Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15288 del 25/07/2016

Cassazione civile sez. un., 25/07/2016, (ud. 19/04/2016, dep. 25/07/2016), n.15288

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26055-2015 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

J.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BISAGNO 14,

presso lo studio dell’avvocato GUIDO CORSO, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato PAOLO CARROZZA, per delega a margine

dell’atto di costituzione;

– resistente –

avverso la sentenza n. 93/2015 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 18/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/04/2016 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

uditi gli avvocati Giacomo AIELLO per l’Avvocatura Generale dello

Stato e Guido CORSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza n. 143 del 2009 la sezione disciplinare del C.S.M. condanno’ il dottor I.E. alla sanzione dell’incapacita’ a ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi per un anno ed al trasferimento d’ufficio ad altra sede ed altre funzioni in relazione ad una vicenda svoltasi nel 2008, quando il predetto magistrato era procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Catanzaro.

La sentenza n. 11431 del 2010, con la quale queste sezioni unite confermarono la citata sentenza disciplinare di condanna rendendola definitiva, affermo’ il principio secondo il quale integra l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. ff) (prevedente l’adozione di provvedimenti al di fuori di ogni previsione processuale, ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza, oppure di atti e provvedimenti che costituiscono esercizio di una potesta’ riservata dalla legge ad organi legislativi o amministrativi o ad altri organi costituzionali) l’avvio di un procedimento penale, da parte di magistrati del pubblico ministero, nei confronti di altri magistrati in servizio presso diversa Procura della Repubblica che abbiano gia’ iniziato contro i primi un procedimento penale per un’ipotesi di reato di cui essi siano stati informati.

Avverso la suddetta sentenza di condanna il dottor I. ha presentato una prima istanza di revisione dichiarata inammissibile dalla sezione disciplinare con sentenza confermata da queste sezioni unite.

Una successiva istanza e’ stata invece accolta dalla sezione disciplinare, la quale ha ritenuto che dall’indagine penale a carico del dottor D.M. (all’epoca dei fatti magistrato presso la Procura della Repubblica di Catanzaro) e del suo consulente G. per i reati di abuso di ufficio erano emersi dati fattuali oggettivi (quali l’adozione di decreti di acquisizione di tabulati telefonici intestati a parlamentari senza preventiva autorizzazione delle Camere di appartenenza) richiamati nella sentenza penale di condanna pronunciata dal Tribunale di Roma nei confronti dei predetti D.M. e G. e idonei ad escludere l’offensivita’ della condotta ascritta al dottor I., determinandone l’irrilevanza disciplinare ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis.

Avverso questa sentenza il Ministro della Giustizia ha proposto ricorso affidato a cinque motivi. Il dottor I. non ha resistito con controricorso ma ha depositato atto definito “di costituzione” e, successivamente, memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con riguardo alle modalita’ difensive adottate dal dottor I. nel presente giudizio, deve innanzitutto evidenziarsi che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimita’, alla quale il collegio intende dare continuita’ in assenza di valide ragioni per discostarsene, se la parte contro la quale il ricorso per cassazione e’ diretto intende contraddire deve farlo mediante controricorso da notificare al ricorrente nelle forme e nei termini di cui all’art. 370 c.p.c., in mancanza del quale detta parte non puo’ presentare memorie ma solamente partecipare alla discussione orale (cfr. tra le altre cass. nn. 22928 del 2008; 1737 del 2005 e 11160 del 2004), con la conseguenza che non puo’ in questa sede tenersi conto della memoria sopra richiamata.

Prima di procedere all’esame dell’impugnazione occorre ancora prioritariamente verificare la sussistenza della legittimazione e dell’interesse del Ministero della Giustizia alla presente impugnazione, contestata nel corso della discussione orale dalla difesa del dottor I..

In proposito e’ da evidenziare che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24 prevede in linea generale, sotto la rubrica “Impugnazioni delle decisioni della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura”, che “l’incolpato, il Ministro della giustizia e il Procuratore generale presso la Corte di cassazione possono proporre, contro i provvedimenti in materia di sospensione di cui agli articoli 21 e 22 e contro le sentenze della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, ricorso per cassazione” e che, a norma del codice di procedura penale (applicabile nel giudizio dinanzi al C.S.M.), il giudizio di revisione dinanzi alla sezione disciplinare del C.S.M. si conclude con sentenza.

E’ inoltre da aggiungere che il successivo art. 25 -disciplinante espressamente il giudizio di revisione- prevede, nell’ultima parte del comma 7, che ad esso “si applicano le norme stabilite per il procedimento disciplinare”, percio’ senza esclusione delle norme prevedenti l’impugnabilita’ (anche) da parte del Ministro delle sentenze emesse dalla sezione disciplinare.

Peraltro, la specifica disposizione del comma 6 del citato art. 25 (prevedente che “la revisione puo’ essere chiesta anche dal Ministro della Giustizia e dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione”), lungi dall’escludere la possibilita’ che i suddetti soggetti impugnino la decisione di accoglimento dell’istanza di revisione (possibilita’, come sopra esposto, espressamente ricavabile dal combinato disposto dell’art. 24 e del comma 7 dell’art. 25 D.Lgs. cit., oltre che dalla logica del sistema), vale invece a confermare la legittimazione e l’interesse degli indicati soggetti anche alla richiesta di revisione, cioe’ anche in ipotesi in cui l’interesse potrebbe apparire prima facie confliggente con la posizione di detti soggetti siccome indicati dall’art. 14 del citato decreto quali titolari dell’azione disciplinare.

La previsione in parola (che consente anche al Ministro della Giustizia ed al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione la possibilita’ di chiedere la revisione della sentenza di condanna) rende invece evidente che i titolari dell’azione disciplinare sono individuati dal legislatore quali portatori di un interesse generale che (prescindendo dalla permanenza o meno del magistrato nell’ordine giudiziario e/o dalla attualita’ di una richiesta di risarcimento o di competenze non percepite da parte del magistrato successivamente assolto), si sostanzia nell’interesse a che non permanga a carico di un magistrato della Repubblica (o di soggetto che tale funzione ha rivestito) una condanna disciplinare rivelatasi, in seguito ad elementi sopravvenuti, “ingiusta”. Interesse che, specularmente, non puo’ non ravvisarsi nell’ipotesi in cui, in assenza dei presupposti di legge, venga revocata una sentenza di condanna disciplinare a carico di un magistrato della Repubblica (o di soggetto che tale funzione ha rivestito).

2. Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del combinato disposto del R.D.L. n. 511 del 1946, art. 31, comma 1, D.P.R. n. 3 del 1957, art. 118 e L. n. 424 del 1966, art. 1 in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), il ricorrente, rilevato che la cessazione dal servizio del magistrato per collocamento a riposo ovvero per altra causa di cessazione contemplata dalla legge comporta l’esaurimento del potere disciplinare e la conseguente estinzione del relativo procedimento, sostiene che, per effetto della cessazione dell’appartenenza del dottor I. all’ordine giudiziario intervenuta anteriormente alla decisione sulla istanza di revisione, non era piu’ configurabile un interesse giuridico delle parti (neppure morale) alla definizione del procedimento disciplinare.

La censura e’ infondata.

Il principio richiamato dal ricorrente si riferisce ad un procedimento disciplinare ancora non definito con sentenza irrevocabile, rispetto al quale l’avvenuta cessazione dell’incolpato dal servizio fa indubbiamente venire meno l’interesse di entrambe le parti alla prosecuzione.

Nella specie e’ invece in discussione l’interesse del magistrato gia’ condannato in sede disciplinare con sentenza irrevocabile (nonche’ del Ministro della Giustizia e del P.G. presso la Corte di cassazione) di ottenere, in presenza dei presupposti di legge, la rimozione della sentenza irrevocabile di condanna da parte del giudice che l’ha emessa.

In proposito vale la pena di richiamare il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25, comma 3, prevedente che “la revisione puo’ essere chiesta dal magistrato al quale e’ stata applicata la sanzione disciplinare o, in caso di morte o di sopravvenuta incapacita’ di questi, da un suo prossimo congiunto che vi abbia interesse anche soltanto morale”, disposizione che, nei termini sopra riportati, riconosce la rilevanza di un interesse “anche soltanto morale” alla presentazione dell’istanza di revisione ed alla prosecuzione del relativo giudizio in capo ai prossimi congiunti del magistrato condannato che sia deceduto o divenuto incapace, e quindi, a fortiori, in capo al medesimo magistrato che sia vivente e capace, ancorche’ cessato dal servizio.

3. Col secondo motivo, deducendo inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis e art. 25, comma 1, lett. b) in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e art. 637 c.p.p., comma 3, il ricorrente afferma che nella specie difetterebbe il requisito della novita’ degli elementi di prova posti a sostegno del giudizio di revisione e della sentenza di assoluzione nei confronti del dottor I..

La censura e’ infondata.

Secondo la giurisprudenza di queste sezioni unite (v. tra le altre s.u. n. 12613 del 2012) la revisione e’ ammissibile solo in presenza di elementi di prova nuovi e tali da incidere su circostanze rilevanti e non marginali, mentre e’ preclusa la mera rivalutazione dei fatti gia’ esaminati nonche’ della fondatezza giuridica delle ragioni e delle conclusioni della pronuncia impugnata.

La novita’ suddetta (nonche’ la relativa mancanza) vanno valutate con riferimento alla sentenza della quale si chiede la revisione e, trattandosi di valutazione suscettibile di determinare l’ammissibilita’ o meno di un mezzo di impugnazione straordinario idoneo a rimuovere un giudicato, le censure avverso la decisione della sezione disciplinare in proposito vanno valutate con estremo rigore.

Tanto premesso, nella specie gli elementi addotti dal ricorrente non risultano idonei (per collocazione temporale nonche’ precisione e specificita’) a rimettere in discussione la decisione di ammissibilita’ (con riguardo al profilo di novita’ normativamente richiesto) della proposta impugnazione, essendosi in ricorso fatto riferimento in parte ad atti successivi alla sentenza oggetto di revisione ed in parte ad accenni generici all’archivio G. ed alla sua “mostruosita’” contenuti nella sentenza disciplinare di condanna, senza fornire elementi precisi dai quali emerga chiaramente che i giudici che hanno pronunciato sulla sentenza oggetto di revisione fossero gia’ a conoscenza del fatto che l’archivio G. riguardava intercettazioni relative (anche) ad un considerevole numero di parlamentari disposte senza la preventiva autorizzazione della Camera di riferimento, fermo restando che l’inadeguatezza del motivo in esame a porre in discussione la novita’ degli elementi portati a conoscenza del giudice adito in revisione non esclude l’eventuale “irrilevanza” (sotto diversi possibili profili) degli elementi di prova suddetti ai fini della richiesta revisione.

4. Col terzo motivo, deducendo mancanza, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il ricorrente evidenzia che, anche ove si ritenesse l’emersione di elementi nuovi idonei a legittimare la revisione, nella specie la pronuncia assolutoria non deriverebbe dalla convergenza o divergenza dei suddetti nuovi elementi col materiale gia’ acquisito e delibato nella sua consistenza dimostrativa dell’illecito contestato, avendo il giudice della revisione solo apparentemente bilanciato tra loro criticamente il “novum” desunto dalla sentenza del Tribunale di Roma acquisita agli atti del procedimento disciplinare e gli elementi di prova gia’ valutati e posti a base della sentenza disciplinare divenuta irrevocabile.

Il motivo e’ fondato nei termini di seguito esposti.

A norma del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25, “e’ ammessa, in ogni tempo, la revisione delle sentenze divenute irrevocabili, con le quali e’ stata applicata una sanzione disciplinare, quando: a) i fatti posti a fondamento della sentenza risultano incompatibili con quelli accertati in una sentenza penale irrevocabile ovvero in una sentenza di non luogo a procedere non piu’ soggetta ad impugnazione; b) sono sopravvenuti o si scoprono, dopo la decisione, nuovi elementi di prova, che, soli o uniti a quelli gia’ esaminati nel procedimento disciplinare, dimostrano l’insussistenza dell’illecito; c) il giudizio di responsabilita’ e l’applicazione della relativa sanzione sono stati determinati da falsita’ ovvero da altro reato accertato con sentenza irrevocabile”.

Dal testo normativo che precede risulta evidente che nella prima e nella terza ipotesi -facendosi riferimento a sentenze penali irrevocabili o comunque a provvedimenti non piu’ impugnabili che hanno accertato (nel primo caso) fatti incompatibili con quelli posti a fondamento della sentenza oggetto di revisione e (nel terzo) falsita’ ovvero altri reati determinanti il giudizio di responsabilita’ disciplinare e l’applicazione della relativa sanzione- al giudice adito in revisione e’ richiesto soltanto di accertare l’intervento di una sentenza irrevocabile avente il contenuto indicato nelle disposizioni sopra riportate.

Nella ipotesi di cui alla lettera b), alla quale si e’ fatto riferimento nella specie, non e’ invece sufficiente che il giudice accerti la sopravvenienza (o la scoperta) di elementi di prova nuovi, ma e’ necessario che ne verifichi la specifica rilevanza attraverso la valutazione dei suddetti nuovi elementi nel quadro probatorio gia’ valutato per accertare se essi, da soli o unitamente a quelli gia’ esaminati, siano idonei a dimostrare l’insussistenza dell’illecito.

A tale scopo e’ quindi logicamente necessario che il suddetto giudice si confronti innanzitutto col contenuto della sentenza della quale si chiede la revisione, per verificare se la sopravvenienza del fatto nuovo risulti rilevante alla stregua del quadro istruttorio e dell’impianto decisorio di tale sentenza.

Nella specie i giudici della revisione si sono invece limitati a riportare gli accadimenti oggettivi che hanno preceduto la condanna disciplinare del dottor I. ed i nuovi elementi di prova emersi dalla sentenza del Tribunale di Roma, aggiungendo che alla luce della sopravvenuta conoscenza della illiceita’ (di parte) della documentazione oggetto del doppio sequestro (ad opera della Procura di Salerno prima e della Procura Generale di Catanzaro poi) il comportamento contestato al dottor I. andava riconsiderato in termini di scarsa rilevanza, non essendo dal provvedimento di sequestro operato dagli inquirenti di Catanzaro derivato un pregiudizio con riferimento alla effettiva lesione del bene tutelato dalla norma di legge violata.

I suddetti giudici hanno pertanto completamente omesso di considerare il contenuto della sentenza oggetto di revisione e di confrontarsi con essa, valutando alla stregua della medesima i nuovi elementi di prova e la relativa rilevanza.

Non e’ inutile a questo proposito evidenziare che nella sentenza oggetto di revisione si era chiaramente affermato che l’eventuale riprovevolezza dei comportamenti tenuti da altri soggetti non poteva in alcun modo escludere l’illiceita’ del comportamento dei magistrati catanzaresi, consistente in una violazione dell’obbligo di astensione ed in una illegittima interferenza nel processo condotto da altri giudici risolventisi nell’abnormita’ deontologica di avere i suddetti magistrati, da indagati, esercitato l’azione penale nei confronti dei propri inquirenti.

In particolare i giudici disciplinari hanno precisato che giustificare in qualunque modo l’iniziativa dei magistrati di Catanzaro “significherebbe innanzitutto ammettere nella materia processuale, in quella dei conflitti di competenza e, piu’ in generale, dei possibili conflitti fra istituzioni inquirenti, la legittimita’ del ricorso ad una sorta di legittima difesa da parte di quel magistrato che sentisse l’altrui iniziativa come fortemente illegittima”.

Manca pertanto nella motivazione della sentenza di revisione qualunque valutazione della rilevanza dei nuovi elementi di prova alla luce della motivazione della sentenza oggetto di revisione e, ancor prima, una anche minima considerazione delle ragioni determinanti la condanna disciplinare, essendo in proposito appena il caso di sottolineare che, secondo la giurisprudenza di queste sezioni unite, la revisione delle sentenze della sezione disciplinare del C.S.M. e’ ammissibile solo in presenza di elementi di prova nuovi e tali da incidere su circostanze rilevanti e non marginali, mentre e’ preclusa la mera rivalutazione dei fatti gia’ esaminati, nonche’ della fondatezza giuridica delle ragioni e delle conclusioni della pronuncia impugnata (v. tra le altre s.u. n. 12613 del 2012 cit.).

In particolare, pur essendo emerso con chiarezza, per quanto sopra esposto, dalla sentenza soggetta a revisione che la condanna disciplinare dipese dalla ritenuta abnormita’ del modo in cui gli incolpati esercitarono le proprie funzioni istituzionali, senza che la valutazione del comportamento di altri soggetti potesse ritenersi influente sulla accertata responsabilita’, nella sentenza impugnata in questa sede non emerge tuttavia che i giudici aditi in revisione abbiano evidenziato alcun collegamento logico tra le ragioni poste a base della condanna disciplinare e l’eventuale illiceita’ degli atti oggetto del doppio sequestro.

In proposito, e’ appena il caso di evidenziare che, ove si ritenesse di poter totalmente prescindere dal parametro di riferimento rappresentato dalla sentenza oggetto di revisione dando rilievo ad elementi che, ancorche’ nuovi, non risultano logicamente rilevanti nell’impianto logico che sostiene quella sentenza, si finirebbe per consentire al giudice della revisione di rinnovare completamente le valutazioni espresse nella sentenza oggetto di revisione, consentendogli di rimettere in discussione, ben oltre i limiti consentiti dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25, una decisione ormai irrevocabile, senza considerare che, come sopra evidenziato, la giurisprudenza di queste sezioni unite ha chiaramente affermato che in sede di revisione e’ preclusa non solo la mera rivalutazione dei fatti gia’ esaminati, ma anche la rivalutazione della fondatezza giuridica delle ragioni e delle conclusioni della pronuncia impugnata (v. s.u. n. 6826 del 2014 e n. 12613 del 2012 cit.).

Col quarto motivo, deducendo inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 238 e 238 bis c.p.p. in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 4 ed ai sensi dell’art. 606 c.p.c., comma 1, lett. b), il ricorrente si duole del fatto che la sezione disciplinare del C.S.M. abbia valorizzato l’accertamento contenuto in una sentenza non passata in giudicato (cioe’ l’intervenuta illecita acquisizione di dati telefonici di parlamentari in assenza della preventiva autorizzazione) utilizzando la suddetta sentenza come “veicolo riproduttivo” di un elemento di prova che invece non ha trovato ingresso nel giudizio di revisione (non risultando acquisito ne’ il verbale dell’incidente probatorio ne’ il verbale del dibattimento).

La censura e’ infondata.

Premesso che nella specie, come affermato nella sentenza impugnata, si fa riferimento all’ipotesi di revisione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25, lett. b), che ne prevede l’ammissibilita’ quando “sono sopravvenuti o si scoprono, dopo la decisione, nuovi elementi di prova, che, soli o uniti a quelli gia’ esaminati nel procedimento disciplinare, dimostrano l’insussistenza dell’illecito”, e che pertanto non e’ richiesto, a differenza delle ipotesi di revisione disciplinate dalle lettere a) e c) del medesimo articolo, un accertamento risultante da sentenza irrevocabile, e’ da evidenziare che la disposizione di cui alla citata lettera b) non fa espresso riferimento allo “strumento” dal quale i nuovi elementi di prova devono emergere e attraverso il quale possono essere portati a conoscenza del giudice adito in revocazione. E’ pertanto da escludere che siano ipotizzabili a priori preclusioni in proposito, tranne quelle derivanti dalla specifica e dimostrata inidoneita’ dello strumento in concreto adottato.

Nella specie, trattandosi di dati di fatto oggettivi (esistenza -negli atti del processo pendente presso la procura di Catanzaro, poi avocato alla Procura Generale della medesima citta’, quindi sequestrato dai giudici di Salerno e nuovamente “sequestrato” dai giudici della suddetta Procura Generale- di intercettazioni a parlamentari in assenza di preventiva autorizzazione delle Camere di appartenenza) dei quali la sentenza citata da’ conto anche con riferimento alle relative fonti probatorie dirette, puo’ ritenersi che la medesima sentenza rappresentati in concreto un idoneo strumento di conoscenza dei “nuovi elementi di prova”.

Col quinto motivo, deducendo inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 3 bis e 25, nonche’ mancanza, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), il ricorrente, premesso che i fatti illeciti ascritti al dottor I. e da questo pacificamente ammessi sono stati, con valutazione ex post, ritenuti di scarsa rilevanza ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis in quanto la gravita’ del comportamento contestato al magistrato non si poneva in contraddizione “con una scarsa rilevanza del fatto dal punto di vista della lesione del bene giuridico”, si duole del fatto che i giudici della revisione abbiano finito per sovrapporre l’esimente di cui al citato art. 3 bis al presupposto della revisione. In particolare, il Ministero ricorrente evidenzia che nella sentenza impugnata non si pone in discussione l’esistenza della condotta sanzionabile ma semplicemente ci si limita a ritenerla scarsamente rilevante quanto agli effetti sul bene giuridico protetto, senza considerare che i provvedimenti adottati nelle varie fasi del procedimento disciplinare hanno sempre individuato il disvalore della condotta attribuita al dottor I. nell’abnormita’ della reazione rispetto al comportamento dei magistrati della Procura della Repubblica di Salerno -restando irrilevante che questi ultimi o altri soggetti possano aver posto in essere condotte altrettanto cariche di disvalore-, abnormita’ che invece nella sentenza impugnata non viene in alcun modo esaminata.

La censura e’ fondata nei limiti di cui in prosieguo.

Occorre previamente evidenziare che, a norma del secondo comma del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25, “gli elementi in base ai quali si chiede la revisione debbono, a pena di inammissibilita’ della domanda, essere tali da dimostrare che, se accertati, debba essere escluso l’addebito o debba essere applicata una sanzione diversa….” e, a norma dell’art. 3 bis D.Lgs. cit., “l’illecito disciplinare non e’ configurabile quando il fatto e’ di scarsa rilevanza”. Ne consegue che, alla stregua del quadro normativo sopra riportato, deve ritenersi ammissibile una revisione che sia finalizzata alla (o comunque che si concluda con la) assoluzione in ragione della esimente di cui all’art. 3 bis citato, posto che quest’ultima norma prevede una scriminante che -non dissimilmente dalle cause di giustificazione nel processo penale- esclude la configurabilita’ dell’illecito (e quindi l’addebito), a prescindere dalla sussistenza della materialita’ del medesimo.

Deve altresi’ evidenziarsi che, secondo la giurisprudenza di queste sezioni unite, la previsione di cui al citato art. 3 bis -sia per il suo tenore letterale che per la sua collocazione sistematica- e’ applicabile a tutte le ipotesi illecito disciplinare (quindi anche agli illeciti per i quali la gravita’ del comportamento e’ elemento costitutivo del fatto tipico) quando il fatto risulta realizzato ma, per particolari circostanze anche non riferibili all’incolpato, non e’ in concreto idoneo a ledere il bene giuridico tutelato, secondo una valutazione che costituisce compito esclusivo della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, soggetta a sindacato di legittimita’ soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico (v. s.u. nn. 7934 del 2013 e 6327 del 2012).

Tanto premesso, e’ nella specie necessario sottolineare che i giudici della revisione si sono limitati ad affermare che l’elemento di prova nuovo (costituito dalla presenza, nella documentazione sequestrata, di una notevole quantita’ di dati sensibili acquisiti illecitamente) consente di affermare che dal provvedimento di sequestro operato dagli inquirenti di Catanzaro “non e’ derivato un pregiudizio rispetto alla effettiva lesione del bene tutelato dalla norma di legge violata”. Tuttavia i suddetti giudici non hanno indicato ne’ quale sia la norma di legge violata ne’ quale sia il bene giuridico protetto da tale norma e tanto meno hanno indicato in quale modo e perche’, in relazione al suddetto elemento di prova nuovo, possa ritenersi che il bene giuridico tutelato (quale esso sia) non risulti effettivamente leso dal comportamento contestato al dottor I..

Se poi si ritenesse di prendere in considerazione, ai fini della motivazione della ritenuta sussistenza della scriminate in esame, gli argomenti dedotti, apparentemente ad abundantiam, dai giudici della revisione (in particolare laddove essi hanno sottolineato che, a seguito del sequestro suddetto -che aveva permesso di recuperare il fascicolo in originale- era stato possibile giungere ad una pronta definizione del procedimento “Why not”, ad una pronta trasmissione della banca dati alla Procura della Repubblica di Roma -ufficio giudiziario competente ad indagare sulla eventuale illiceita’ delle procedure di acquisizione dei dati sensibili-nonche’ a consentire l’acquisizione da parte del Copasir di tali dati e l’apposizione sugli stessi del segreto di Stato), la motivazione risulterebbe nondimeno assolutamente insufficiente ed in ogni caso illogica. Cio’ in quanto non risulta in alcun modo specificato perche’ le circostanze suddette dovrebbero escludere la lesione del bene giuridico tutelato dalla norma di legge violata ne’, ancor prima, quale sia da ritenersi il “bene giuridico tutelato”. Inoltre la sentenza sembra illogicamente e comunque immotivatamente presupporre che fosse da escludere l’esistenza nel sistema di alcun altro strumento giuridico idoneo a conseguire i risultati sopra evidenziati senza ricorrere ad un provvedimento abnorme, e soprattutto che la Procura generale di Catanzaro per raggiungere i suddetti risultati (sollecita definizione del procedimento, invio della banca dati alla Procura di Roma e al Copasir) aveva dovuto attendere il sequestro disposto dalla Procura di Salerno e intervenire dopo di esso con un provvedimento abnorme, pur essendo il processo “Why not” gia’ pendente, a seguito di avocazione, presso la medesima Procura Generale di Catanzaro quando, come risulta dalla sentenza oggetto di revisione, i magistrati di Salerno chiesero per la prima volta copia dei relativi atti, e da quel momento (2 febbraio 2008) alla data di esecuzione del sequestro (2 dicembre 2008) erano trascorsi ben dieci mesi.

Dall’argomentare che precede discende l’accoglimento, nei termini e nei limiti sopra esposti, del terzo e del quinto motivo di ricorso ed il rigetto degli altri. La sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla sezione disciplinare in diversa composizione.

Considerato l’accoglimento solo parziale del ricorso si ritiene che sussistano giusti motivi per disporre la compensazione delle spese.

PQM

La Corte a sezioni unite accoglie nei termini di cui in motivazione i motivi terzo e quinto, respinti gli altri. Cassa la decisine impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla sezione disciplinare in diversa composizione. Compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2016

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