Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1529 del 22/01/2018


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 1529 Anno 2018
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: VARRONE LUCA

SENTENZA
sul ricorso 28574-2015 proposto da:
SARDANO DOMENICO, (CF. SRDDNC70P23D969L), TRAVERSO
ANDREA (CF. TRVNDR46S05D969N), SCOTTON MASSIMO (CF.
SCTMSM56S26D969H), elettivamente domiciliati in ROMA,
C.SO VITTORIO EMANUELE II 284, presso lo studio
dell’avvocato GIUSEPPE MASSIMILIANO DANUSSO, che li
rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO
VITTORIO GRECO;

– ricorrenti contro

BANCA D’ITALIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
NAZIONALE 91, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA RITA
MARIA R. CECI, che lo rappresenta e difende unitamente
all’avvocato GIUSEPPE GIOVANNI NAPOLETANO;

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Data pubblicazione: 22/01/2018

- controricorrenti –

avverso il decreto n. 3952/2015 della CORTE D’APPELLO di
ROMA, depositata il 07/05/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
07/11/2017 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE;

Dott. SERGIO DEL CORE che ha concluso per il rigetto del
ricorso;
uditi gli Avvocati GIUSEPPE MASSIMILIANO DANUSSO e
MASSIMO VITTORIO GRECO per i ricorrenti e STEFANIA RITA
MARIA R. CECI per la Banca d’Italia;
FATTI DI CAUSA
1. Andrea Traverso, Massimo Scotton e Domenico
Sardano proponevano dinanzi la Corte d’appello di Roma,
opposizione, ai sensi dell’art. 145 TUB, avverso la delibera
della Banca d’Italia numero 388 del 2014 con la quale veniva
accertata la violazione dell’articolo 144, secondo comma, TUB e
veniva comminata la sanzione amministrativa pecuniaria di
euro 129.110 al dottor Andrea Traverso, di euro 69.000 al
dottor Massimo Scotton e di euro 52.000 al dottor Domenico
Sardano nelle rispettive qualità di presidente del collegio
sindacale di banca Carige il primo, e di sindaci effettivi di banca
Carige i restanti due.
I ricorrenti, per quel che ancora rileva in questa sede,
eccepivano la violazione del principio del contraddittorio in
ragione del fatto che già nel primo atto introduttivo del
procedimento amministrativo, cioè la lettera di contestazione
formale, la Banca d’Italia non aveva contestato loro alcuna
violazione in materia di governance e antiriciclaggio.
Inoltre nel merito, in relazione alle due macro
contestazioni sintetizzabili in violazione delle disposizioni sulla
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udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale

governance, carenze nell’organizzazione dei controlli interni e

carenze nella gestione del controllo del credito, eccepivano che
il controllo rimesso al collegio sindacale ha carattere globale e
sintetico in relazione all’attività complessiva della società
mentre l’opportunità e la convenienza delle scelte operative

potere è riconosciuto ai sindaci per imporre o impedire ai primi
il compimento di atti di gestione che non violino la legge.
2. La Corte d’Appello di Roma con decreto numero 3952,
emesso in data 10 aprile 2015 e depositato in data 7 maggio
2015, rigettava tutti i motivi di opposizione proposti dai sindaci
ad esclusione di quello presentato in via subordinata relativo
alla errata quantificazione della sanzione inflitta ad Andrea
Traverso che veniva ridotta ad euro 92.000.
3. Avverso il suddetto decreto i ricorrenti propongono
ricorso per Cassazione sulla base di due motivi.
La Banca d’Italia si è costituita con controricorso
chiedendo il rigetto del ricorso e la conferma della sentenza
impugnata.
In prossimità dell’udienza la Banca d’Italia ha depositato
memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. in via preliminare la difesa dei ricorrenti eccepisce
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 145 TUB per contrasto
con l’articolo 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo in relazione all’articolo 117 della Costituzione.
A questo proposito i ricorrenti premettono che la
sanzione inflitta dalla Banca d’Italia, seppur formalmente
qualificata come amministrativa, ha natura penale, ai sensi dei
principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a

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restano di competenza esclusiva degli amministratori e nessun

partire dalla sentenza Engels dell’8 giugno 1976, fino a quella
Grande Stevens del 4 marzo 2014.
In particolare, evidenziano i ricorrenti che le norme
amministrative previste dalla legislazione italiana in materia di
tutela della concorrenza sono poste a tutela di interessi

le sanzioni devono qualificarsi come penali ogni qualvolta
abbiano una funzione preventiva e repressiva, e siano volte a
punire un’irregolarità indipendentemente dalla causazione di un
danno.
Nel caso di specie, l’articolo 144 T.U.B. è posto a
protezione di un interesse generale costituito dalla tutela del
risparmio (articolo 47 Cost.), e la sanzione che la suddetta
norma prevede ha un evidente carattere repressivo e
preventivo e prescinde dalla causazione di un danno. In altri
termini la suddetta norma è dettata dallo scopo di dissuadere i
soggetti sanzionabili dal porre in essere determinati
comportamenti.
Una volta accertata la natura penale di tale sanzione ne
consegue che il procedimento di irrogazione delle medesime
deve assicurare ai soggetti incolpati le stesse garanzie previste
per i procedimenti penali, prima di tutte quella della pubblicità
del processo, in virtù della quale ogni persona ha diritto a che
la sua causa sia esaminata equamente e pubblicamente entro
un termine ragionevole da un tribunale indipendente e
imparziale.
La corte EDU ammette che l’obbligo di tenere un’udienza
pubblica non sia assoluto, ma tale obbligo è inderogabile ogni
qualvolta siano sollevate questioni che attengono alla
credibilità degli accusati e ancor di più a questioni di fatto che

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generali e, pertanto, debbono qualificarsi come penali. Inoltre

solo in un’udienza pubblica troverebbero la loro legittima sede
di discussione.
Nella specie è pacifico che l’opposizione aveva ad oggetto
plurime questioni di fatto costituite dalla necessità di accertare
se sussistesse qualche mancanza o scarsa effettività

presso la Corte d’appello di Roma si è tenuta in camera di
consiglio.
Il procedimento davanti alla Corte d’appello di Roma,
dunque, avrebbe violato l’articolo 6 della convenzione, e tale
violazione non sarebbe sanabile neanche mediante la pubblicità
dell’udienza presso la Corte di cassazione posto che essa non si
estende al merito delle questioni sollevate dai sindaci.
Inoltre la difesa dei ricorrenti richiama la questione di
legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di
Genova in occasione della quale, in una materia del tutto
analoga a quella in esame, si è affermato che le sanzioni
amministrative previste dall’articolo 190 del TUF sono da
qualificarsi penali e, dunque, occorre verificare se il
procedimento previsto dall’articolo 195 del decreto legislativo
numero 58 del 1998, che stabilisce in sede di impugnazione
davanti alla corte d’appello la decisione in camera di consiglio
sia compatibile con le garanzie stabilite dall’articolo 6 della
convenzione, segnatamente con il principio della pubblicità
delle udienze.
1.2 Per questi motivi i sindaci ritengono che la questione
di legittimità costituzionale proposta sia non manifestamente
infondata oltre che rilevante per il giudizio e chiedono che
venga sollevata dalla Corte di cassazione.
1.3 L’eccezione di costituzionalità sollevata dai ricorrenti
non può essere accolta per difetto di rilevanza.
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nell’attività di controllo demandata ai sindaci, mentre l’udienza

Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale,
infatti, una questione di costituzionalità finalizzata a
riconoscere una determinata facoltà a una parte processuale è
priva di rilevanza attuale se, nel giudizio a quo, quella parte
non ha manifestato la volontà di esercitare la facoltà in

perfettamente corrispondente in cui si discuteva della omessa
previsione della pubblicità dell’udienza, e altri precedenti ivi
indicati con particolare riguardo a questioni volte ad ampliare
le possibilità di accesso dell’imputato a riti alternativi,
ordinanze n. 55 del 2010, n. 69 del 2008, n. 129 del 2003 e n.
584 del 2000).
In assenza di tale manifestazione di volontà, la rilevanza
della questione risulta meramente ipotetica. L’applicabilità, nel
giudizio principale, della “norma” resterebbe, infatti,
subordinata ad un accadimento non solo futuro, ma anche del
tutto incerto: e, cioè, alla circostanza che, a seguito di
una pronuncia di accoglimento, l’interessato si avvalga
effettivamente della facoltà attribuitagli (in termini
analoghi, ordinanza n. 129 del 2003).
La Corte costituzionale ha espresso il medesimo
orientamento anche con la sentenza n. 80 del 2011.
In tale occasione, una Sezione singola della Corte di
cassazione aveva denunciato l’illegittimità costituzionale delle
norme regolative del procedimento in materia di applicazione
delle misure di prevenzione, nella parte in cui non
riconoscevano alla parte interessata la facoltà di chiederne la
trattazione in forma pubblica. Allora era stata dedotta la
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con
il principio di pubblicità delle udienze di cui all’art. 6, paragrafo
1, della CEDU, nella interpretazione datane dalla Corte di
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discussione (ex plurimis sentenza n. 214 del 2013 in un caso

Strasburgo, la quale, in plurime pronunce, aveva affermato che
le persone coinvolte nei procedimenti di prevenzione
(parimenti soggetti a trattazione camerale) dovessero godere
almeno della possibilità di sollecitare una udienza pubblica
davanti ai tribunali e alle corti d’appello.

sopravvenuta carenza di oggetto, giacché, nelle more, le
norme denunciate erano già state dichiarate costituzionalmente
illegittime, in parte qua, con la sentenza n. 93 del 2010.
La Corte ha rilevato, tuttavia, come, a fianco di tale
profilo di inammissibilità, pur «assorbente», ve ne fosse un
altro: per l’appunto, il difetto di rilevanza, connesso al fatto
che l’interessato, ricorrente per cassazione, non risultava aver
formulato, nei precedenti gradi di giudizio, alcuna istanza di
trattazione in forma pubblica del procedimento.
La suddetta istanza di trattazione pubblica era stata, in
effetti, proposta per la prima volta dal difensore
dell’interessato – con contestuale eccezione di violazione del
principio convenzionale di pubblicità – solo nell’ambito del
giudizio di cassazione. (Corte Cost. sentenza n. 214 del 2013)
1.4 Tutto ciò premesso, deve evidenziarsi che, nel caso
in esame, non risulta che il ricorrente, nel corso del processo
dinanzi la Corte d’Appello, abbia chiesto di voler procedere
nelle forme dell’udienza pubblica.
Se, dunque, durante l’intero giudizio i ricorrenti non
hanno mai formulato alcuna richiesta rivolta ad ottenere
un’udienza pubblica, la questione finalizzata a riconoscere tale
facoltà è priva di rilevanza, potendo il processo legittimamente
svolgersi nelle forme della camera di consiglio. Tale
interpretazione risulta conforme anche alla giurisprudenza della
Corte dei diritti dell’uomo, secondo la quale i processi
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La questione è stata dichiarata inammissibile per

caratterizzati da una particolare natura, assimilabile a quella
penale, devono obbligatoriamente svolgersi nelle forme
dell’udienza pubblica solo se sia presentata una esplicita
richiesta in tal senso (vedi ex multis Corte EDU, 13.11.2007,
Bocellari c. Italia).

3, c.p.c., i ricorrenti lamentano la violazione e falsa
applicazione del principio del contraddittorio, ai sensi degli
articoli 24 e 111 Cost., in relazione all’articolo 12 del
regolamento della Banca d’Italia del 18 dicembre 2012
contenente disposizioni di vigilanza in materia di sanzioni e
procedura sanzionatoria amministrativa.
2.1 Nel giudizio davanti alla Corte d’appello di Roma i
sindaci avevano eccepito la violazione del principio del
contraddittorio in ragione del fatto che già nel primo atto
introduttivo del procedimento amministrativo, cioè la lettera di
contestazione formale, la Banca d’Italia non aveva contestato
loro alcuna violazione in materia di

governance

e

antiriciclaggio.
Nonostante tale dato fosse documentalmente acquisito la
relativa eccezione veniva erroneamente disattesa dalla Corte
d’appello secondo cui le suddette violazioni erano menzionate
solo a titolo esemplificativo.
Inoltre, a parere dei giudici del gravame, la normativa
primaria e secondaria di settore non riconosce, in tali
procedimenti sanzionatori, il diritto dell’incolpato «all’ultima
parola».
2.2 La motivazione sarebbe errata perché i sindaci non
avevano lamentato il preteso diritto dell’incolpato all’ultima
parola ma un vizio diverso, ovvero che fin dall’atto introduttivo

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2. Come primo motivo di ricorso, ex articolo 360, numero

del procedimento amministrativo non erano indicate le
contestazioni relative alla governance e all’antiriciclaggio.
2.3 I ricorrenti evidenziano che la lettera di contestazione
produce l’effetto sostanziale di delimitare l’ambito del contesto
sanzionatorio alle irregolarità ivi descritte. Ciò significa che tale

presi in esame a fini sanzionatori illeciti diversi da quelli ivi
descritti. In tal senso si cita Cass. 2 maggio 2006 n.10145
secondo cui sussiste la violazione del precetto posto dall’art. 14
I. n. 689 del 1981 sulla necessaria correlazione tra fatto
contestato e fatto assunto a base della sanzione irrogata,
quando la fattispecie è diversa da quella attribuita al
trasgressore in sede di contestazione, venendo meno, in tal
caso, il diritto di difesa del medesimo.
2.4 A tal fine i sindaci ricorrenti evidenziano che la lettera
di contestazione e l’accluso verbale ispettivo loro notificati non
contenevano le suddette contestazioni e, infatti, nelle loro
controdeduzioni non veniva svolta alcuna difesa sul punto.
Dunque la Corte d’appello di Roma è incorsa in errore di diritto,
in relazione alla violazione del principio del contraddittorio e del
diritto di difesa dei sindaci.
2.5 II motivo è infondato.
2.6 La Corte d’Appello ha motivato il rigetto del motivo di
opposizione relativo alla presunta mancata contestazione in
relazione alla governance ritenendo che le relative carenze
dovessero considerarsi ricomprese in quelle relative
all’omissione dei generali obblighi di vigilanza della società,
gravanti ex art. 2403 sui sindaci, tenuti a sorvegliare e
controllare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo
amministrativo e contabile ed il concreto funzionamento delle
società stesse e che, dunque, la successiva specificazione non
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atto preclude che, nel corso del procedimento, possano essere

potesse qualificarsi come una inammissibile contestazione
suppletiva.
In relazione alla mancata contestazione della violazione
della normativa antiriciclaggio la Corte d’Appello, invece, ha
ritenuto che tale violazione fosse menzionata nel

esemplificativo delle carenze dei controlli interni, già rilevata a
carico dei sindaci di Carige S.P.A. nella lettera di contestazione,
rientrando, pertanto, anche in tal caso le dette infrazioni
nell’ambito dell’addebito omnicomprensivo, già ampiamente
contestato di omessa vigilanza sulle strutture aziendali
operative della Banca ispezionata.
In entrambi i casi, secondo la Corte d’Appello, le
integrazioni motivazionali svolte in sede di proposta di
sanzione non hanno avuto effetti invalidanti, anche solo
parziali, della delibera in quanto nella prima lettera di
contestazione erano contestati gli estremi della violazione e si
riportavano gli elementi essenziali del verbale ispettivo, poi
riportati nel provvedimento sanzionatorio.
2.7 La suddetta motivazione appare conforme alla
giurisprudenza consolidata di questa Corte e non viola in alcun
modo le norme indicate dal ricorrente.
Il motivo, peraltro, non rispetta il requisito di specificità
ex art. 366, n. 6, c.p.c.. La doglianza, infatti, è del tutto
generica, in quanto i ricorrenti hanno omesso di riportare
esplicitamente nel ricorso il contenuto effettivo della lettera di
contestazione, limitandosi a indicare il documento 1 allegato
pag. 4 e 5.
I ricorrenti avrebbero dovuto riportare per esteso, sia la
specifica incolpazione non presente nell’originale lettera di
contestazione, che il contenuto di questa. Il generico
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provvedimento applicativo della sanzione a solo titolo

riferimento

alla

governance

e

agli

omessi

controlli

antiriciclaggio, infatti, non consente un controllo analitico della
corrispondenza della prima contestazione con quella poi
oggetto dell’affermazione di responsabilità.
In ogni caso dalla lettura del decreto impugnato emerge

alla complessiva attività gravante sui sindaci, e, quindi, come
correttamente affermato dalla Corte d’Appello certamente
comprensiva anche dell’attività di governance e dei controlli
antiriciclaggio.
2.8 Infine, in relazione alla suddetta censura, deve
richiamarsi anche la giurisprudenza di questa Corte secondo la
quale «In tema di sanzioni amministrative, il mutamento dei
termini della contestazione rispetto all’originario verbale di
accertamento della violazione non è causa di illegittimità del
provvedimento sanzionatorio qualora riguardi soltanto la
qualificazione giuridica del fatto oggetto dell’accertamento,
sulla cui base l’ente irrogatore abbia ritenuto di passare dalla
contestazione di un illecito a quella di un altro, purché, a
fondamento del rettificato addebito, non sia stato posto
alcun fatto nuovo, atteso che, in tale evenienza, va esclusa la
violazione del diritto di difesa, mantenendo il trasgressore la
possibilità di contestare l’addebito in relazione
all’unico fatto materiale accertato nel rispetto delle garanzie
del contraddittorio» (Sez. 2, Sent. n. 4725 del 2016).
2.9 In conclusione il motivo deve essere rigettato perché
ai ricorrenti non sono stati contestati fatti nuovi ma, come
correttamente osservato dalla Corte d’Appello, durante la fase
istruttoria successiva alla prima lettera di contestazione vi è
stata una mera esemplificazione o specificazione delle condotte
omissive oggetto della originaria contestazione.
Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
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che la condotta contestata agli odierni ricorrenti era relativa

3. Il secondo motivo di ricorso attiene alla violazione e
falsa applicazione degli obblighi cui sono soggetti i sindaci di
società bancarie, in particolare i ricorrenti lamentano l’errata
interpretazione degli articoli 2403, 2407 cod. civ. e 149 TUF
nonché dell’articolo 53, comma 1, lett. b), e d), e dell’art. 67

istruzione di vigilanza delle banche).
I ricorrenti evidenziano che la corte d’appello, nel
rigettare i loro motivi di difesa in relazione alle due macro
contestazioni o violazioni sintetizzabili in violazione delle
disposizioni sulla governance, carenze nell’organizzazione dei
controlli interni, carenze nella gestione del controllo del credito,
avrebbe individuato compiti propri del collegio sindacale che
non trovano riscontro nella disciplina positiva. I sindaci di
un’impresa bancaria, secondo l’impostazione della Corte
d’appello, sarebbero responsabili a titolo di omesso controllo
con presunzione di colpa, in quanto i compiti del collegio
sindacale non sono di alta vigilanza ma di controllo effettivo
della correttezza di tutte le decisioni dell’organo amministrativo
e di verifica della diligenza nelle scelte gestionali dell’azienda.
3.1 Sotto l’ombrello di quest’unico motivo di ricorso i
ricorrenti propongono numerose e distinte censure.
Occorre

premettere

che

«In

materia

di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia
articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe
potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non
costituisce,

di

per

sé,

ragione

d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere
sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua
formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze
prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato
Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
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TUB (nonché della normativa secondaria in materia di

esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe
potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi,
singolarmente numerati» (Sez. U, Sent. n. 9100 del 2015).
4. I ricorrenti lamentano che la Corte d’Appello abbia
ritenuto sussistente una presunzione di colpa iuris tantum per

generale. In presenza di una sanzione di natura penale, invece,
non dovrebbe essere ammessa alcuna presunzione di colpa, a
ciò ostando l’art. 6 CEDU e l’art. 27 Cost.
4.1 Questo primo profilo di censura ricompreso nel
secondo motivo di ricorso è infondato.
4.2 Come si è detto, secondo i ricorrenti la presunzione
iuris tantum di colpevolezza non dovrebbe operare in presenza
di sanzioni amministrative afflittive che hanno natura
sostanzialmente penale. La Corte d’Appello nella propria
motivazione, tra le altre argomentazioni a sostegno
dell’affermazione della responsabilità dei ricorrenti, fa anche un
generico riferimento al consolidato principio secondo cui in
tema di responsabilità per illecito amministrativo il giudizio
di colpevolezza è ancorato a parametri normativi estranei al
dato puramente psicologico, con limitazione dell’indagine
sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della
“suitas”

della condotta inosservante, per cui, una volta

integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie
tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù
della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della I. n. 689 del
1981, l’onere di provare di aver agito in assenza
di colpevolezza (ex plurimis Sez. 1, Sent. n. 4114 del 2016).
4.3 n suddetto principio, secondo quanto chiarito dalle
Sezioni Unite di questa Suprema Corte con la sentenza
n. 20930 del 2009, non si pone in contrasto con l’affermazione
Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
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le irregolarità riferibili a carenze organizzative di carattere

della necessaria sussistenza dell’elemento soggettivo della
colpa a carico dell’autore dell’illecito amministrativo, ma vuole
semplicemente chiarire in che modo la sussistenza di tale
elemento soggettivo deve essere accertata.
In particolare le sezioni Unite, con la sentenza citata,

amministrativo è ricalcata su quella dei reati penali
contravvenzionali», e «nè il d.lgs. n. 385 del 1993, art.145 né
il d.lgs. n. 58 del 1998 tessono trame di
responsabilità oggettiva, elevando a loro volta a presupposto
della responsabilità l’imputabilità diretta alla persona fisica che risponde per fatto proprio colpevole nelle fattispecie
monosoggettive, e per il proprio colpevole contributo alla
realizzazione dell’illecito in quelle plurisoggettive. Del pari,
tanto il fortuito quanto la forza maggiore, pur non essendo
espressamente contemplati per le infrazioni amministrative
dalla I. n. 689 del 1981, sono comunemente ritenuti a loro
volta ostativi ad una affermazione di responsabilità in quanto
escluderebbero l’elemento psicologico».
Con specifico riguardo alle sanzioni amministrative
previste nel testo unico bancario, da un canto, la stessa Corte
Costituzionale ha ritenuto l’elemento della colpa, anche quando
non previsto dalla norma, coessenziale al concetto di illecito,
dall’altro, questa Corte di legittimità ha riaffermato – sempre
con riguardo alle sanzioni in materia bancaria agli esponenti
aziendali per violazione dei propri doveri di controllo e vigilanza
sugli autori diretti del comportamento illecito – che la
responsabilità gravante sugli autori materiali richiede sempre
almeno la colpa quanto agli amministratori, ai direttori, ai
sindaci.

Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
-14-

hanno chiarito che «La fattispecie soggettiva dell’illecito

4.4 Tanto premesso, per quanto più specificamente
attiene al tema proposto, la questione, cioè, del soggetto
gravato dall’onere di provare la colpa, il consolidato principio
della cd. presunzione di colpa richiamato dal decreto
impugnato, deve essere rettamente inteso (non nel senso della

della relativa prova, ma) nel senso che, ai fini dell’affermazione
della sussistenza della colpa del trasgressore, è sufficiente la
prova della sua condotta (anche omissiva) in violazione di
norme specifiche di legge o di precetti generali di comune
prudenza, mentre per “inversione” dell’onere probatorio deve
intendersi solo che la prova dell’inesigibilità della condotta
spetta al suddetto trasgressore (Cass. Sez. U. sent.
n. 20930 del 2009).
Nel prosieguo della motivazione della citata sentenza si
legge che il d. Igs. n. 385 del 1993 e il d. Igs. n. 58 del 1998
contemplano una serie assai ampia di illeciti cd. “di mera
trasgressione”. Le norme citate disciplinano, infatti, una serie
di fattispecie a carattere ordinatorio, destinate a salvaguardare
procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta,
secondo un criterio di agire o di omettere doveroso. Ed è
innegabile come, negli illeciti di mera trasgressione, la loro
stessa morfologia renda impossibile individuare, sul piano
funzionale, un’intenzione o una negligenza nell’azione, ossia
una condotta esterna onde ricostruire i tratti
dell’atteggiamento interiore: l’azione, dolosa o colposa che sia,
esaurendosi in una mera trasgressione, si identifica allora con
la condotta inosservante (la cd. suitas), la quale appare neutra
proprio sotto l’ulteriore profilo del dolo o della colpa. Ciò perché
la condotta illecita, in tal caso, è priva di un risvolto
naturalistico e non fornisce indizi percepibili dell’atteggiamento
Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
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immotivata e irragionevole inversione tout court dell’onere

soggettivo e psicologico, onde la tipicità del dolo o della colpa
si riducono alla mera “suità” della condotta inosservante, il cui
aspetto esteriore appare compatibile con entrambi i possibili
atteggiarsi dell’elemento soggettivo dell’illecito.
Così, tanto in caso di illecito monosoggettivo di mera

medesimo (e con riferimento tanto a un divieto quanto a un
comando), la mancanza di indizi visibili da cui inferire
l’atteggiamento colpevole induce legittimamente a presumerlo
entro la (soddisfacente) dimensione della suitas della condotta,
e ciò per evitare impraticabili e defatiganti indagini di tipo
introspettivo dal punto di vista dell’accertamento processuale,
ove la mancanza in rerum natura di un’azione che rechi le
stimmate di un atteggiamento predicabile come colpevole
consente ed anzi impone al giudice di limitarsi ad individuare
l’autore imputabile dell’inosservanza, senza necessità di
ulteriori indagini in ordine ad una condotta da verificarsi come
modulata sul piano del dolo o della colpa. In questi sensi ed
entro questi limiti va pertanto condivisa l’acuta riflessione della
migliore dottrina penalistica secondo cui il giudizio di
colpevolezza è un giudizio “normativo”, inteso sia come verifica
della mancanza di elementi di inesigibilità, sia come
valutazione legale del processo motivazionale, così che si possa
supporre la rimproverabilità della condotta, una volta
constatatane con certezza la

suitas,

qualora possa

specularmente escludersi l’esistenza di circostanze anomale
che abbiano reso incolpevole il comportamento trasgressivo e,
dunque, inesigibile quello osservante. Il giudizio di
“colpevolezza colposa” è ancorato, dunque, a parametri
normativi esterni al dato puramente psicologico.

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trasgressione, quanto in caso di concorso omissivo nell’illecito

Del resto anche la giurisprudenza penale di legittimità ha
affermato che «In tema di colpa specifica, ad integrare la colpa
medesima basta l’inosservanza della regola cautelare imposta
dalla legge, regolamento, ordine o disciplina, purché,
beninteso, l’evento verificatosi sia riconducibile al tipo di

invocare la mancanza del requisito della prevedibilità, essendo
questa insita nello stesso precetto normativo violato, nel senso
che è stato l’autore di questo a prefigurarsi una volta per tutte
la pericolosità di una certa situazione (nella specie: quella
derivante dalla mancata schermatura di un organo lavoratore),
tanto da dettare precise regole precauzionali per
ovviarvi» (Sez.4, Sent. n. 1501 del 1989 Rv. 183204).
4.5 In conclusione può affermarsi che l’onere di provare i
fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria è sempre a carico
dell’Amministrazione, la quale è tenuta a fornire la prova della
condotta illecita, e che, nel caso di illecito omissivo, ricade
sull’intimato l’onere di fornire la prova della sussistenza di
elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile
l’evento.
4.6 Alla luce di tali assorbenti considerazioni il motivo di
ricorso va respinto e vanno conseguentemente tenuti fermi e
ribaditi, in questa sede, tutti i principi, ormai consolidati in
seno a questa giurisprudenza di legittimità, in tema di
elemento oggettivo e soggettivo dell’illecito, di riparto
dell’onere della prova in materia di illeciti omissivi, di
ammissibilità della cd. “presunzione di colpa” (nel senso sopra
chiarito) e ciò tanto con riguardo alla materia delle sanzioni
amministrative in generale, quanto nella ipotesi (peraltro
indimostrata nella specie) della natura sostanzialmente penale
delle stesse. Si tratta, infatti, della sostanziale trasposizione
Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
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evento che tale regola intende prevenire, per cui non vale

nel processo civile di principi che valgono anche in sede
penale.
5. Gli ulteriori profili di censura proposti con il secondo
motivo di ricorso attengono tutti alla interpretazione della
normativa del codice civile e del Testo unico bancario sugli

quotate e, per la loro intrinseca connessione, possono essere
trattati unitariamente.
5.1 I ricorrenti lamentano che gli obblighi cui sono
soggetti i sindaci di imprese bancarie quotate sono relativi
all’attività complessiva della società e, quindi, a loro è rimesso
un controllo di carattere globale e sintetico, mentre
l’opportunità e la convenienza delle scelte operative restano di
competenza esclusiva degli amministratori e nessun potere è
riconosciuto ai sindaci per imporre o impedire ai primi il
compimento di atti di gestione che non violino la legge. Si
tratta quindi di un controllo sintetico, a campione, che non ha
ad oggetto singoli atti e che non può estrinsecarsi su ogni
operazione.
Anche gli obblighi di vigilanza previsti dall’articolo 149
TUF, che si aggiungono a quelli normalmente previsti
dall’articolo 2403 cod. civ., non contemplano un analitico
riscontro di conformità tra regole e atti o operazioni, ma si
esauriscono in un controllo sintetico e con la preparazione di
un adeguato sistema di gestione del rischio.
Il dovere di controllo di un sindaco di un’impresa
bancaria, inoltre, è peculiare in quanto al generale dovere di
vigilanza di cui all’art. 2403 cod. civ. e 149 TUF si somma
quello di verifica del rispetto degli obblighi di vigilanza previsto
dal secondo comma dell’art.144 TUB, tuttavia, la natura del

Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
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obblighi gravanti sul collegio sindacale di imprese bancarie

controllo rimane sempre quella di un controllo di legalità
globale e sintetico.
Dunque, nelle imprese bancarie, al collegio sindacale è
demandata un’attività di valutazione critica circa il grado di
reale efficienza e di adeguatezza dei controlli interni

5.2 L’altra censura ricompresa nel secondo motivo di
ricorso riguarda la responsabilità dei sindaci in relazione alle
carenze nell’organizzazione dei controlli interni.
In relazione a tale aspetto i ricorrenti rilevano che il
collegio sindacale si era rivolto ad una società esterna al fine di
compiere una verifica e un’analisi sull’efficienza del sistema dei
controlli interni. Inoltre i ricorrenti chiariscono che l’organo di
controllo si avvale dei flussi informativi provenienti dagli organi
di controllo interni e, dunque, sarebbe errata la motivazione
della Corte d’Appello, secondo cui l’affidamento ad una società
esterna della valutazione dell’efficienza del sistema dei controlli
non aveva valore di esimente rispetto alle lacune ed omissioni
contestate in quanto non esonerava i sindaci dall’obbligo di
controllare in proprio l’attendibilità e la rispondenza della
verifica sui flussi informatici aziendali.
5.3 L’ultima censura, anch’essa ricompresa nel secondo
motivo di ricorso, riguarda la responsabilità dei sindaci in
relazione alla carenza nella gestione del controllo del credito.
Secondo i ricorrenti l’obbligo di vigilanza del collegio
sindacale non può essere esteso fino a ricomprendervi anche le
singole erogazioni del credito mentre i sindaci hanno sempre
tenuto conto dei pareri espressi dalle società di revisione.
Inoltre il decreto sarebbe errato nella parte in cui pretende che
l’attività di verifica d’indagine svolta dai sindaci non si sia
tradotta nell’effettivo esercizio di poteri di ispezione e controllo
Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
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predisposto dagli amministratori.

posto che compito dei sindaci è solo quello di verificare le
procedure.
5.4 Le predette censure sono infondate.
In ordine all’insussistenza della violazioni di legge
denunciate, occorre evidenziare in primo luogo che, nel caso in

consiste nell’omissione del controllo e della vigilanza attribuite
ai sindaci dall’art. 144 TUB, in particolare in ordine al sistema
dei controlli interni e sull’adeguatezza della struttura
organizzativa della società e del sistema di controllo interno e
delle procedure adottate.
5.5 La motivazione della Corte d’Appello è ampia ed
esaustiva su tutti i punti indicati dal ricorrente quale motivo di
errata applicazione delle norme che regolano gli obblighi del
collegio sindacale.
La Corte d’Appello ha evidenziato che la normativa
primaria e secondaria di settore fa carico ai componenti del
collegio sindacale di verificare, con continuità ed in ogni caso, i
possibili rischi aziendali, sulla base dei flussi informativi e della
funzione di controllo interno loro demandata e non limitata a
compiti “di alta vigilanza”. Ai componenti del collegio sindacale
compete la costante verifica della legittimità e della correttezza
di tutte le decisioni dell’organo amministrativo, con l’obbligo di
verificare carenze organizzative generali e di prevenire e
contenere i possibili rischi aziendali specie di
depatrimonializzazione.
5.6 In particolare con riferimento alla violazione delle
disposizioni sulla govemance, alla luce delle disposizioni di
vigilanza in materia di organizzazione e governo societario
delle banche del 4 marzo 2008 nonché delle circolari numero
229 del 21 aprile 1999 e numero 263 del 27 dicembre 2006
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esame, l’illecito per il quale è stata irrogata la sanzione

emanate dalla Banca d’Italia, con cui sono state espressamente
individuate ed elencate le funzioni di controllo e vigilanza
gravante sui componenti i collegi sindacali delle banche, si
delinea un sistema di responsabilità che coinvolge non solo
tutti i livelli decisionali dell’intermediario creditizio, ma anche il

correttezza di tutte le delibere del consiglio di amministrazione
per verificare sia il rispetto degli obblighi previsti ope legis a
carico degli amministratori, sia l’adempimento da parte di
questi ultimi dei generali obblighi legali ex art. 2392, primo
comma, cod. civ., di diligente gestione aziendale nell’interesse
sociale.
5.7 Nella motivazione della sentenza impugnata si legge
che, quanto alla valutazione della veridicità e completezza dei
flussi informativi, a prescindere dalla mancata partecipazione
del collegio sindacale all’incontro del giugno 2012 con l’organo
di vigilanza, era comunque dovere di tale organo quello di
svolgere autonomamente le operazioni di competenza e di
chiedere al consiglio di amministrazione precisazioni e
chiarimenti in relazione alle criticità emerse dagli esiti ispettivi.
Si conferma l’addebito di incompletezza delle informazioni rese
dal collegio sindacale al consiglio di amministrazione e, quindi,
di effettivo inadempimento agli obblighi connessi alla funzione
di controllo, così come si conferma l’addebito di aver utilizzato
accorgimenti contabili e valutativi per far risultare il
mantenimento dell’equilibrio economico nel consuntivo
semestrale 2012 di Carige S.p.A. con il raggiungimento degli
utili previsti.
5.8 La corte d’appello conferma anche le contestate
carenze nell’organizzazione dei controlli interni e afferma che
l’affidamento ad una società esterna della valutazione dell’audit
Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
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collegio sindacale tenuto al controllo della legittimità e della

interno, non esonera i sindaci dall’obbligo di controllare in
proprio l’attendibilità e la rispondenza dei dati di verifica sui
flussi informativi aziendali, provenienti dal detto ente privato di
revisione. In un contesto di significative carenze nell’assetto di
governo e di organizzazione aziendale, risultano invece, da

rivolte agli amministratori circa l’assenza di apprezzabili
irregolarità afferenti la funzione controllata.
Il collegio sindacale, secondo la Corte d’Appello, ha
interpretato in maniera riduttiva e burocratica i propri compiti e
non ha in concreto svolto il ruolo attivo conferitogli
dall’ordinamento nell’ambito dei meccanismi di controllo della
società, trascurando di assumere concrete iniziative di
vigilanza di presidio per garantire l’efficienza dei controlli
interni della banca Carige SPA.
5.9 Anche in relazione alla carenze nei controlli sulle
controllate assicurative e alla violazione della normativa
antiriciclaggio la Corte d’Appello evidenzia che si sono
riscontrati gravi lacune nella funzione vigilanza.
5.10 Infine risulta ampiamente motivato anche il rigetto
del motivo di opposizione svolto dai ricorrenti in relazione alla
carenza nella gestione del controllo del credito. Nel decreto
impugnato vi è un riferimento analitico ai rilievi contestati e
puntualmente riscontrati. Inoltre la Corte d’Appello evidenzia
che, al di là delle singole operazioni, l’operato del collegio
sindacale è stato censurabile, in assenza di una verifica di una
vigilanza attiva sull’intero processo di gestione dell’erogazione
del credito, essendo totalmente sfuggita sia l’incidenza
anomala dei crediti giunta dopo le riclassificazioni ispettive al
17% sia un imponente carenza di fondi valutativi per crediti

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parte del collegio sindacale mere comunicazione burocratiche,

deteriorati pari rispettivamente ad oltre 239 milioni di euro nel
2012 e ad oltre 193 milioni di euro nel 2013.
5.11 Alla luce di quanto riportato, può senz’altro
affermarsi che nel caso in esame i giudici di merito hanno
accertato, con adeguato apprezzamento di fatto, che i

5.12 La motivazione della Corte d’appello riposa sulla
puntuale applicazione della specifica normativa di settore,
giacché, secondo il regolamento della Banca d’Italia, il collegio
sindacale è tenuto a “verificare, senza limitarsi agli aspetti
meramente formali, la regolarità e la legittimità della gestione,
il corretto funzionamento delle aree operative e l’adeguatezza
del sistema dei controlli interni e del sistema informativo”. In
questo ambito, la facoltà, per il collegio sindacale, di avvalersi
di collaborazioni esterne, non può valere in alcun modo a
svuotare di contenuto l’attività propria dell’organo di controllo
né a liberarlo dalle connesse responsabilità.
I rilievi critici avanzati dai ricorrenti ruotano attorno ad
una errata interpretazione dei doveri dei sindaci che, ai sensi
delle istruzioni di vigilanza, sono tenuti a verificare con
continuità, senza limitarsi ad un “alta vigilanza” meramente
formale, l’operato degli amministratori, affinchè costoro,
nell’organizzare ciascuna area della struttura aziendale,
agiscano con competenza e nel rispetto delle procedure di
gestione dei controlli interni.
Questa Corte ha chiarito che la complessa articolazione
della struttura organizzativa di una banca non può comportare
l’esclusione o anche il semplice affievolimento del poteredovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del
collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle
procedure aziendali predisposte per la corretta gestione
Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
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ricorrenti sono venuti meno ai loro obblighi di vigilanza.

societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo,
gravando sui sindaci, da un lato, l’obbligo di vigilanza – in
funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli
azionisti nei confronti degli atti di abuso gestionali degli
amministratori, ma anche della verifica dell’adeguatezza delle

secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa
regolamentare, a garanzia degli investitori – e, dall’altro lato,
l’obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d’Italia e alla
Consob (v. Cass., sez. un., n. 20934/2009).
In conclusione la statuizione della Corte d’appello si
appalesa immune dai vizi denunciati, censurati dai ricorrenti
per ottenere una revisione del giudizio di fatto, mentre a
questa Corte compete il solo controllo, sotto il profilo logico
formale e della correttezza giuridica, delle valutazioni compiute
dal giudice di merito.
6. – Il ricorso è rigettato.
7. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si
liquidano come da dispositivo.
8. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30
gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare
atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre
2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che
ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di
cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza
dell’obbligo di

versamento,

da

parte

del

ricorrente,

dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.

Ric. 2015 n. 28574 sez. 52 – ud. 07-11-2017
-24-

metodologie finalizzate al controllo interno della società,

La Corte, rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti
al rimborso delle spese che liquida in complessivi euro 5400 di
cui 200 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 °/c, sui
compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002,

dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del
contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma
dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^
Sezione civile in data 7 novembre 2017
IL/9NSIGLIERE
ESTENSORE
p
4/.. o” Iiir_ ,70._ 0/1A.A

IL PRESIDENTE
l- ,
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A

inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza

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