Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15294 del 03/06/2021

Cassazione civile sez. VI, 03/06/2021, (ud. 11/03/2021, dep. 03/06/2021), n.15294

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Francesco – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35577-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

G.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3499/27/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE della CAMPANIA, depositata il 16/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’11/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MICHELE

CATALDI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1.L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza n. 3499/27/2019, depositata il 16 aprile 2019, con la quale la Commissione tributaria regionale della Campania ha accolto l’appello di G.G. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli, che aveva rigettato il ricorso del medesimo contribuente contro l’avviso d’accertamento emesso nei suoi confronti, per l’anno d’imposta 2011, in materia di Irpef, Irap ed Iva, sulla base della ritenuta inesistenza oggettiva di operazioni relative a fatture emesse dalla ditta Gammella Pacifico, fornitrice della ditta dello stesso G.G..

Il contribuente è rimasto intimato.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.Con il primo motivo l’Ufficio deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per la natura meramente apparente della sua motivazione.

2.Con il secondo motivo l’Ufficio deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, e art. 54 e degli artt. 2697,2727,2728 e 2729 c.c., assumendo che la CTR avrebbe errato nel ritenere che, in materia di operazioni oggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria sia onerata di dare la prova non solo (anche in via indiziaria) della materiale inesistenza oggettiva della prestazione; ma anche della malafede del contribuente.

3.1 due motivi vanno trattati congiuntamente per la loro connessione e sono fondati.

Infatti “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; conforme, ex multis, Cass., sez. 3 -, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017).

In particolare, “La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione deve ritenersi apparente quando pur se graficamente esistente ed, eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6″ (Cass., Sez. 1 -, Ordinanza n. 13248 del 30/06/2020).

Pertanto, “In tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, nè alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito.” (Cass., Sez. L -, Ordinanza n. 3819 del 14/02/2020).

Nel caso di specie, va premesso che, come risulta dall’avviso d’accertamento trascritto in parte nel ricorso, l’Amministrazione assumeva che le operazioni di cui alle predette fatture, utilizzate dal contribuente, fossero oggettivamente inesistenti, in quanto le transazioni commerciali non sarebbero “o avvenute materialmente, ma solo cartolarmente”.

La sentenza impugnata, nella sintetica parte motiva, prescinde del tutto dalla qualificazione dell’inesistenza delle operazioni come oggettiva, piuttosto che soggettiva, così da non rendere comprensibile se la decisione resa derivi dalla consapevolezza delle conseguenze diverse che, in termini di disciplina e con specifico riferimento anche all’oggetto dell’onere della prova distribuito tra le parti, possono derivare da tale qualificazione. Infatti, va premesso che, secondo consolidato orientamento di questa Corte (recentemente ribadito anche da Cass., Sez. 5-, 16/06/2020, n. 11624, dalla cui motivazione sono tratte le argomentazioni che seguono) “ai fini della identificazione del soggetto onerato della prova, nella ipotesi di contestazione formulata dall’Ufficio in ordine alla inesistenza, o parziale inesistenza, delle operazioni commerciali fatturate, la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato in tema di iva (ma i principi valgono per tutte le imposte accertabili mediante la contestazione della veridicità delle fatturazioni) che qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibile, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili” (Cass., sent. n. 19352 del 2018; n. 29002 del 2017; n. 428 del 2015; n. 17977 del 2013).

In particolare, questa Corte, nelle ipotesi, come quella di specie, di operazioni oggettivamente inesistenti, ha affermato che “ove la fattura costituisce in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, l’amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva (Cass. nn. 21953/07, 9784/10, 9108/12, 15741/12, 23560/12; 27718/13, 20059/2014, 26486/14, 9363/15; nello stesso senso C. Giust. 6 luglio 2006, C-439/04; 21 febbraio 2006, C255/02; 21 giugno 2012, C-80/11; 6 dicembre 2012, C285/11; 31 novembre 2013, C-642/11), del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata, dopo di che spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate; tale prova, tuttavia, non può consistere nella esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poichè questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. nn. 28572 del 2017; 5406 del 2016, 28683 del 2015, 428 del 2015, 12802 del 2011, 15228 del 2001); e comunque, una volta accertata l’assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente (rilevante invece nella diversa ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti), il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo o corrispettivo” (Cass. n. 18118 del 2016, in motivazione; Cass. n. 16473 del 2018).

Quanto alla prova di cui è onerata l’Amministrazione, che può dunque avere anche solo natura indiziaria, la Corte ha affermato che ai fini dell’accertamento tributario relativo sia all’imposizione diretta che all’IVA, la legge – rispettivamente D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, (richiamato dal successivo art. 40 per quanto riguarda la rettifica delle dichiarazioni di soggetti diversi dalle persone fisiche) ed D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 – dispone che l’inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, senza necessità che l’Ufficio fornisca prove “certe”. Pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma esclusivamente per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, ove ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli artt. 2727 e ss. c.c. e art. 2697 c.c., comma 2, (Cass., ord. n. 14237 del 2017).

Pertanto, secondo questa Corte, “In tema d’IVA, l’Amministrazione finanziaria, che contesti al contribuente l’indebita detrazione relativa mente ad operazioni oggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo.” (Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18118 del 14/09/2016, cit.; conforme, in motivazione, Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 16473 del 2018, cit.).

Tanto premesso, l’argomentazione della CTR – secondo la quale l’Amministrazione non avrebbe assolto l’onere di provare la conoscenza o conoscibilità, da parte del contribuente, “dei fatti incriminati o di un suo ipotetico concorso col fornitore”, mentre “risultano fatture regolarmente contabilizzate e pagate” – appare, in difetto del previo inquadramento dell’inesistenza oggettiva (come dedotto dall’Agenzia nell’accertamento) o meramente soggettiva delle operazioni, inidonea a dare conto dell’iter logico-giuridico che abbia condotto a tale conclusione.

Nè, ad evitare la mera apparenza della motivazione, contribuisce la citazione, nella motivazione, del precedente della Corte di Giustizia, sentenza 13 febbraio 2014, C-18/13, Maks Pen FOOD, che riguarda non qualsiasi fattispecie di inesistenza delle operazioni, ma solo quella nella quale “risulti che il servizio è stato sì fornito, ma non da tale prestatore o dal suo subappaltatore”, cioè operazioni almeno oggettivamente esistenti. Pertanto, a prescindere da ogni sua possibile rilevanza sul merito della decisione, per quanto qui interessa la citazione giurisprudenziale Eurounitaria non vale a dare conto se il giudice a quo abbia, a monte, valutato che l’Amministrazione allegava nell’accertamento l’inesistenza oggettiva delle operazioni; condiviso, o meno, e per quali ragioni, tale inquadramento; individuato ed applicato, consapevolmente, la disciplina, in particolare in ordine all’onere della prova, conseguente all’uno piuttosto che all’altro inquadramento.

Giova, infine, ricordare che, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, il giudice non può, nella motivazione, limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, perchè questo è il solo contenuto “statico” della complessa dichiarazione motivazionale, ma deve impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla sua situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto “dinamico” della dichiarazione stessa (cfr. Cass., Sez. 5, Sentenza n. 1236 del 23/01/2006; Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 15964 del 29/07/2016; Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 32980 del 20/12/2018).

Nel caso di specie, per le argomentazioni già illustrate, tale descrizione del processo cognitivo ed argomentativo difetta integralmente.

Va pertanto cassata la sentenza impugnata, con rinvio al giudice a quo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2021

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