Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15358 del 20/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 20/07/2020, (ud. 17/09/2019, dep. 20/07/2020), n.15358

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17709-2016 proposto da:

3DI SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA SICILIA 66, presso lo studio

dell’avvocato AUGUSTO FANTOZZI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ROBERTO ALTIERI, giusta procura in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2892/2015 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

BRESCIA, depositata il 25/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/09/2019 dal Consigliere Dott. LUCIO NAPOLITANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

TOMMASO BASILE che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato MAMELI per delega dell’Avvocato

ALTIERI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il controricorrente l’Avvocato GENTILI che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 2892/65/2015, depositata il 25 giugno 2015, non notificata, la Commissione tributaria regionale (CTR) della Lombardia- sezione staccata di Brescia – rigettò l’appello proposto dalla 3DI S.r.l. (già 3D FIN S.r.l.) nei confronti dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale (CTP) di Cremona, che aveva a sua volta rigettato il ricorso proposto dalla società avverso il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso da quest’ultima formulata della somma di lire 5.732.298.000 (pari ad Euro 2.960.484,85) versata nel 2001 dalla società medesima a titolo d’imposta sostitutiva di cui al D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 1, secondo l’aliquota agevolata del 19%, a seguito dell’operazione di conferimento intracomunitario, in favore di società avente sede nel (OMISSIS), di ramo di azienda, in data (OMISSIS).

La CTR, prima di pervenire al rigetto dell’appello proposto dalla contribuente avverso la decisione della CTP sfavorevole alla società, adiva per due volte in sede di rinvio pregiudiziale ai sensi del TFUE, art. 267, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale, in ordine alla prima, dichiarava, con sentenza 19 dicembre 2012, n. 818, causa C207/11, che “la Dir. Consiglio, del 23 luglio 1990, n. 90/434/CEE, artt. 2, 4 e 9, relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti d’attivo ed agli scambi d’azioni concernenti società di Stati membri diversi, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano, in una situazione quale quella oggetto del procedimento principale, a che un conferimento d’attivo dia luogo ad imposizione, nei confronti della società conferente, delle plusvalenze risultanti dal conferimento stesso, a meno che la società conferente iscriva nel proprio bilancio un’apposita riserva in misura corrispondente al plusvalore emerso in sede di conferimento”; quanto alla seconda domanda di rinvio pregiudiziale, con ordinanza 17 luglio 2014, causa C-107/14, ne dichiarava la manifesta irricevibilità.

Avverso la sentenza della CTR la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo.

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso la contribuente denuncia violazione di legge per contrasto della sentenza impugnata con il principio di non discriminazione e con il divieto di restrizione alle libertà economiche comunitarie, specificamente deducendo violazione del TFUE, artt. 49 e 63, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Assume sostanzialmente la ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe escluso che nella fattispecie in esame la scelta da parte della società del regime opzionale comportante il versamento dell’imposta sostitutiva fosse ascrivibile ad errore essenziale della società, sul presupposto che la Corte di Giustizia, adita in sede di rinvio pregiudiziale dalla CTR, avrebbe negato che nel caso di specie sussistesse da parte della normativa nazionale violazione del diritto UE. Ciò in ragione del fatto che la Corte di Giustizia si sarebbe limitata ad affermare, con la prima sentenza, l’esclusione del contrasto tra la normativa interna allora applicabile di cui al D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 4, comma 2, e la summenzionata Dir. del Consiglio, n. 90/434/CEE, ma nulla avrebbe affermato, per la carenza formale dell’ordinanza di rimessione da parte della CTR, con riferimento al denunciato contrasto con le norme in materia delle libertà economiche fondamentali di stabilimento e di libera circolazione dei capitali.

La tesi della ricorrente si basa sul presupposto che la normativa nazionale applicabile ratione temporis contenesse una discriminazione tra il trattamento concernente il conferimento meramente interno, nel quale la conferente poteva ottenere la neutralità senza alcun obbligo d’iscrizione di riserva in bilancio, e quello intracomunitario, nel quale l’ottenimento della neutralità era subordinato all’iscrizione di una riserva in sospensione d’imposta, non distribuibile senza assoggettamento ad imposta in capo alla società e che di tale discriminazione la contribuente avesse potuto rendersi edotta solo in ragione della sentenza CGUE 21 novembre 2002, causa C-436/00.

2. In primo luogo va osservato – in consonanza con quanto rilevato dalla stessa CGUE nella sentenza 19 dicembre 2012, citata, vincolante per il giudice a quo, che le affermazioni rese dalla Corte di Giustizia nell’invocata, da parte ricorrente, sentenza 21 novembre 2002 – quanto alla violazione del principio di libertà di stabilimento, sono state rese in causa in cui il giudizio principale verteva in fattispecie di scambio di azioni.

Qui, come si è detto, la fattispecie è riferita a conferimento intracomunitario di ramo d’azienda.

Si è, dunque, specificamente, nell’ambito del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 544, art. 1, comma 1, lett. c), e del detto decreto, 2, comma 2, costituente attuazione della Dir. del Consiglio n. 90/434/CEE.

2.1. La prima delle due succitate disposizioni prevede, appunto, che le disposizioni del suddetto decreto si applicano, per quanto qui rileva, “ai conferimenti di azienda o di complessi aziendali relativi a singoli rami dell’impresa da uno ad altro dei soggetti indicati nella lettera a) residenti in Stati diversi della comunità, sempre che uno dei due sia residente nel territorio dello Stato”.

2.2. La seconda prevede che i suddetti conferimenti “non costituiscono realizzo di plusvalenze o di minusvalenze ma l’ultimo costo dell’azienda o del ramo aziendale conferito fiscalmente riconosciuto costituisce costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione ricevuta. La differenza tra il valore delle azioni o quote ricevute”, quale corrispettivo del complesso o del ramo aziendale conferito, “e l’ultimo valore dei beni conferiti riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi non concorre a formare il reddito imponibile dell’impresa o società apportante fino a quando non sia stata realizzata o distribuita ai soci. Se le partecipazioni ricevute sono iscritte in bilancio ad un valore superiore a quello contrabile dell’azienda conferita la differenza deve essere iscritta in apposito fondo e concorre alla formazione del reddito imponibile in caso di distribuzione”.

2.3. A sua volta la succitata Dir., art. 9, quanto alle regole applicabili ai conferimenti d’attivo, si limita a rinviare Dir. medesima, artt. 4, 5 e 6, non anche, quindi, all’art. 8 in tema di scambio di azioni.

2.4. Orbene, come espressamente affermato dalla Corte di Giustizia nella succitata sentenza 19 dicembre 2012, punto 27, il principio di neutralità fiscale di cui alla Dir. in esame, paragrafo 4.1., secondo cui “La fusione o la scissione non comporta alcuna imposizione delle plusvalenze risultanti dalla differenza tra il valore reale degli elementi d’attivo e di passivo ed il loro valore fiscale” per quest’ultimo dovendosi intendere il valore che sarebbe stato preso in considerazione per il calcolo degli utili o delle perdite ai fini della determinazione della base imponibile di un’imposta sul reddito, sugli utili o sulle plusvalenze della società conferente, se questi elementi di attivo o di passivo fossero stati venduti al momento della fusione o della scissione, ma indipendentemente da tali operazioni non è incondizionato.

La Dir., paragrafo 4.2., stabilisce, infatti, che “Gli Stati membri subordinano l’applicazione del paragrafo 1 alla condizione che la società beneficiaria calcoli i nuovi ammortamenti e le plusvalenze e minusvalenze inerenti agli elementi d’attivo e passivo trasferiti alle stesse condizioni in cui sarebbero stati calcolati dalla o dalle società conferenti, se la fusione o la scissione non avesse avuto luogo.

2.5. In forza di tale ricognizione normativa deve, pertanto, concludersi nel senso che il D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 4, laddove, con specifico riferimento ai conferimenti di aziende possedute per periodo non inferiore a tre anni, nello stabilire che essi non costituiscono realizzo di plusvalenze o minusvalenze, subordina tuttavia l’applicabilità di detto principio di neutralità alla circostanza che il soggetto conferente deve assumere, quale valore delle prestazioni ricevute, l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita.

La direttiva si occupa, infatti, della società conferitaria e non anche della conferente, ciò che esclude a monte la possibilità che, oltre a porsi in contrasto con la direttiva, la normativa nazionale possa costituire violazione della libertà economica fondamentale di stabilimento.

2.6. Manca, del resto, nella fattispecie in esame, lo stesso presupposto “spaziale” in presenza del quale ipotizzare limiti illegittimi frapposti dalla succitata normativa nazionale, attuativa della direttiva comunitaria, alla libertà di stabilimento, atteso che nel caso di specie l’azienda oggetto di conferimento resta pur sempre in Italia, venendo solo trasformata, per effetto del conferimento, in una stabile organizzazione, situata in Italia, della società lussemburghese.

2.7. Di là anche da detta considerazione, deve in ogni caso rilevarsi, quando pur s’intenda seguire l’argomentazione prospettata da parte ricorrente, per un verso che la prima sentenza resa dalla Corte di Giustizia UE sulla prima domanda di rinvio pregiudiziale debba intendersi idonea a coprire il dedotto ed il deducibile, mentre per altro verso che – di là dalle carenze formali dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale della CTR – la difformità, ove sussistente, della direttiva dal diritto primario dell’Unione, avrebbe potuto essere rilevata anche d’ufficio dalla Corte di Giustizia, ciò rispondendo ad orientamento consolidato della Corte medesima (cfr., ad esempio, Corte di Giustizia 18 marzo 1993, causa C-280/91, punto 17, ove si afferma che “la Corte ha il compito di interpretare tutte le norme di diritto comunitario che possano essere utili al giudice nazionale al fine di dirimere la controversia di cui è stato adito, anche qualora dette norme non siano espressamente indicate nella questione pregiudiziale sottopostale”).

Parte ricorrente ha dunque scelto liberamente il regime opzionale di cui al citato D.Lgs. n. 358 del 1997, art. 1, applicabile ratione temporis, essendosi posta al di fuori del principio di continuità dei valori, ed avendo fatto quindi emergere una plusvalenza affrancata attraverso il versamento dell’imposta sostitutiva, senza che possa assurgere a giustificazione della revocabilità dell’opzione quanto statuito dalla CGUE con la pronuncia 21 novembre 2002, causa C436/00, difettando, per le considerazioni sopra esposte, nella fattispecie in esame, la stessa configurabilità, in relazione alla sopravvenienza della citata pronuncia al pagamento dell’imposta sostitutiva da parte della società, dell’errore essenziale e riconoscibile secondo il disposto dell’art. 1428 c.c..

2.8. Va, infine, rilevato come la successiva equiparazione normativa, per effetto del D.Lgs. n. 344 del 2003, del conferimento d’azienda intra UE, del D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 179, comma 2, (TUIR), come modificato dal suddetto decreto legislativo, al c.d. conferimento domestico, TUIR, ex art. 176, in regime di neutralità piena, si sia affiancata alla soppressione del regime opzionale del pagamento dell’imposta sostitutiva, che, secondo la normativa applicabile ratione temporis nella controversia in esame, la società ha inteso liberamente praticare per far emergere, in deroga al regime di neutralità, la plusvalenza all’atto del conferimento ed affrancarla mediante appunto il pagamento dell’imposta sostitutiva quale allora prevista.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

3. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 20.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2020

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