di comodato), la Corte di appello di Napoli ravvisava la sussistenza dei presupposti del titolo di acquisto per usucapione a vantaggio dell’appellata, pervenendo alla conferma della statuizione di primo grado.

Avverso la suddetta sentenza di secondo grado (non notificata) hanno proposto ricorso per cassazione L.L. (ved. P.), P.U., P.M. e P.P. (quali eredi di P.D.), nonchè P.M.G., articolato in tre motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimata Università degli Studi del Sannio (intervenuta in appello). Nell’interesse della F.C. – dichiarata interdetta in via definitiva con sentenza del Tribunale di Benevento n. 6880/2009 – la sua nominata tutrice ( V.A.) depositava procura speciale (autenticata per notar S.V.A. in data 17 ottobre 2014) per la rappresentanza e difesa in giudizio nella fase di legittimità (pur non depositando apposito controricorso ma ai soli fini dell’eventuale partecipazione alla discussione in udienza). La difesa dell’Università degli studi del Sannio ha anche depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Rileva il collegio che occorre esaminare, in primo luogo, le eccezioni pregiudiziali proposte nell’interesse della controricorrente Università degli Studi del Sannio.

1.1. Con la prima la difesa di detta controricorrente ha dedotto la (supposta) improcedibilità del ricorso per omessa richiesta di trasmissione del fascicolo di 2^ grado ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3.

Questa eccezione è priva di fondamento risultando, ex actis, dalla documentazione allegata alla produzione dei ricorrenti l’esistenza di tale istanza alla quale risulta apposto anche il visto per la trasmissione del fascicolo da parte del competente cancelliere in data 8 gennaio 2014.

1.2. Con la seconda eccezione la difesa della suddetta Università ha prospettato l’inammissibilità del ricorso per asserita mancanza dei motivi di impugnazione, sul presupposto che non risulterebbero essere state formulate specifiche censure riferibili ad uno o più motivi ricompresi nei vizi di legittimità indicati nel primo comma dell’art. 360 c.p.c..

Anche questa eccezione è manifestamente destituita di fondamento poichè, indipendentemente dall’omesso riferimento espresso, nel ricorso, all’elencazione numerica delle violazioni deducibili ai sensi della norma appena citata, i motivi risultano, comunque, riconducibili alle suddette violazioni sia in virtù della intitolazione delle rubriche dei tre motivi che in conseguenza del distinto svolgimento logico delle censure stesse, potendosi univocamente ritenere dedotto un triplice vizio di violazione e falsa applicazione di legge (relativi, il primo, all’art. 214 c.p.c., comma 2, il secondo all’art. 215 c.p.c., comma 2 e il terzo all’art. 1158 c.c.), con corrispondente congiunta prospettazione di un triplice vizio motivazionale. Del resto, occorre rimarcare che le Sezioni unite di questa Corte (v. sentenza n. 17931/2013) hanno chiarito che, seppure il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, non è, tuttavia, necessaria al riguardo l’adozione di formule sacramentali o la puntuale indicazione numerica di una delle predette ipotesi, allorquando la riconducibilità delle ragioni dedotte con le singole doglianze ad uno o più delle violazioni predeterminate dalla suddetta norma sia evincibile univocamente dallo svolgimento della parte motiva delle censure stesse (come nella fattispecie, laddove, peraltro, il contenuto delle specifiche violazioni denunciate e, poi, sviluppate emerge – pur senza il riferimento numerico ai vizi di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1 – dalla conferente rubrica apposta in testa ai singoli motivi).

Superate in senso negativo le eccezioni proposte nell’interesse della contro ricorrente, si può, quindi, passare alla disamina dei motivi complessivamente formulati dai ricorrenti.

2. Con il primo motivo essi hanno censurato la sentenza impugnata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione dell’art. 214 c.p.c., comma 2, oltre che per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa il punto decisivo della controversia riguardante la genericità della dichiarazione di disconoscimento della scrittura a firma P.P., così come ritenuta dal giudice di appello.

3. Con la seconda censura le parti ricorrenti hanno dedotto un’ulteriore doglianza per violazione e falsa applicazione dell’art. 215 c.p.c., comma 2 e per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa il punto decisivo della controversia riguardante – a prescindere dal contenuto generico della relativa dichiarazione – la ravvisata intempestività del “non riconoscimento” delle scritture siccome effettuato non entro la prima udienza immediatamente successiva a quella della loro produzione.

4. Con il terzo motivo i ricorrenti hanno denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 1158 c.c., unitamente al vizio di motivazione della sentenza di appello in ordine alla rilevata sussistenza delle condizioni per la dichiarazione di usucapione in favore della F., intendendo confutare la sentenza in questione nella parte in cui aveva affermato che incombeva sugli attori l’onere della prova della insussistenza dell’animus domini, anzichè ritenere che incombeva al comproprietario l’onere di provare la sussistenza del possesso esclusivo (opponendolo agli altri comproprietari).

5. Osserva il collegio che il primo motivo è infondato quanto alla dedotta violazione di legge ed inammissibile con riferimento al prospettato vizio motivazionale.

Infatti, non sussiste l’asserita violazione dell’art. 214 c.p.c., comma 2, perchè il giudice di appello ha adeguatamente rilevato che alcun formale e rituale disconoscimento della sottoscrizione del dante causa P.P. era stato formalizzato ai sensi della predetta norma, non potendo essa rinvenirsi nella dichiarazione effettuata dal procuratore degli attori in primo grado nel verbale di udienza del 5 novembre 1993, poichè da esso traspariva soltanto la circostanza che il procuratore comparso nell’interesse dell’attore aveva genericamente disconosciuto la firma per conto dello stesso, ponendo, peraltro, un altrettanto generico riferimento alle scritture esibite e senza provvedere ad alcuna indicazione specifica della sottoscrizione (che si sarebbe voluta contestare) del P.P., così non consentendo di verificare quale scrittura e quale sottoscrizione il menzionato procuratore avesse inteso effettivamente disconoscere, potendosi, oltretutto, generare confusione tra gli atti a cui la dichiarazione poteva essere stata rivolta (v. pagg. 6-7 della sentenza impugnata).

Così decidendo, il giudice di secondo grado si è puntualmente attenuto ai principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui il disconoscimento di una scrittura privata, ai sensi dell’art. 214 c.p.c., pur non richiedendo formule sacramentali o vincolate, deve, comunque, rivestire i caratteri della specificità e della determinatezza e non risolversi in espressioni di stile, con la conseguenza che colui il quale vuole negare l’autenticità della propria sottoscrizione è tenuto a specificare, ove più siano i documenti prodotti, se siffatta negazione si riferisca a tutti o ad alcuni soltanto di essi (cfr., ad es., Cass. n. 24456/2011 e Cass. n. 12448/2012). Peraltro, la relativa valutazione si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, da ritenersi incensurabile in questa sede di legittimità siccome congruamente e logicamente motivato dalla Corte di appello partenopea (v. Cass. n. 11460/2007 e Cass. n. 18042/2014).

Il vizio di motivazione così come dedotto – oltre a essere insussistente per quanto appena evidenziato – è, ancor prima, inammissibile perchè riferito nella sua esplicazione – alla formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella sua versione antecedente a quella sostituita del D.L. 22 giugno 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv., con modif., dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, nel mentre – risultando impugnata una sentenza pubblicata il 14 maggio 2014 e, quindi, successivamente all’11 settembre 2012 (quale data dirimente “ratione temporis” ai sensi del cit. cit. D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3) – i ricorrenti avrebbero potuto dedurre solo l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti. In ogni caso la Corte territoriale ha compiutamente esaminato e risolto sulla base di corretti principi giuridici la contestata circostanza circa la ritenuta irritualità della dichiarazione di disconoscimento.

6. Il secondo richiamato motivo (collegato al primo) – scomposto anch’esso nella deduzione di un duplice profilo riferibile, per un verso, ad una violazione di legge e, per altro verso, ad un vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia – si appalesa inammissibile. Per la valutazione di inammissibilità dell’assunto vizio logico di motivazione ci si richiama integralmente alle ragioni addotte a sostegno della relativa declaratoria di inammissibilità, per quanto di ragione, adottata in relazione alla prima censura.

Con riferimento alla prospettata violazione e falsa applicazione dell’art. 215 c.c., comma 2, va rilevato che, in effetti, la Corte di appello di Napoli ha fondato le ragioni del rigetto circa la ritenuta irritualità della dichiarazione di disconoscimento esaminata in ordine al primo motivo fondandola, in via esclusiva, sulla genericità della suddetta dichiarazione come giustificata sulla base dei condivisi richiamati termini, ponendo riferimento, come mero obiter, alla operatività della decadenza prevista dal citato art. 215, comma 2, volendo – ad abundantiam – intendere, cioè, implicitamente, che la sua invalida (poichè non rispondente ai criteri di specificità ed inequivocità) formulazione avrebbe potuto ritenersi equivalente alla sua mancata (effettiva) esplicitazione (da avvenire nei rigorosi termini indicati nella stessa norma).

7. Anche il terzo motivo (con il quale si denuncia, peraltro, solo la supposta violazione dell’art. 1158 c.c. e non anche degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.c.) non è meritevole di accoglimento perchè, in effetti, con la relativa censura i ricorrenti hanno dimostrato di non aver colto la ratio decidendi determinante, nel complesso percorso logico-giuridico compiuto dalla Corte territoriale, per pervenire al rigetto dell’appello e, quindi, alla conferma della sentenza di prime cure con la quale era stata accolta la domanda riconvenzionale di usucapione avanzata dalla F.C..

Infatti, al di là del riparto dell’onere probatorio in tema di azione per acquisto a titolo di usucapione da parte di un singolo comproprietario che si assume divenuto possessore esclusivo di un bene ricadente in comproprietà tra più titolari e presuntivamente composseduto), la Corte partenopea ha fondato la sua statuizione sull’acclarata decisiva circostanza probatoria che fin dalla scrittura stipulata il 10 gennaio 1972 risultava che i fratelli P. erano stati d’accordo per attribuire tutta la villa a P.U., dante causa della nuora F.C. che aveva proseguito nell’esercizio del relativo possesso, con la conseguenza che dalla suddetta data era emersa la prova dell’animus possidendi (v. pag. 7 della sentenza qui impugnata) e, poichè la citazione introduttiva da parte dei controinteressati era risalente al 24 giugno 1992, ne era derivata la maturazione del termine ventennale per l’acquisto a titolo di usucapione in favore della F., senza che alcuna prova interruttiva del possesso o altro riscontro istruttorio fosse risultato ritualmente allegato per contrastare l’idoneità dell’utile possesso ad usucapionem (divenuto esclusivo) da parte della stessa.

In altri termini, la ragione fondante della sentenza impugnata in questa sede non è stata riferita alla regola di giudizio sul riparto dell’assolvimento dell’onere probatorio, ma sull’avvenuta acquisizione della prova del possesso ultraventennale in via esclusiva da parte della F.. E per questa decisiva ragione, rimasta inconfutata, la sentenza della Corte di appello resiste alla proposta complessiva doglianza, basata su altro presupposto non risolutivo ai fini della definizione della controversia da parte dei giudici del merito.

7. In definitiva, sulla scorta delle argomentazioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con la conseguente condanna dei soccombenti ricorrenti al pagamento – con vincolo solidale – delle spese del presente giudizio, liquidate nella misura di cui in dispositivo.

Ricorrono, infine, le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti in via fra loro solidale, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento – con vincolo solidale – delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte degli stessi ricorrenti in via solidale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2018

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