Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15330 del 17/07/2020

Cassazione civile sez. II, 17/07/2020, (ud. 21/02/2020, dep. 17/07/2020), n.15330

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21383-2019 proposto da:

J.W., elettivamente domiciliato in San Benedetto del

Tronto (AP) via del Correggio n. 22 presso lo studio dell’avv.to

Gabriella Ceneri, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di ANCONA, depositata il

28/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/02/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza pubblicata il 28 dicembre 2018, respingeva il ricorso proposto da J.W., cittadino della (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale il Tribunale di Ancona aveva rigettato l’opposizione avverso la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che, a sua volta, aveva rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione- internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria);

2. La Corte d’Appello, per quel che qui interessa, confermava la valutazione del giudice di primo grado e, ancor prima, della commissione competente circa l’insussistenza delle condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato.

L’appellante aveva infatti dichiarato di essere nato e di aver sempre vissuto nella città di (OMISSIS), situata nell'(OMISSIS), e di aver studiato otto anni e di aver svolto il mestiere di fotografo.

Il richiedente sosteneva di aver tendenzialmente svolto il suo lavoro in occasione di cerimonie ma di aver collaborato anche con la polizia, scattando foto di eventi importanti e di aver immortalato un arresto di membri di una confraternita e di essere stato minacciato con pistole e rinchiuso nella sua camera per mano di alcuni adepti del gruppo che avevano intenzione di entrare in possesso di tali fotografie, e che per tale motivo avrebbero sottratto all’appellante la sua macchina fotografica.

Il richiedente dichiarava di essere andato dalla polizia a seguito della vicenda e che i pubblici ufficiali gli avevano detto di non poter intervenire in quanto non era possibile identificare gli aggressori.

Secondo la Corte d’Appello il racconto del richiedente non era attendibile perchè lacunoso ed impreciso e la richiesta di concessione della protezione internazionale era assolutamente ingiustificata alla luce delle motivazioni fornite. Peraltro, la minaccia aveva una rilevanza meramente privata e non aveva avuto ulteriori ripercussioni. L’autorità aveva rappresentato di non poter svolgere indagini perchè non era facile identificare gli aggressori, ma non vi era stata una mancanza di tutela del richiedente e, dunque, non si ravvisavano pregiudizi in caso di ritorno nel Paese di origine e la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

Anche con riferimento al riconoscimento della protezione sussidiaria, nel racconto fornito in sede di audizione da parte del richiedente emergeva con chiarezza che la vicenda narrata non implicava alcun rischio di un’eventuale condanna a morte o di trattamento degradante e, dunque, era del tutto carente il requisito del grave danno come specificato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. Mancavano anche i presupposti previsti dal suddetto art. 14, lett. c non potendosi ritenere sussistente un conflitto armato internazionale.

Infatti, perchè il conflitto armato potesse essere causa di una minaccia grave ed individuale, doveva necessariamente svolgersi in prossimità geografica del luogo di dimora del richiedente la protezione internazionale) mentre dalle informazioni disponibili risultava che solo negli Stati del Nord e del nordest della (OMISSIS) vi fosse una situazione di rilevante insicurezza in conseguenza dell’attività del gruppo terroristico di (OMISSIS), nonchè nella regione centrale a causa di conflitti etnici e religiosi ivi esistenti.

Nella zona del richiedente, invece, non risultava un’analoga situazione, sussistendo un clima di violenza che non sfociava in una situazione di violenza indiscriminata o di conflitto armato interno.

Riguardo alla questione relativa alla concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 la Corte d’Appello osservava che non erano state allegate nè dimostrate specifiche situazioni soggettive tali da giustificare tale concessione, non rientrando l’istante in categorie soggettive in relazione alle quali erano ravvisabili lesioni di diritti umani di particolare entità, in mancanza peraltro di allegazione di una concreta integrazione nel tessuto sociale italiano, stante l’insufficienza delle esperienze lavorative vissute e la mancanza di un reddito idoneo alla conduzione di una vita libera e dignitosa nel territorio, dello Stato.

3. J.W. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di cinque motivi di ricorso.

4. Il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 9.

La censura verte sulla violazione del termine di sei mesi entro il quale la Corte d’Appello avrebbe dovuto decidere sull’impugnazione, ai sensi dell’art. 19 citato. Infatti, l’impugnazione avverso l’ordinanza resa dal tribunale di Ancona il 25 gennaio 2018 era stata depositata il 25 febbraio 2018 mentre la Corte d’Appello delle Marche aveva depositato la minuta della sentenza il 27 novembre 2018 e la motivazione il successivo 28 dicembre.

1.1 Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

L’art. 152 c.p.c. fissa un principio generale secondo il quale i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori.

Il termine di cui all’art. 19, dunque, non è un termine perentorio e la sua violazione non è prevista a pena di nullità.

Nel caso di specie, dunque, la violazione del termine entro il quale doveva essere deciso il ricorso non incide in alcun modo sulla validità del procedimento e non comporta alcuna nullità della sentenza.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione – in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, – delle norme di diritto inerenti la valutazione delle domande di protezione internazionale: art. 111 Cost., art. 118 disp. att. c.c., art. 115 e 116 c.p.c., D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2 bis, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 4, 5 e 19.

La censura attiene alla valutazione della documentazione allegata dall’istante nel giudizio di merito ed erroneamente valutata dalla Corte d’Appello, in particolare con riferimento alla documentazione fotografica della quale non si sarebbe tenuto conto.

2.1 Il secondo motivo è infondato.

Va, in primo luogo, osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).

Nel caso di specie, il ricorrente ha solo genericamente contestato il giudizio di non credibilità formulato dal giudice di merito, lamentando l’erronea valutazione del materiale fotografico.

La Corte, invece, ha dato atto di aver valutato il suddetto materiale e ha ampiamente motivato in ordine alle ragioni di non credibilità del racconto del richiedente, sicchè il motivo si risolve in un’inammissibile richiesta di rivalutazione in fatto delle risultanze istruttorie.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione – in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, – delle norme inerenti lo status di rifugiato e sui criteri di valutazione, art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e) ed f), artt. 7, 8 e 12.

Anche in questo caso la censura attiene all’erronea valutazione del racconto del richiedente e del conseguente rischio di subire atti di perquisizione, come dimostrato dalla produzione fotografica depositata, con l’annotazione della polizia (OMISSIS) allegata al ricorso. Peraltro, sarebbe erronea l’asserita rilevanza meramente privata delle ragioni del richiedente che, invece, poteva essere perseguito per l’appartenenza a un gruppo sociale e per la propria opinione politica.

3.1 Il terzo motivo è infondato.

Quanto alla censura di erronea valutazione del racconto del richiedente, valgono le motivazioni esposte con riferimento al secondo motivo; quanto, invece, alle ragioni dell’espatrio del richiedente che, anche se di natura privata, potrebbero giustificare l’accoglimento della domanda di protezione è sufficiente evidenziare, da un lato, che le stesse, con giudizio in fatto non sindacabile, sono state ritenute non veritiere e, dall’altro, che la Corte ha motivato anche sulla possibilità per il richiedente di ottenere tutela dalle autorità del proprio Paese di origine.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione ed errata interpretazione delle norme inerenti la concessione della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

La censura attiene alla sussistenza nella zona di provenienza del richiedente di una situazione rientrante nell’ipotesi prevista dall’art. 14, lett. c citato.

In particolare, alla data del deposito della sentenza era già stato pubblicato un nuovo report sulla zona di interesse con dati diversi da quelli riferiti dalla Corte d’Appello e decisamente peggiorativo con riferimento ai fenomeni di violenza indiscriminata e di conflitto armato interno (in particolare il report Easo del 6 novembre 2018). La motivazione, inoltre, sarebbe anche contraddittoria visto che da un lato si afferma la sussistenza di un clima di violenza comune e politica e dall’altro si afferma che non sussistono i presupposti di una violenza indiscriminata.

4.1 Il quarto motivo è infondato.

Questa Corte ha più volte statuito che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, deve essere interpretata, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), nel senso che il grado di violenza indiscriminata deve avere raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 13858 del 31/05/2018, Rv. 648790).

Nel caso di specie, il giudice di merito ha evidenziato l’insussistenza di una situazione di violenza indiscriminata, evidenziando che la situazione di incertezza politica non è tale da integrare quel livello talmente elevato di cui si è detto; tale accertamento costituisce apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità (sez 1 12/12/2018 n. 32064).

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

La censura attiene all’omesso esame della documentazione allegata in secondo grado relativa alla condizione di lavoro del richiedente che risulta dunque integrato nel tessuto sociale del paese.

5.1 Il quinto motivo è infondato.

La Corte d’Appello ha fatto riferimento alla instabilità della situazione lavorativa del richiedente e, dunque non vi è alcun omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in ogni caso deve ribadirsi che l’aver trovato lavoro nel paese ospitante non è condizione sufficiente per il riconoscimento della protezione umanitaria.

In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza – In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano presente in Italia da oltre tre anni il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine (Sez. 1, Sent. n. 4455 del 23/02/2018).

Nella specie la Corte d’Appello ha effettuato tale giudizio comparativo e con motivazione non sindacabile ha escluso la condizione di vulnerabilità del richiedente.

4. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2100 più spese prenotate a debito;

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 21 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2020

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