Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15314 del 24/06/2010

Cassazione civile sez. un., 24/06/2010, (ud. 15/06/2010, dep. 24/06/2010), n.15314

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAPA Enrico – Primo Presidente f.f. –

Dott. PREDEN Roberto – Presidente di sezione –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di sezione –

Dott. MERONE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. D’ALESSANRDO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

I.D. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA,

PIAZZA VESCOVIO 21, presso lo studio dell’avvocato MANFEROCE

TOMMASO, che lo rappresenta e difende, per delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

PROCURA GENRALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, MINISTERO

DELLA GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 42/2010 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 10/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

15/06/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO MERONE;

udito l’Avvocato Tommaso MANFEROCE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per l’accoglimento, p.q.r.,

con annullamento senza rinvio o con decisione nel merito.

 

Fatto

Il Dr. I.D., Avvocato Generale della Procura Generale della Corte di Cassazione, ricorre dinanzi a questa Corte per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura gli ha inflitto la sanzione disciplinare dell’ammonimento, avendolo ritenuto responsabile dell’illecito “di cui al R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. c), per avere, mancando al proprio dovere di correttezza, ingiustificatamente interferito nell’attività giudiziaria della Dott.ssa P.P.S., giudice del Tribunale di Vibo Valentia, assegnataria della causa civile fra C.O. (attore) e la PE.MA s.a.s. di M.G. (convenuta). In particolare il Dott. I., cugino (parente in quarto grado) di I.B., moglie del C., contattava l’ex magistrato Dott. C., all’epoca presidente della regione Calabria, affinchè intervenisse presso la Dott.ssa P., che era stata sua uditrice, al fine di una tempestiva e positiva definizione della causa; intervento realmente avvenuto, come è emerso da una intercettazione telefonica in data 13 ottobre 2004, effettuata su un’utenza telefonica nella disponibilità del dott. C.. La causa, che era iscritta a ruolo dal 1998, è stata decisa con sentenza del 20 gennaio 2005.” A sostegno dell’odierno ricorso, il Dr. I. denuncia violazioni di legge e vizi di motivazione, articolati in cinque motivi.

Il P.G. ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso, per quanto di ragione, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, o con decisione nel merito.

Diritto

Il ricorso non può trovare accoglimento.

1. Con il primo motivo di ricorso, viene denunciata la violazione dell’art. 270 c.p.p., sul rilievo che il giudice disciplinare avrebbe utilizzato illegittimamente i testi trascritti di conversazioni intercettate nell’ambito di un processo penale; in particolare, si tratta dei testi ricavati dalla intercettazione telefonica del (OMISSIS) (conversazione C.- P.) e dalla intercettazione ambientale del (OMISSIS) (conversazione P.- C.). Sostiene il ricorrente che il “limite esterno” di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, stabilito dall’art. 270 c.p.p., non riguarda soltanto i procedimenti penali diversi da quelli nei quali l’intercettazione stessa è stata disposta, bensì qualsiasi altro procedimento, anche (e specialmente) quelli nei quali il giudizio non possa comportare limitazioni a beni giuridici costituzionalmente tutelati, come la libertà personale.

In sintesi, la tesi che emerge dalle argomentazioni prospettate dal ricorrente, può essere schematizzata nella seguente progressione:

a) 1^ premessa: l’art. 15 Cost., garantisce la libertà e la segretezza delle comunicazioni;

b) 2^ premessa: la libertà e la segretezza delle comunicazioni possono essere limitate soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria;

c) 3^ premessa: gli artt. 266 e 267 c.p.p., prevedono i limiti di ammissibilità delle intercettazioni (consentite nell’ambito di procedimenti che hanno ad oggetto tipologie di reati ben determinate) e i presupposti che legittimano l’adozione del provvedimento (gravi indizi di reato ed assoluta indispensabilità del mezzo di indagine);

d) 4^ premessa: l’art. 270 c.p.p., esclude, in linea di principio, l’utilizzazione esterna dei risultati delle intercettazioni (vale a dire, al di fuori del procedimento in relazione al quale sono state disposte), salvo che tali risultati sino indispensabili “per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”;

e) conclusione: i risultati delle intercettazioni, pur se legittimamente disposte, sono utilizzabili soltanto all’interno dei procedimenti nei quali il provvedimento è stato adottato, con la sola eccezione prevista dall’art. 270 c.p.p., che non riguarda i procedimenti disciplinari.

Il ricorrente contesta il principio di diritto affermato dalla più recente giurisprudenza di questa Corte con la sentenza 27292/2009, citata dal giudice disciplinare, secondo il quale, invece, “i limiti all’utilizzazione in altro procedimento dei risultati delle intercettazioni telefoniche sono previsti dal codice di rito penale soltanto per i processi penali e non anche per altri processi, in particolare per quello disciplinare a carico di magistrati”. A sostegno della tesi della inutilizzabilità esterna extrapenale, il ricorrente deduce che le intercettazioni, costituendo una eccezione al principio di libertà e segretezza delle comunicazioni, garantito dalla Costituzione, sono legittime soltanto nei limiti in cui servono a tutelare altri valori costituzionali, come quello dell’interesse pubblico alla repressione dei reati, così come sancito dalla Corte Costituzionale (sentenze 63/1994, 366/1991). Ne deriva, secondo il ricorrente, che le norme del cod. proc. pen. in tema di intercettazione non possono essere interpretate se non nel senso che la utilizzazione dei risultati delle stesse è consentito soltanto nei limiti in cui sia funzionale alla tutela di altri valori costituzionali.

Il tema è stato già affrontato e risolto, in maniera diversa, da questa Corte con sentenza n. 12717/2009, richiamata dalla già citata sentenza n. 27292/2009 che ne ha poi condiviso le conclusioni. Secondo tale giurisprudenza, alla quale il Collegio intende dare continuità, “il citato art. 270, comma 1, riguarda specificamente il processo penale, deputato all’accertamento delle responsabilità appunto penali che pongono a rischio la libertà personale dell’imputato (o dell’indagato), cosa questa che giustifica l’adozione di limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale. In ragione di tanto, è solo con riferimento ai procedimenti penali che una ipotetica, piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nell’ambito di procedimenti penali diversi da quello per cui le stesse intercettazioni erano state validamente autorizzate contrasterebbe con le garanzie poste dall’art. 15 Cost., a tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni./ In relazione poi al profilo della utilizzabilità in concreto, è stato precisato che presupposto per l’utilizzo esterno delle intercettazioni è la legittimità delle stesse nell’ambito del procedimento in cui sono state disposte” (pp. 4 e 5 della motivazione della sentenza 27292/2009), legittimità che nella specie non risulta contestata.

In definitiva, la disposizione limitativa di cui all’art. 270 c.p.p., non trova applicazione rispetto ai procedimenti disciplinari, purchè l’intercettazione sia stata legittimamente disposta, attesa la specialità di tali procedimenti e l’ampiezza dei poteri istruttori riconosciuti al P.G. (v. D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 16, comma 2 e 4) e alla stessa Sezione Disciplinare (la quale, ai sensi dell’art. 18, comma 3, lett. a) può assumere “tutte le prove che ritiene utili”). Sul punto si rinvia alla puntuale e condivisa analisi di cui al par. 7 della motivazione della sentenza di queste SS.UU. 12717/2009: “L’ampio potere di indagine del pubblico ministero, prima, e il non meno ampio potere officioso della Sezione disciplinare nell’acquisire la prova dell’illecito disciplinare, poi, connotano di specialità il procedimento disciplinare di magistrati evidenziando come esso sia marcatamente orientato all’accertamento dell’effettiva sussistenza dell’addebito disciplinare. Quindi con tale specifica peculiarità – che viene in rilievo in ragione della clausola di compatibilità prevista nel richiamo della disciplina del processo penale – va coniugato il prescritto rispetto delle regole del codice di procedura penale; il quale, quanto al profilo specifico in esame (i.e. utilizzo esterno delle intercettazioni), si focalizza essenzialmente nell’art. 270 c.p.p.. Disposizione questa che, al comma 1, prevede che i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in “procedimenti” diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. Naturalmente deve trattarsi di intercettazioni legittime, tali perchè disposte con “atto motivato dell’autorità giudiziaria” e “con le garanzie stabilite dalla legge” (art. 15 Cost., comma 2), ossia eseguite nel rispetto del codice di rito e segnatamente delle prescrizioni di cui all’art. 266 e segg. c.p.p., che assicurano anche il rispetto del citato parametro costituzionale a tutela dell’inviolabilità delle comunicazioni. Diversa è invece l’ipotesi delle intercettazioni illegali per le quali opera il divieto di utilizzazione posto dall’art. 271 c.p.p., comma 1, e delle quali è prescritta dalla stessa disposizione (al comma 3) la distruzione, al pari della distruzione delle intercettazioni illegali prevista dall’art. 240 c.p.p., come riformulato dal recente intervento normativo in tema di intercettazioni telefoniche (D.L. 22 settembre 2006, n. 259, conv. in L. 20 novembre 2006, n. 281), peraltro censurato di incostituzionalità sotto un profilo che qui non rileva” (pp. 10/11).

Questa conclusione, a parte gli argomenti emersi dai precedenti arresti (legittimità della acquisizione che consente l’utilizzazione esterna, salvo il limite endopenale di cui all’art. 270 c.p.p.), è in perfetta linea anche con gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale secondo i quali la violazione della segretezza delle conversazioni deve essere giustificata dalla esigenza di tutelare un valore costituzionale di pari rango. Il procedimento disciplinare, in quanto tende a garantire il corretto funzionamento della giustizia, è funzionale alla tutela dei valori espressi dal titolo 4^ della parte 2^ della Costituzione, specialmente quando, come nella specie, l’incolpazione abbia ad oggetto un episodio di interferenza nella attività giudiziaria, che mette in crisi il principio di indipendenza e imparzialità del giudice (art. 101 Cost., comma 2, e art. 111 Cost., comma 2) e di parità delle parti (art. 111 Cost., comma 2). Conseguentemente, va rigettata l’eccezione di incostituzionalità sollevata dal ricorrente, perchè manifestamente infondata.

In putito di diritto, dunque, va confermato il principio della utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche nel procedimento disciplinare a carico di magistrati, purchè si tratti di intercettazioni legittimamente disposte, nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali. Tale principio viene ribadito dal Collegio, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, in considerazione della particolare delicatezza della questione, in quanto, in punto di fatto, il giudizio di responsabilità del Dr. I. prescinde dal contenuto della telefonata del 13 ottobre 2004 ( C.- P.), di cui è cenno nel capo di incolpazione (la telefonata del 28 gennaio 205, P.- C., alla quale si fa cenno nell’odierno ricorso, non risulta nemmeno menzionata nella motivazione della sentenza del giudice disciplinare). Lo stesso Dr. I., infatti, interrogato dal Procuratore Generale in qualità di incolpato, con atteggiamento leale e collaborativo, ha ammesso di aver richiesto l’intervento del Dr. C. presso la Dr.ssa P., come si legge nella motivazione della sentenza impugnata, “affinchè venisse definita la causa C./PEMA., causa che pendeva da molto tempo, in quanto già una volta dopo essere stata trattenuta in decisione, era stata rimessa sul ruolo”.

Pertanto, nella specie, la prova della interferenza, realizzata per il tramite dell’ex collega Dr. C., prescinde dal contenuto delle telefonate intercettate (non rileva, come si vedrà, ai fini della prova che l’intervento sia stato effettuato tenendo conto della particolare posizione dell’incolpato, la circostanza che il Dr. C. nel trasmettere la richiesta alla Dr.ssa P. abbia enfatizzato la qualifica del richiedente), i cui esili, tenuto conto della successiva ammissione, affievoliscono a mera notitia criminis. Entro tali limiti anche la giurisprudenza più risalente non ha mai dubitato che i risultati delle intercettazioni possano essere legittimamente oggetto di utilizzazione: “il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altro procedimento, di cui all’art. 270 cod. proc. pen., deve essere inteso nel senso che siffatti elementi non possono valere come fonti di prova in un diverso processo, mentre non ne è preclusa l’utilizzabilità quale semplice notizia di reato” (Cass. 1790/1996).

2. Con il secondo motivo, denunciando la mancanza di motivazione su un punto decisivo, il ricorrente rileva che il giudice disciplinare afferma apoditticamente che l’interferenza ascrivibile al Dott. I. nell’attività giudiziaria della Dott.ssa P. era rivolta ad ottenere non soltanto una più sollecita definizione della causa, ma anche una decisione in favore dell’attore” (p. 8). Sostanzialmente, il ricorrente assume che tutti gli elementi acquisiti avallavano la tesi che il suo intervento sulla Dr.ssa P., per il tramite dell’ex collega Dr. C., era finalizzato soltanto ad ottenere una decisione in tempi rapidi.

La censura è inammissibile perchè il suo eventuale accoglimento non comporterebbe la cassazione della sentenza impugnata, che fa leva anche, e principalmente, su altra ratio decidendi, sufficiente da sola a sorreggere la decisione. Tale ratio, infatti, come si vedrà, resiste alle censure di violazione di legge, denunciate con il terzo motivo. La Sezione Disciplinare, sostanzialmente, nel formulare il giudizio di responsabilità prescinde dalla condizione che l’interferenza debba essere diretta ad ottenere una decisione favorevole, ritenendo che integri l’ipotesi della interferenza ingiustificata “anche quella diretta ad ottenere una più sollecita definizione di un procedimento, risolvendosi anche essa in un indebito favoritismo nei confronti della parte che è venuta a beneficiare della sollecitazione” (p. 8). Conclude, quindi, che la circostanza di fatto che l’interferenza fosse mirata ad ottenere una decisione favorevole, “contestata dalla difesa dell’incolpato, appare irrilevante ai fini dell’integrazione dell’illecito disciplinare” (ivi). Ne deriva la irrilevanza (rectius, inammissibilità) anche del motivo di ricorso che censura una carenza motivazionale ininfluente sulla decisione.

3. Con il terzo motivo viene denunciata la violazione del R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18 e D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. e) in quanto, a parere del ricorrente, la semplice sollecitazione ad adottare una decisione non costituirebbe una ingiustificata interferenza, sanzionabile ai sensi delle citate disposizioni. La censura non è condivisibile.

Il giudice disciplinare, formulando un giudizio di valore condiviso dal Collegio, ha evidenziato che “l’interferenza posta in essere da un magistrato nell’attività di altro magistrato, quando non rappresenta l’esercizio di una attività giurisdizionale esercitata nel rispetto delle regole processuali e deontologiche, è sempre ingiustificata, in quanto, come già detto, attenta ai valori di correttezza nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali” (p. 8). Le sollecitazioni intese ad ottenere soluzioni rapide in relazione a specifiche controversie, al di fuori dei canali procedurali, attentano ai criteri di trasparenza nella gestione della funzione giurisdizionale. Il rilievo vale specialmente quando, come nella specie, per rendere più incisiva la “pressione”, ci si avvalga della intermediazione di persone notoriamente influenti sul giudice destinatario del messaggio. La intermediazione non elide l'”influenza” geneticamente collegata al rapporto di colleganza o, peggio, come nella specie, al rapporto di potenziale soggezione disciplinare, ma amplifica gli effetti di compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario e aggiunge alla interferenza un “plusvalore” (rectius: disvalore) esterno al rapporto di colleganza. E’ pacifico che il Dr. I. si è rivolto al Dr. C., anche lui ex magistrato, in nome del rapporto di amicizia che lo legava a quest’ultimo, in quanto sapeva della particolare influenza che aveva sulla Dr.ssa P.. Influenza che avrebbe rafforzato il messaggio, senza per questo far venire meno la vis propria della interferenza in attività giudiziaria da parte di un collega. Peraltro, per quanto si dirà in relazione alla struttura dell’illecito, che non richiede una esplicita manifestazione della funzione del soggetto attivo, non rileva che il destinatario sapesse della qualifica del soggetto “mandante”. L’illecito disciplinare si consuma con la realizzazione dell’interferenza commessa dal magistrato, il quale viola i propri doveri e realizza la ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato, anche se non si qualifica.

Inoltre, come ha rilevato il giudice a qua, premesso che la fattispecie in esame deve essere valutata ai sensi del R.D. n. 511 del 1946, art. 18 (p. 6 della sentenza impugnata) – non apparendo fondata, come si vedrà, la tesi della errata qualificazione -, “i fatti accertati nel presente giudizio costituiscono senz’altro violazione del generico dovere di correttezza che rendeva, ai sensi della citata disposizione, il magistrato immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere e come tale meritevole di sanzione disciplinare” (p. 8 della sentenza impugnata).

4. Con il quarto motivo, denunciando la violazione del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. e), e art. 32 bis, unitamente al difetto di motivazione, il ricorrente assume che, in ipotesi, il fatto addebitatogli sarebbe sussumibile nella fattispecie di illecito proprio previsto dal citato art. 2, comma 1, lett. e), che richiede che il fatto sia stato commesso nell’esercizio delle funzioni, con la conseguenza che, non ricorrendo tale presupposto, il suo comportamento sarebbe fuori dalla previsione legislativa e, quindi, non più perseguibile, vigente la nuova normativa più favorevole rispetto alla precedente che prescindeva da tale presupposto soggettivo. In altri termini, il ricorrente sostiene che l’interferenza in attività giudiziaria, dopo la riforma, non è configurabile se non è stata realizzata esplicitamente nell’esercizio delle funzioni e che, mancando nella specie tale presupposto, il fatto non sarebbe più punibile disciplinarmente.

Come ha correttamente puntualizzato la Sezione Disciplinare nella sentenza impugnata, in materia di illeciti amministrativi non vige il principio del favor rei sancito dall’art. 2 c.p., in forza del quale, in deroga al principio tempus regit actum, l’eventuale abolitio criminis opera retroattivamente (la L. n. 689 del 1981, art. 1, omologo dell’art. 1 c.p., stabilisce soltanto il principio di legalità, in forza del quale “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione” e non è seguito da una disposizione omologa dell’art. 2 c.p.). Pertanto, ammesso per ipotesi che la nuova area di rilevanza disciplinare dell’interferenza in attività giudiziaria sia più ristretta di quella individuata dalla giurisprudenza sulla base del R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18, di tale restrizione non potrebbe comunque avvalersi il ricorrente. Infatti, nemmeno il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis, comma 2, ne dettare le disposizioni transitorie, autorizza una simile conclusione, in quanto non prevede un sistema di regole completo in tema di successione delle leggi punitive omologo all’art. 2 c.p., che sia valido sia per la riforma delle fattispecie di illecito, sia per le modifiche del solo trattamento sanzionatorie. Tale disposizione si limita a stabilire soltanto che per i fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore dello stesso d.lgs. si continuano ad applicare le precedenti disposizioni, tra cui l’art. 18. “se più favorevoli”. Il giudice disciplinare, rilevato che la normativa vigente prevede per l’illecito in questione la sanzione disciplinare non inferiore alla censura, mentre la vecchia disciplina non prevedeva alcuno sbarramento al ribasso, ha correttamente ritenuto che il comportamento del Dr. I. debba essere valutato ai sensi del R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18, che prescinde dalla distinzione tra illeciti commessi o meno nell’esercizio delle funzioni.

Peraltro, ritiene il Collegio che nella nuova disciplina la distinzione tra illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni ed illeciti commessi fuori dell’esercizio delle funzioni, abbia un mero valore classificatorio, inteso a caratterizzarne il disvalore, in relazione al tipo di dovere violato. L’esercizio delle funzioni non costituisce un presupposto ulteriore della fattispecie, caratterizzata dalla violazione di doveri cui il magistrato è tenuto in ragione delle funzioni che esercita. Infatti, la formulazione letterale della norma non lascia dubbi sul fatto che l’esercizio delle funzioni sia in re ipsa quando il magistrato si renda responsabile di uno dei fatti descritti nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2. L’elencazione delle fattispecie di illecito è preceduto dalla seguente formula: “Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni”. Vale a dire, la realizzazione dei fatti materiali elencati nel citato art. 2, che analiticamente esaminati derivano dalla violazione dei doveri che il magistrato deve rispettare nell’esercizio delle funzioni, indicati in via generale nel medesimo D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 (imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio, rispetto della dignità della persona), implica di per sè la violazione dei doveri connessi all’esercizio delle funzioni e, quindi, non richiede l’accertamento di un quid pluris. Non si tratta di nuove fattispecie che richiedono l’accertamento di un presupposto di fatto aggiuntivo, costituito dall’esercizio delle funzioni, perchè i fatti descritti implicano di per sè la violazione di doveri connessi alla funzione. Quindi, sotto questo profilo, l’area della illiceità disciplinare non risulta ristretta rispetto al sistema previgente.

E’ sufficiente che i fatti in questione siano commessi da un magistrato perchè si debba applicare il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 2 citato, in quanto la realizzazione del fatto implica di per sè la violazione di un dovere del magistrato.

Quanto alla censura relativa al vizio di motivazione, la stessa appare carente di autosufficienza e tale lacuna non può essere colmata ex officio, posto che “In materia di procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, l’individuazione della disciplina più favorevole da applicare al caso concreto, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis, non può essere effettuata “ex officio” dal giudice di legittimità, dovendo la relativa questione costituire oggetto di specifica impugnazione da parte del ricorrente, con la argomentata prospettazione delle ragioni per le quali la norma invocata rappresenti per l’incolpato quella effettivamente più favorevole” (Cass. SS.UU. 16559/2009).

5. Con il quinto ed ultimo motivo, il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis, anche sotto il profilo del vizio di motivazione, in quanto il giudice di merito, nell’escludere l’esimente della scarsa rilevanza del fatto, avrebbe dato peso a fatti successivi alla telefonata con il Dr. C., come tali non imputabili al Dr. I.. L’eccezione appare infondata, in quanto l’esimente di cui all’art. 3 bis, in forza della quale l’illecito non è configurabile quando il fatto sia di scarsa rilevanza, presuppone che la fattispecie tipica sia stata realizzata ma che per particolari circostanze, anche non riferibili all’incolpato, il fatto risulti di scarsa rilevanza. Vale a dire, l’ingiustificata interferenza è sempre punibile, a meno che l’incolpato non eccepisca e provi (o comunque risulti) che il fatto sia di “scarsa rilevanza”. Ne deriva che legittimamente il fatto che non risulti di scarsa rilevanza va sanzionato disciplinarmente. Gli eventi in base ai quali il fatto non è stato ritenuto di scarsa rilevanza non sono elementi costitutivi dell’illecito, indebitamente a lui attribuiti, come invece ipotizza il ricorrente. Nella specie, la dimensione della compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario, dovuta anche alla diffusione mediatica avuta dalla vicenda, come rileva il giudice disciplinare, esclude oggettivamente la sussistenza dell’esimente. Tale ragionamento non può essere censurato sul rilievo, formulato dal ricorrente, che verrebbe assunto a parametro di rilevanza il posi factum non imputabile all’incolpato. Gli sviluppi successivi della vicenda, peraltro non imprevedibili, non gravano ingiustificatamente sull’incolpato, il quale comunque ha realizzato la fattispecie incriminata della ingiustificata interferenza. Non si può dolere del fatto che non siano emerse circostanze in base alle quali si sarebbe potuta applicare l’esimente.

Nella specie, in definitiva, il giudice disciplinare ha motivatamente escluso la possibilità di applicare il ripetuto art. 3 bis, anche per la influente posizione istituzionale ricoperta dall’incolpato, magistrato titolare della potestà disciplinare nei confronti degli altri magistrati. Nè il ricorrente indica specifiche circostanze in base alle quali i giudici di merito avrebbero dovuto applicare l’esimente invocata.

7. Conseguentemente il ricorso va rigettato. Nulla per le spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2010

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