Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15357 del 26/07/2016


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Cassazione civile sez. III, 26/07/2016, (ud. 30/03/2016, dep. 26/07/2016), n.15357

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19121/2013 proposto da:

B.F.M., (OMISSIS), B.S.M.

(OMISSIS), B.L. (OMISSIS), quali eredi di N.G.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA LUDOVISI 36, presso lo studio

dell’avvocato DOMENICO POLIMENI, che li rappresenta e difende giusta

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE REGGIO CALABRIA, in persona della Commissione Straordinaria,

composta dal Dott. P.V., dal Dott. C.G. e

dal Dott. L.P.C., legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI 130, presso lo

studio dell’avvocato ELISA NERI, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GIUSEPPE NERI giusta procura speciale a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1/2013 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 09/01/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/03/2016 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito l’Avvocato ATTILIO COTRONEO per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B.F.M., B.S.M. e B.L., nella qualità di eredi di N.G., proprietaria dell’immobile sito in (OMISSIS), rimanevano soccombenti in entrambi i gradi del giudizio di merito avente ad oggetto la domanda di risarcimento danni proposta nei confronti dell’ente locale, ritenuto responsabile ai sensi dell’art. 2051 c.c., degli allagamenti e delle infiltrazioni di liquami nei locali del predetto immobile verificatisi tra il 1981 ed 1984 per difetto di manutenzione dell’impianto fognario comunale.

La Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza in data 9.1.2013 n. 14, riteneva non raggiunta la prova del nesso causale tra i danni lamentati e le infiltrazioni di liquami derivanti dalla rete fognaria comunale, in quanto i testi escussi aveva confermato soltanto che negli anni 80 si erano verificati allagamenti dell’immobile, mentre la consulenza tecnica espletata in primo grado, nell’anno 2005, aveva constatato la esistenza di macchie di umidità nelle pareti adiacenti al marciapiede e nel locale sottostante, ma dato il tempo trascorso il CTU, non essendo stata ispezionata la condotta fognaria, non era stato in grado di individuare la causa dei risalenti allagamenti, che poteva imputarsi anche a difetti di adeguato isolamento dell’unità immobiliare volto ad impedire la risalita di umidità dal terreno circostante, non escludendo, inoltre, che i danni fossero ascrivibili anche a difettoso smaltimento delle acque meteoriche in considerazione del progressivo innalzamento della sede stradale fino al piano del marciapiede adiacente i muri perimetrali dell’immobile.

La sentenza non notificata è stata impugnata dagli eredi soccombenti che hanno dedotto con tre motivi vizi di errore di diritto e di fatto.

Ha resistito il Comune con controricorso.

Le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti censurano la sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., sostenendo che i Giudici di appello non hanno correttamente valutato le risultanze istruttorie dalle quali emergeva in modo chiaro la responsabilità del Comune e la prova che i danni all’immobile erano stati arrecati dalla fuoriuscita di liquami dalla condotta fognaria, ed a tal fine richiamano tutti gli atti processuali (comparsa di risposta in primo grado del Comune; atto di citazione; dichiarazioni dei testi Z. e L.; c.t.u. redatta dall’Ing. M.; perizia estimativa Ing. Mu. allegata al fascicolo di parte attrice; Delib. Giunta Municipale 14 gennaio 1988; CTP del Comune redatta dall’arch. F.) che provvedono a trascrivere nel ricorso e cui è affidata interamente la esposizione della censura.

Il motivo è inammissibile, per difetto del requisito di autosufficienza prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, alla stregua del principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui il ricorso per cassazione in cui l’esposizione dei fatti processuali che precedono i motivi del ricorso ed il ricorso medesimo si limitino a richiamare – anche attraverso la loro allegazione o mediante la mera riproduzione – tutti indistintamente gli atti dei precedenti gradi del processo, ivi compresi quelli formatisi nel suo corso come i verbali d’udienza, è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, non rispondendo al requisito della specificità che deve caratterizzare ogni impugnazione ed ogni suo motivo, non essendo inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 5698 del 11/04/2012; id. Sez. 6-5, Ordinanza n. 17447 del 12/10/2012; id. Sez. 6-3, Ordinanza n. 593 del 11/01/2013; id. Sez. 6-5, Ordinanza n. 10244 del 02/05/2013; id. Sez. L, Sentenza n. 22792 del 07/10/2013), non essendo peraltro enucleabile dalla esposizione del motivo un contenuto argomentativo rilevante ed autonomo rispetto al contenuto degli atti processuali trascritti, tale da consentire alla Corte di individuare agevolmente il fatto sommariamente esposto e la correlativa critica rivolta alla statuizione della sentenza impugnata (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 18363 del 18/09/2015. Vedi Corte Cass. Sez. 6-3, Sentenza n. 3385 del 22/02/2016, secondo cui il ricorso è inammissibile anche quando dal contesto dell’atto sia evincibile il fatto sommariamente esposto, ma attraverso una operazione che non si presenti di immediata agevolezza).

Il motivo si palesa inammissibile anche in relazione alla indicazione delle norme violate, atteso che la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per giurisprudenza consolidata di questa Corte, ridonda in una inesattezza valutativa del “thema probandum” (con riferimento ai fatti non contestati ex art. 115 c.p.c., comma 1) e delle risultanze istruttorie (con riferimento al “prudente apprezzamento” delle prove ex art. 116 c.p.c., comma 1), che si traduce sempre in un vizio logico della motivazione, ricadendo nel controllo di legittimità previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2707 del 12/02/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 12912 del 13/07/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006).

Nella specie, ad eccezione del rilievo formulato nel motivo in ordine all’omessa considerazione da parte del Giudice di appello che il fatto causativo del danno non era stato oggetto di contestazione, per il resto la censura è fondata interamente sulla rivisitazione del materiale probatorio, che rimane preclusa in sede di legittimità non essendo consentito alla Corte, in considerazione dei limiti della verifica confinata ai soli vizi della sentenza tassativamente indicati nell’art. 360 c.p.c., comma 1 e della finzione nomofilattica assegnata tramite detta verifica, procedere ad un terzo grado di giudizio mediante una nuova rivalutazione dei fatti esaminati nei precedenti gradi di merito (cfr. (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997; id. Sez. 6-5, Ordinanza n. 5024 del 28/03/2012; id. Sez. 6-5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014, secondo cui: “il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito”), tanto più che al ricorso per cassazione, notificato il 16.7.2013, deve applicarsi l’art. 360 c.p.c., comma 1, nella nuova formulazione introdotta del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012), rimanendo circoscritto il controllo del vizio di legittimità (fino ad allora esteso anche al processo logico argomentativo fondato sulla valutazione dei fatti allegati assunti come determinanti in esito al giudizio di selezione e prevalenza probatoria, potendo essere censurata la motivazione della sentenza, oltre che per “omessa” considerazione di un fatto controverso e decisivo dimostrato in giudizio, anche per “insufficienza” e per “contraddittorietà” della argomentazione) all’accertamento del “minimo costituzionale” prescritto dall’art. 111 Cost., per la motivazione del provvedimento giurisdizionale e che è stato individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte, dovendo ritenersi insoddisfatto tale requisito minimo soltanto qualora ricorrano quelle stesse ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e che determinano la nullità della sentenza. Al di fuori delle ipotesi indicate (attinenti alla “esistenza” del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale) residua soltanto l’omesso esame di un fatto storico controverso, che è stato oggetto di discussione e “decisivo”, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali acquisiti al rilevante probatorio ritenuti dal Giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (cfr. Corte Cass. SS.UU. in data 7.4.2014 n. 8053).

Ed è appena il caso di osservare come nella fattispecie i ricorrenti non adducano alcun fatto principale o secondario, dimostrato in giudizio e da ritenersi “decisivo”, che sia stato omesso dalla Corte territoriale nell’attività di ricognizione, comparazione e selezione degli elementi probatori: quanto ai testi ha infatti considerato che i fatti riferiti concernevano i lavori di ripristino eseguiti (ristrutturazione del pavimento; otturazione buchi sulle pareti) ed i fenomeni di infiltrazione di detriti e liquami, non anche le valutazioni espresse dai testi in ordine alla causa dei danni; quanto alle risultanze della consulenza tecnica di ufficio e di quella di parte del Comune, sono state condivise le conclusioni dell’ausiliario che non consentivano di pervenire alla identificazione della causa dei danni riscontrati sulle pareti (c.t.u.), non potendo escludersi altri fattori causali (inadeguato isolamento dell’edifico dal terreno circostante; insufficiente sistema di areazione dei locali) anch’essi ipotizzati dal tecnico del Comune (c.t.p. Comune).

Del tutto infondata è la censura rivolta a contestare la violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1. Premesso che gli argomenti addotti con riferimento alle opinioni espresse dal CTU in merito al contenuto degli atti processuali delle parti, è assolutamente privo di qualsiasi rilevanza, trattandosi di compito riservato in via esclusiva al Giudice di merito, è appena il caso di osservare che, dalla trascrizione della comparsa di risposta del Comune in primo grado emerge che l’ente convenuto in giudizio ha contestato integralmente la domanda risarcitoria in relazione a tutti i fatti in essa esposti (“impugna e contesta in ogni sua parte il contenuto della domanda, rilevando che la stessa appare del tutto infondata e sfornita di prova circa la responsabilità dell’Ente nel preteso contestato accaduto per cui è causa”), negando la propria responsabilità per i fatti lesivi, il che è a dire – atteso che la responsabilità è il criterio di imputazione degli effetti giuridici che l’ordinamento riconduce a fatti od atti riferibili ad un soggetto- negando che il danno lamentato dagli attori fosse derivato da condotta illecita imputabile allo stesso ente e dunque che il danno fosse derivato dalla fuoriuscita di liquami dalla conduttura fognaria comunale. Correttamente pertanto il Giudice di appello ha interpretato le difese svolte nella comparsa di risposta del Comune come contestativa anche dell’ “an”, non assumendo al riguardo alcuna rilevanza la Delib. autorizzativa della Giunta comunale, che se, da un lato, rileva nel processo esclusivamente quale condizione di efficacia – e non requisito di validità- della costituzione in giudizio dell’ente pubblico, non assolvendo pertanto alla funzione di definire la linea difensiva della parte, dall’altro lato vale osservare come il riferimento, contenuto in tale delibera, a resistere in giudizio “soprattutto in relazione alla qualificazione del danno”, non esprima alcuna ammissione in ordine al nesso di causalità tra la “res” in custodia ed i danni che, come visto, è stato negato nella comparsa di risposta.

Il secondo motivo (omessa esame di un fatto discusso e decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), pur assolvendo al requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, è tuttavia inammissibile, alla stregua delle considerazioni svolte nell’esame del precedente motivo, in quanto si limita a ritenere “omesse” tutte le risultanze probatorie del giudizio, che vengono succintamente elencate, senza tuttavia svolgere alcuna critica specifica alle singole statuizioni della sentenza impugnata che ha preso in considerazione gli elementi istruttori rilevanti, valutandone la consistenza probatoria e fornendo argomenti giustificativi del “decisum”, rispondenti al minimo costituzionale richiesto dalla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Deve soltanto aggiungersi che la motivazione della sentenza non deve estendersi – come invece sembrano ritenere i ricorrenti – alla confutazione di tuttè gli elementi probatori esaminati dal Giudice, in quanto la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati (cfr. Corte mass. Sez. L, Sentenza n. 21412 del 05/10/2006). Ne segue che una volta giustificata la decisione in base alla ritenuta assenza di prova del nesso causale tra la res in custodia ed il danno all’immobile, in nessuna omissione rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è incorsa la Corte territoriale non prendendo in considerazione la ordinanza comunale di sgombero dei locali non rispondenti ai requisiti igienico-sanitari, nè la perizia estimativa dei danni prodotta dai proprietari danneggiati, atteso che nei documenti indicati veniva rappresentata la situazione dell’immobile e determinato il costo per la eliminazione dei danni riscontrati, senza che fossero forniti elementi di valutazione per individuare le cause di tali danni.

Con il terzo motivo viene dedotto il vizio di violazione dell’art. 2051 c.c..

Il motivo è inammissibile in quanto non investe la “ratio decidnedi”, dando per presupposto ciò che invece il Giudice di appello ha espressamente ritenuto non provato. La responsabilità per cose in custodia – applicabile anche alla Pubblica Amministrazione, certamente per beni come la rete fognaria delimitata nella sua estensione e soggetta a periodica manutenzione-, richiede a carico della parte danneggiata la allegazione e prova del collegamento eziologico tra il danno lamentato e la cosa (cfr. Corte Cass. 3 sez. 19.3.2009 n. 6665, richiamata anche dai ricorrenti), sicchè in difetto della prova indicata non è astrattamente configurabile un errore della Corte d’appello nella applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2051 c.c..

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte ricorrente condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità come liquidate in dispositivo.

Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che dispone l’obbligo del versamento per il ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato nel caso in cui la sua impugnazione sia stata integralmente rigettata, essendo iniziato il procedimento in data successiva al 30 gennaio 2013 (cfr. Corte Cass. SU 18.2.2014 n. 3774).

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.000,00 per compensi, Euro b200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali e gli accessori di legge;

– dichiara che sussistono i presupposti per il versamento della somma prevista del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2016

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