Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15359 del 26/07/2016


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Cassazione civile sez. III, 26/07/2016, (ud. 13/04/2016, dep. 26/07/2016), n.15359

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5486/2013 proposto da:

G.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E

DE CAVALIERI 7, presso lo studio dell’avvocato VALERIA DEL BIANCO,

rappresentata e difesa dall’avvocato BIAGIO M. GAETANI, giusta

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLE

MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MANCINI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANNIBALE GUIDI, giusta

procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1414/2012 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 29/10/2012, R.G.N. 507/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/04/2016 dal Consigliere Dott. PAOLO D’AMICO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Lucca, con sentenza del 20 gennaio 2006, condannò P.O. a pagare a G.G. la somma di Euro 31.430,19, oltre accessori, a titolo di risarcimento ex art. 1591 c.c., per ritardata consegna dell’immobile oggetto di locazione. Il contratto era stato infatti giudizialmente risolto per morosità del conduttore nel giugno 1984 e la sentenza era passata in giudicato nel 1994, mentre l’occupazione senza titolo dell’immobile si era protratta sino a dicembre del 1991.

Contro tale sentenza propose appello la G., reclamando un più cospicuo risarcimento, particolarmente per quanto riguarda il calcolo della rivalutazione e degli interessi, ed una più congrua liquidazione delle spese processuali.

Resistette al gravame il P. che propose a sua volta appello in via incidentale, sostenendo che nessun risarcimento spettava all’attrice in quanto, una volta conseguita la disponibilità dell’immobile, lo aveva mantenuto per diversi anni inutilizzato.

La Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 29 ottobre 2012, ha rigettato il gravame ritenendo che la mancata utilizzazione del locale da parte della G. nel periodo compreso fra il 1984, epoca di risoluzione della locazione, e il 1991, epoca di riconsegna dell’immobile locato, non era da porre in relazione con la tardiva restituzione del locale stesso, ma con la volontà della medesima attrice di non rilocare l’immobile se non a un dentista disposto a costituirvi uno studio in collaborazione con la di lei figlia; tale evenienza non si verificò.

Propone ricorso per cassazione G.G. con un unico motivo.

Resiste con controricorso P.O..

Le parti presentano memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La ricorrente, con l’unico motivo, denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (denunziato ai sensi del novellato – richiamato in nota 2 del ricorso – art. 360 c.p.c., n. 5): proposito della locatrice G. di utilizzare il suo immobile (già locato al P.) per farne studio dentistico della propria figlia E. pretesamente “da sempre”, mentre è un fatto, documentato da tutti gli atti di causa, che la G. mai aveva espresso tale proposito nel pur lunghissimo giudizio iniziato con l’intimazione di sfratto per morosità 17/25 febbraio 1984 e concluso con la sentenza di accoglimento in sede di rinvio dalla Cassazione” – sentenza n. 7934 del 1991- “del 16 dicembre 93/8 giugno 1994 del Tribunale di Pisa; tale proposito la G. espresse solo nel diverso, e di oltre sette anni successivo, giudizio introdotto con licenza per finita locazione del 24 giugno 1991: a) quando la detta figlia E. era già laureata da 4 anni; b) al solo fine di accelerare l’esecuzione dello sfratto (che, infatti, avvenne solo sei mesi dopo, il 19 dicembre 1991); e, circa il presente giudizio, lo stesso proposito la G. invocò solo nella comparsa conclusionale 22 novembre 2005 (pagg. 30-31) del primo grado, dopo i detti 4 gradi del precedente giudizio, e dopo che anche la citazione introduttiva del primo grado del presente giudizio (del 27 marzo 1995) era rimasta muta al riguardo. Quindi integra un falso (o, se si preferisce, un errore decisivo) l’aver attribuito alla G. il proposito di utilizzare l’immobile de quo come studio dentistico della figlia anche nel periodo 1984-1987, quando ancora la figlia non era laureata; e in questo falso (o, se si preferisce, errore decisivo) la Corte è incorsa per negligenza, cioè: 1) per avere acriticamente copiato dalla dichiarazione del P. “da sempre” ripresa, sì, dalla G. ma tra virgolette, per evidenziarne la paternità non sua, bensì del solo P.; 2) per aver trascurato ogni esame degli atti della G., dai quali – ripetesi – risulta che mai prima di detto 24 giugno 1991 (…) la G. aveva manifestato il superiore proposito e solo aveva destinato l’immobile al riaffitto a terzi con un canone libero di mercato. Questo omesso corretto esame del fatto… fonda e permea tutta la sentenza”.

Afferma la ricorrente che, fin dalla citazione per convalida di sfratto per morosità del febbraio 1984, ha sempre sostenuto che se avesse riavuto per tempo la disponibilità dell’immobile, avrebbe trovato convenienza a ridare a terzi il godimento dello stesso. Avrebbe poi cambiato idea decidendo di proporlo in locazione ad un dentista-socio della figlia solo dopo che ne aveva ottenuto la disponibilità.

Il motivo è infondato.

Oggetto dell’unico motivo del ricorso è il vizio di motivazione dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con mod. in L. 7 agosto 2012, n. 134) a norma del quale è motivo di ricorso per cassazione un “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Anche prima di tale riformulazione, per fermo indirizzo della Corte di legittimità, il ricorso per cassazione per vizio di motivazione non consente di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass., 16 dicembre 2011, n. 27197).

L’intervento di modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., come recentemente interpretato dalle SS.UU. di questa Corte (7 aprile 2014, n. 8053) comporta un’ulteriore, sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione. Con esso si è invero avuta la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.

Ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dal giudice di merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili; non si configura invece un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ove quest’ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dai gravissimi vizi appena detti.

Nel caso in esame la sentenza impugnata ha ritenuto che la mancata utilizzazione del locale, da parte della G., nel periodo compreso fra il 1984, epoca di risoluzione della locazione per inadempimento del conduttore, e il dicembre 1991, epoca di riconsegna dell’immobile locato, non è da porre in relazione con la tardata restituzione del locale stesso, ma con la volontà della medesima attrice di non rilocare l’immobile se non a un dentista disposto a costituirvi uno studio in collaborazione con la di lei figlia. Evenienza che non si verificò mentre solo a distanza di anni, dopo che la medesima figlia si era sistemata altrove, la G. offrì il locale in locazione alle condizioni di mercato e il nuovo inquilino fu trovato rapidamente.

E’ evidente che, nella specie, la valutazione operata dal giudice di merito dell’assenza di un nesso di causalità fra il protrarsi senza titolo della detenzione del locale da parte del conduttore e la mancata utilizzazione dello stesso da parte della locatrice, non è affetta da alcun vizio rientrante nel nuovo art. 360 c.p.c., n. 5.

Tutti i punti contestati con il motivo del ricorso sono stati oggetto di esame e valutazione logica e coerente da parte della Corte d’appello, mentre la ricorrente, più che un omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, censura un vero e proprio vizio di diversa valutazione delle prove, non sindacabile in sede di legittimità.

A ciò deve aggiungersi che la stessa ricorrente, nell’atto di citazione del 1995 con cui chiese il risarcimento danni ai sensi dell’art. 1591 c.c., richiamò il separato procedimento di convalida per finita locazione intimata in data 3 luglio 1991 in attesa della pubblicazione, avvenuta il 17 luglio 1991, della sentenza n. 7934 del 1991 di questa Corte con cui fu cassata con rinvio la sentenza del Tribunale di Pisa di rigetto dello sfratto per morosità del P. (accolto, come innanzi detto, con sentenza del giudice del rinvio passata in giudicato nel 1994).

A fondamento della suddetta intimazione per finita locazione per il 15 luglio 1991 la locatrice invocò la sentenza n. 1251 della Corte d’appello di Firenze, passata in giudicato nel 1990, che, nel respingere la domanda per finita locazione per una data anteriore, stabilì che il rilascio poteva avvenire dopo dodici anni dall’ inizio della locazione.

Detta intimazione fu accolta e lo sfratto fu fissato per il 31 agosto 1991. Conseguentemente la predetta statuizione è passata in giudicato prima della sentenza del Tribunale di Pisa in sede di rinvio – che è del 1994 – secondo il quale il contratto si era risolto per morosità fin dal 1984 e perciò fino al 15 luglio 1991 il contratto era in corso, sicchè il P. doveva pagare soltanto il canone, ma non il maggior danno ai sensi dell’art. 1591 c.c., che tutt’al più dovrebbe pagare dal 31 agosto 1991 al 31 dicembre 1991.

Infatti, per giurisprudenza consolidata, qualora due giudizi fra le stesse parti vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico, l’accertamento compiuto circa una situazione giuridica, ovvero la risoluzione di una questione di fatto o di diritto che incida su un punto fondamentale comune ad entrambe le cause ed abbia costituito la logica premessa della statuizione contenuta nel dispositivo di sentenza passata in giudicato, preclude il riesame del punto accertato e risolto, anche nel caso in cui l’altro giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo e il petitum del primo. In altri termini, qualora due giudizi fra le stesse parti abbiano ad oggetto un medesimo negozio o rapporto giuridico, il giudicato che nel primo di essi si sia formato su una questione di fatto o di diritto comune ad entrambi, preclude il riesame della stessa questione nel secondo, ancorchè le finalità dei due giudizi siano diverse (Cass., 13 maggio 1995, n. 5243).

Tale giudicato esterno, rilevabile di ufficio, del 1990 e 1991, comporta che, integrando in tal senso la motivazione, comunque il danno che la G. lamenta per esser avvenuto il rilascio del suo immobile nel dicembre 1991 è ampiamente ristorato dalla maggior somma liquidata per aver ritenuto, in base al giudicato del 1994, occupato senza titolo il medesimo immobile dal 1984 e perciò la sentenza impugnata va confermata ed il ricorso va respinto.

In conclusione, il ricorso va rigettato, mentre attesa la diversità dei titoli sulle date di decorrenza dell’ omesso rilascio e sulla vigenza del contratto di locazione, sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente di un ulteriore importo, pari al contributo unificato dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2016

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