Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15313 del 24/06/2010

Cassazione civile sez. II, 24/06/2010, (ud. 10/06/2010, dep. 24/06/2010), n.15313

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

B.S., rappresentato e difeso, in forza di procura

speciale a margine del ricorso, dall’Avv. Tomasello Giuseppe,

elettivamente domiciliato in Roma, via Boezio, n. 92, presso lo

studio dell’Avv. Pietrangelo Jaricci;

– ricorrente –

contro

B.M., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale

a margine del controricorso, dall’Avv. Lombardo Salvatore,

elettivamente domiciliata in Roma, via Val Cristallina, n. 3, presso

lo studio dell’Avv. Amilcare Sesti;

– controricorrente –

per la revocazione della sentenza della Corte di Cassazione, sezione

2^ civile, 22 maggio 2008, n. 13225.

Udita, la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10 giugno 2010 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Che il consigliere designato ha depositato, in data 8 gennaio 2010, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ.:

” B.S., con atto notificato il 29 settembre 1988, convenne B.M. davanti al Tribunale di Siracusa e, esponendo che con preliminare del 25 settembre 1985 aveva promesso di vendere alla B. un appartamento ed un box facenti parte di un edificio da costruire in (OMISSIS) al prezzo di L. 55.000.000 e che, non avendo la promissaria adempiuto le obbligazioni assunte ed essendosi pretestuosamente sottratta alla stipula del definitivo, nonostante la consegna degli immobili, egli si era avvalso della clausola risolutiva espressa prevista nel contratto, domandò la declaratoria della risoluzione del preliminare per inadempimento e la condanna della convenuta al rilascio degli immobili, al pagamento di lavori e materiali extra-capitolato ed al risarcimento dei danni.

La B., costituitasi in giudizio, chiese il rigetto delle domande dell’attore, deducendo che aveva sospeso il pagamento del prezzo e non aveva sottoscritto l’atto di compravendita perchè il B. non aveva ottenuto il certificato di abitabilità dell’immobile, nè aveva provveduto a far frazionare il mutuo e ridurre l’ipoteca, ed aveva realizzato delle opere abusive, e, in via riconvenzionale, domandò l’esecuzione in forma specifica del preliminare con condanna dell’attore alla consegna del certificato di abitabilità, al frazionamento del mutuo ed alla riduzione dell’ipoteca, ovvero, in subordine, la riduzione del prezzo di vendita, nonchè la condanna del B. al risarcimento del danno. Il Tribunale, con sentenza del 25 ottobre 1995, rigettò le domande del B. e, in accoglimento della domanda riconvenzionale della convenuta, trasferì alla B. la proprietà delle unità immobiliari oggetto del preliminare.

La decisione, gravata dal B. e, in via riconvenzionale, dalla B., venne parzialmente riformata dalla Corte di appello di Catania, che con sentenza del 28 dicembre 1998 confermò il rigetto delle domande dell’attore di risoluzione del preliminare e di rilascio degli immobili e con successiva sentenza del 17 giugno 2003:

(a) ridusse a L. 38.500.000, pari ad Euro 19.883,59, il prezzo di vendita dell’appartamento e del box in ragione della mancanza del certificato di abitabilità; (b) condannò la B. al pagamento in favore del B. della somma di Euro 2.095,99, oltre interessi dalla domanda, per i lavori eseguiti extracapitolato ed altre causali; (c) condannò il B. alla rifusione in favore della B. della somma complessiva di Euro 33.346,02, oltre rivalutazione ed interessi legali, per risarcimento del danno; (d) confermò nel resto la pronuncia di primo grado.

Osservò il giudice di secondo grado che legittimamente la B. aveva sospeso il pagamento del residuo prezzo e si era rifiutata di stipulare il contratto definitivo a causa della mancanza del certificato di abitabilità e che, avendo successivamente domandato l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo del promittente di trasferire la proprietà dei beni pur in assenza di detto certificato, doveva esserle trasferita la proprietà dell’appartamento e del box, previa riduzione del corrispettivo pattuito.

Decidendo sul ricorso per cassazione proposto dal B., la Corte, con sentenza in data 22 maggio 2008, n. 13225, ha accolto il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo e dichiarato inammissibile il terzo, cassando la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinviando la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Catania per una nuova deliberazione. Per quanto qui rileva, la Corte di cassazione, ha rigettato il primo motivo di ricorso, con il quale il B. lamentava la nullità della sentenza n. 994/98 per violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1183, 1366, 1453, 1456, 1460 e 1477 c.c. e artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, e art. 361 c.p.c., avendo escluso la risoluzione del preliminare in ragione della clausola risolutiva espressa ed individuato l’inadempimento del promittente venditore al contratto nella sua adesione all’invito della promissaria a comparire il 23 luglio 1987 davanti al notaio per la sottoscrizione della compravendita pur non essendo in possesso del certificato di abitabilità, nonostante che nessuna data fosse stabilita nel preliminare per la redazione del rogito, la promissaria avesse alternativamente condizionato la propria disponibilità alla stipula del definitivo alla consegna del certificato di abitabilità o di quello di fine dei lavori e nel giorno fissato egli non potesse essere ancora in possesso del certificato di abitabilità, avendo ultimato i lavori nel giugno 1987.

La Corte di cassazione ha premesso che il giudice di secondo grado, rimarcato che l’attore aveva riconosciuto la regolarità dei pagamenti ricevuti sino a quando il notaio si era rifiutato rogare il contratto definitivo per il mancato deposito del certificato di abitabilità, aveva affermato che era stato legittimo il rifiuto della convenuta di corrispondere ulteriormente il prezzo degli immobili, avendo il promittente inteso addivenire alla sottoscrizione della compravendita senza adempiere alla sua prestazione di consegnare il certificato di abitabilità, che costituiva un requisito essenziale degli immobili ed al quale la promissaria non aveva all’epoca rinunciato .

Tanto premesso, la Corte ha ritenuto che tale affermazione – che quanto alla natura del certificato di abitabilità di requisito giuridico rilevante sull’attitudine di un immobile ad assolvere alla sua funzione economico-sociale ed all’obbligo del venditore, in assenza contrarie pattuizioni, di dotare il bene di detto certificato, nonchè all’adducibilità del suo mancato rilascio in via di eccezione da parte del promissario, ai sensi dell’art. 1460 c.c. ha fatto corretta applicazione della costante giurisprudenza di legittimità – si sottrae alle censure rivolte anche relativamente agli argomenti che la sorreggono.

Ha poi aggiunto che attiene ad un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità “l’accertamento della volontà dell’attore di chiedere l’adempimento dell’obbligazione della promissaria senza l’adempimento o l’offerta di adempimento contemporaneo della propria e del momento nel quale tale richiesta si era concretizzata ed aveva legittimato il rifiuto di adempimento della convenuta e nessuna inadeguatezza od illogicità della motivazione della pronuncia è ravvisabile nella parte in cui ha escluso che potesse giustificare l’inadempimento l’alternativa richiesta della promissaria di consegna del solo certificato di fine dei lavori e l’ultimazione di questi nel giugno 1987, posto che ha evidenziato, da un lato, l’evidenza dell’intento del promittente di addivenire al definitivo in mancanza di esso, pur non avendovi rinunciato la convenuta, e, dall’altro, l’impossibilità del suo ottenimento per l’inesistenza delle condizioni necessarie al rilascio”.

Per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione il B. ha proposto ricorso, con atto notificato il 7 luglio 2009, sulla base di un motivo. Ha resistito, con controricorso, l’intimata. Con l’unico mezzo, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sia fondata sulla supposizione (derivante dalla ignoranza di atti e documenti di causa) di un fatto (cioè, la sussistenza dell’obbligo in capo al B. a fronte della convocazione presso il notaio da parte della B.) la cui verità sarebbe incontrastabilmente esclusa.

Il motivo è inammissibile.

Per costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Cass., Sez. 1^, 20 aprile 2005, n. 8295), con riferimento alle sentenze emesse dalla cassazione, l’errore di fatto idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395 cod. proc. civ., n. 4, deve:

1) consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente e immediatamente rilevabile e tale da aver indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile; 2) essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa; 3) non cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata; 4) presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, si da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche; 5) non consistere in un vizio di assunzione del fatto nè in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo; 6) riguardare gli atti interni, cioè quelli che la Corte esamina direttamente, con propria autonoma indagine di fatto, nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d’ufficio, e avere quindi carattere autonomo, nel senso di incidere direttamente ed esclusivamente sulla sentenza della S.C., perchè, se invece l’errore è stato causa determinante della decisione di merito, in relazione ad atti o documenti che ai fini della stessa sono stati o avrebbero dovuto essere esaminati, il vizio che inficia la sentenza da adito agli specifici mezzi di impugnazione esperibili contro le sentenze di merito. Nella specie non è configurabile l’errore revocatorio, per una pluralità di ragioni.

La sussistenza o meno in capo al B. di un obbligo a fronte della convocazione presso il notaio da parte della B. costituiva un punto controverso, tant’è che lo stesso B. aveva denunciato con il primo motivo del ricorso per cassazione che nel preliminare di vendita non era previsto alcun termine entro il quale si sarebbe dovuto stipulare l’atto di vendita e che la Corte d’appello non avrebbe potuto attribuire rilevanza decisiva alla data fissata dalla B..

In secondo luogo, il supposto errore è privo del carattere dell’autonomia, perchè riguarderebbe, in primo luogo, (prima che la decisione della Corte di Cassazione) la sentenza della Corte d’appello.

Infine, l’accampato errore risulterebbe dal mancato esame di atti (il preliminare di vendita del 25 settembre 1985 e la raccomandata a.r.

del 13 luglio 1987) che la Corte di cassazione non poteva esaminare direttamente con propria indagine di fatto.

Sussistono le condizioni per la trattazione del ricorso in Camera di consiglio”.

Lette le memorie depositate dalle parti in prossimità della Camera di consiglio.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra;

che le obiezioni mosse dal ricorrente con la memoria illustrativa convincono ulteriormente il Collegio della non configurabilità dell’errore revocatorio;

che, difatti, il ricorrente per un verso sostiene che “nella specie il denunciato errore revocatorio è riscontrabile dall’esame di immediata e diretta percezione del preliminare di vendita”, ma non considera che alla Corte di Cassazione era precluso l’accesso diretto agli atti di causa e quindi l’esame, con propria indagine di fatto, delle risultanze processuali valutate dal giudice del merito;

che, d’altra parte, il ricorrente ritiene che, con la impugnate sentenza, la Corte abbia fatto erroneo riferimento a precedenti decisioni che non sarebbero pertinenti al caso di specie ed abbia applicato l’art. 1460 cod. civ., al di fuori dei casi previsti: ma ciò dimostra che, in realtà, si è voluto censurare un vizio in iudicando, il che fuoriesce dall’ambito del giudizio di revocazione ai sensi dell’art. 391 bis cod. proc. civ.;

che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

che le spese del giudizio di Cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, liquidate in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2010

 

 

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