Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15277 del 12/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/07/2011, (ud. 25/05/2011, dep. 12/07/2011), n.15277

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17323-2009 proposto da:

V.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO

CESARE 61, presso lo studio dell’avvocato DRISALDI LUCIANO, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA N. 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati MARITATO LELIO,

SGROI ANTONINO, CALIULO LUIGI, giusta delega in calce alla copia

notificata del ricorso;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 2242/2 008 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/10/2008 R.G.N. 3654/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/05/2011 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato DRISALDI LUCIANO;

udito l’Avvocato D’ALOISIO CARLA per delega SGROI ANTONINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

V.S., avendo lavorato alle dipendenze dei fratelli M. dal febbraio 1978 al 19 ottobre 1993, data in cui era stato licenziato verbalmente, presentò all’Inps denunzia di omissione contributiva ed impugnò il licenziamento; l’Inps regolarizzò la sua posizione assicurativa e contributiva inizialmente sino al 19 ottobre 1993, poi fino al 4 ottobre 1995 ed infine sino al 26 maggio 1996 il licenziamento fu dichiarato inefficace con sentenza del 15 marzo 1996, passata in giudicato, contenente anche ordine di reintegra nel posto di lavoro e condanna dei datori di lavoro al pagamento dell’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla effettiva reintegrazione, nonchè al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dello stesso periodo, li lavoratore, non reintegrato, convenne in giudizio l’Inps per ottenere l’ulteriore regolarizzazione della sua posizione sino al 30 aprile 1997, data in cui avrebbe maturato i requisiti del diritto alla pensione di anzianità.

La domanda fu accolta dal Pretore di Roma con sentenza del 3 ottobre 1998, anch’essa passata in giudicato, alla quale l’Inps diede esecuzione, accreditando contributi per il periodo successivo al 31 ottobre 1993 e sino a 30 aprile 1997 sulla base di una retribuzione annua di L. 30 milioni.

Il V. contestò la misura della base contributiva utilizzata dall’Inps, convenendo l’Istituto dinanzi al Tribunale di Roma, al quale chiese, in via principale, di accertare il suo diritto all’accredito di contributi per il periodo considerato in relazione ad una retribuzione annua di L. 62.624.000 o, in via subordinata, di L. 45.088.000. Argomentò la prima richiesta sulla premessa che l’Inps aveva accertato la sua prestazione di attività lavorativa nel periodo fra il 1985 e il 1989 e poi nel periodo da 1 maggio 1993 alla data del licenziamento presso la Gruppo M5 srl e che la retribuzione corrisposta da detta Società ne 1989 ammontava appunto, come accertato dall’Inps, a L. 62.624.000.

A sostegno della seconda richiesta osservò che l’Inps aveva determinato in L. 21.677.000 la retribuzione degli ultimi sei mesi di lavoro, durante i quali egli aveva ripreso a lavorare alle dipendenze della medesima società.

Il Tribunale rigettò la domanda, affermando che a richiesta del ricorrente di vedersi accreditati, per il periodo successivo 30 ottobre 1993, i contributi sulla base delle retribuzioni annuali precedenti non poteva essere accolta, perchè non suffragata da alcun riscontro probatorio sull’ammontare di dette retribuzioni. La Corte d’Appello di Roma confermò la statuizione del Giudice di primo grado, sulla base di una motivazione diversa; osservò infatti, quanto alla domanda principale, che risultava evidente che la retribuzione accreditata fino a licenziamento del 19 ottobre 1993, era pari a L. 62.624.000, mentre per gli anni successivi, fino al 30 aprile 1997, la retribuzione pensionabile era inferiore, atteso che in quegli anni non risultavano compensi per lavoro straordinario, riposi settimana riposati ecc.; quanto alla domanda subordinata, la Corte territoriale osservò che la pretesa de V. si fondava sul presupposto di fatto di aver lavorato, dopo il licenziamento de 19 ottobre 1993, presso altro datore di lavoro e, quindi, contrastava in modo evidente con quanto dedotto nel ricorso del 20 maggio 1998 accolto dal Pretore di Roma con la sentenza de 3 ottobre 1998, in cui era stato affermato il diritto del ricorrente alla regolarizzazione della propria posizione contributiva pure per il periodo successivo al 26 maggio 1996 e fino a 30 aprile 1997, data sino alla quale, secondo le testuali affermazioni del ricorso, “non risulta intervenuta nè la reintegra nè altra causa di risoluzione del rapporto ricostituito ex tunc in forza della pronuncia del 15 marzo 1996”. Avverso tale sentenza il V. propose ricorso per Cassazione, addebitando alla Corte territoriale di non aver considerato che l’indennità dovuta per il ritardo nella reintegrazione in seguito a sentenza dichiarativa dell’inefficacia o invalidità del licenziamento aveva la funzione di una misura di coercizione indiretta e non era computata con i criteri di cui all’art. 2121 c.c., ma tenendo conto della retribuzione globale di fatto, ossia con la specifica retribuzione che il lavoratore avrebbe globalmente e concretamente percepito se avesse lavorato, comprensiva quindi di ogni indennità accessoria, ancorchè connessa a particolari modalità di espletamento della prestazione lavorativa, quali l’indennità di presenza, l’indennità di turno, i compenso per lavoro straordinario; pertanto la Corte di merito, avendo accertato e dichiarato che a retribuzione globale di fatto accreditata fino a licenziamento dei 19 ottobre 1993 era pari a L. 62.624,000, non avrebbe potuto ritenere inferiore a tale cifra la retribuzione pensionabile e, comunque, avrebbe dovuto determinare esattamente l’importo della retribuzione dovuta detratti i compensi ritenuti non computabili; quanto alla domanda subordinata, dedusse che la stessa Corte era incorsa in un errore vistoso e incomprensibile, perchè, senza che nessuna delle parti in causa avesse mai dedotto la circostanza, peraltro infondata, aveva ritenuto che la domanda subordinata trovasse il suo presupposto di fatto in un successivo rapporto di lavoro dopo il licenziamento con altro datore di lavoro.

Questa Corte, con sentenza n. 2246/2006, accolse il ricorso, osservando che, come affermato con il precedente di legittimità n. 10307/2002, in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento e di mancata ottemperanza, da parte del datore di lavoro, all’ordine di reintegrazione nei posto di lavoro, le retribuzioni dovute a lavoratore ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 2, nel testo anteriore all’entrata in vigore della L. 11 maggio 1990, n. 108, come in seguito alla novella, devono essere liquidate comprendendo nel relativo parametro di computo non soltanto la retribuzione base, ma anche ogni compenso di carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento, con esclusione, quindi, dei soli emolumenti eventuali, occasionali od eccezionali;

rilevò quindi che la Corte di merito, dopo aver accertato che la retribuzione percepita al momento del licenziamento ammontava a L. 62,624.000, aveva semplicemente desunto dalla mancanza di prestazione lavorativa l’ovvia conseguenza che non potevano esservi state nè prestazioni straordinarie nè compensi per riposi, non indagando, quindi, su quelli che in concreto erano gli emolumenti, non occasionali o eccezionali, ai momento del licenziamento, ma considerando estranee alla base contributiva voci, quali lo straordinario o il compenso delle giornate di riposo, che ben avrebbero potuto ricollegarsi alle concrete caratteristiche del lavoro fino alla data del licenziamento.

Restando assorbiti gli altri profili di doglianza, cassò quindi la sentenza impugnata e rinviò la causa ad altro Giudice “… il quale tenendo conto del principio enunziato dalla cit. sentenza 10307/2002 di questa Corte accerterà, ai fini della regolarizzazione contributiva, la misura della retribuzione al momento del licenziamento del V., accertando quali compensi, avessero carattere continuativo e fossero ricollegabili alle particolari modalità della prestazione in atto al momento de licenziamento, ed escludendo i soli emolumenti eventuali, occasionali od eccezionali”.

La Corte d’Appello di Roma, quale giudice di rinvio, con sentenza del 14.3 – 20.10. 2008, in parziale accoglimento dell’appello e in riforma della sentenza appellata, dichiarò l’obbligo dell’Inps di regolarizzare la posizione contributiva del V. per il periodo da 1.11.1993 al 30.4.1997, sulla base di una retribuzione annua di Euro 19.488,15 (pari a L. 37.734.326), condannando l’Istituto all’effettuazione dei necessari adempimenti e alla corresponsione della pensione di anzianità, con decorrenza dal 1.5.1997, sulla base della nuova posizione contributiva, oltre agli interessi legali sulle conseguenti differenze di ratei. A sostegno del decisum a Corte territoriale osservò quanto segue:

– doveva ritenersi che il riconosciuto compenso per lavoro straordinario, desumibile dall’orario settimanale osservato dal V. e dalla notevole somma indicata per il 1993, avesse avuto carattere continuativo e non occasionale, così come la prestazione lavorativa nei giorni di riposo ed il mancato godimento dei permessi e della ex festività, pure aventi carattere di regolarità e non eccezionalità, con conseguente diritto alla relativa indennità sostitutiva;

– tuttavia, dal ricorso introduttivo de giudizio e dal conteggio allegato, invocato dal ricorrente in riassunzione, emergeva che la retribuzione mensile ivi indicata era di L. 2.000.000 mensili per 14 mensilità; che i compenso per lavoro straordinario era stato quantificato nel 1993 in L. 5.161.310 (in misura lievemente inferiore a quella dell’anno precedente); che la maggiorazione per il lavoro effettuato nelle giornate di riposo era stata indicata per il 1993 nella somma complessiva di L. 3.700.000 (nulla essendo indicato per l’anno 1992); che la indennità per i permessi individuali ex festività era stata quantificata in L. 873.016 (di poco inferiore all’anno 1992); cosicchè si poteva fondatamente ritenere che, nella pur parziale variabilità dell’ammontare complessivo annuale dei citati compensi continuativi e non occasionai, la retribuzione globale di fatto annuale percepita dai V. prima del licenziamento andasse quantificata in complessive L. 37.734.326 (pari ad Euro 19.488,15), misura complessivamente superiore a quella percepita nel 1992 (sulla base degli stessi compensi), e non in L. 62.624.000, come chiesto in via principale dal ricorrente sulla base della retribuzione indicata nell’estratto contributivo Inps come percepita per l’anno 1989, ossia quattro anni prima del licenziamento;

– non rilevava l’affermazione contenuta incidenter tantum a riguardo nella sentenza di secondo grado interamente cassata dalla Suprema Corte, la quale non aveva posto alcun vincolo all’accertamento di fatto demandato ai giudice di rinvio sulla natura ed ammontare dei compensi percepiti dai V. al momento del licenziamento aventi carattere continuativo, non occasionale o eccezionale;

– “del resto”, l’importo di L. 37.734.326 era pari alla somma complessiva della retribuzione globale del 1993 riconosciuta dallo stesso l’Inps nell’estratto conto emesso il 16.02.1999, avendo evidentemente l’Istituto ridotto erroneamente la retribuzione contributiva solo per gli anni successivi, nei quali era mancata la prestazione lavorativa.

Avverso l’anzidetta sentenza resa in sede di rinvio, V. S. ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi.

L’intimato Inps ha depositato procura, partecipando alla discussione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 384 c.p.c. e art. 1362 e ss c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), assumendo che il Giudice di rinvio avrebbe dovuto (imitarsi ad accertare se le somme corrisposte ad esso ricorrente quale compenso per lavoro straordinario e per giornate di riposo lavorate fossero elementi occasionali o eccezionali, oppure aventi carattere continuativo, fermo restando però l’importo complessivo annuale di L. 62.624.000, quale accertato dalla Corte di merito nella sentenza cassata, e ciò in quanto la sentenza di cassazione vincola il giudice di rinvio non solo in ordine al principio di diritto affermato, ma anche in ordine alle questioni di fatto costituenti presupposto necessario e inderogabile della pronuncia e, in genere, ai necessari elementi di fatto che il principio di diritto affermato presuppone come pacifici o come già accertati definitivamente, anche implicitamente, in sede di merito.

A conclusione del motivo formula il seguente quesito di diritto:

“Dica la Suprema Corte se il Giudice di rinvio può eseguire accertamenti di fatto a di fuori dei criteri in procedendo fissati dalla sentenza di Cassazione con rinvio”.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione ai conteggi effettuati nella sentenza impugnata ai fine della determinazione della retribuzione globale di fatto annuale percepita da esso ricorrente prima del licenziamento; si duole, in particolare, che la Corte territoriale:

1) ne prendere in considerazione il documento da cui ha desunto i dati numerici relativi ai compensi per lavoro straordinario, per permessi e festività e per riposi settimanali lavorati, non abbia tenuto conto che tali dati si riferivano solamente al periodo del 1 gennaio ai 19 ottobre 1993, cosicchè i medesimi avrebbero dovuto essere rapportati, in aumento, su base annua;

2) abbia indicato la somma complessiva della retribuzione globale de 1993 riconosciuta dall’Inps in misura inferiore a quella risultante dalla sommatoria dei dati riportati nell’estratto conto preso in considerazione;

3) non abbia tenuto conto, rapportandolo su base annua, dell’importo indicato in tale estratto conto per il periodo da maggio ad ottobre 1993;

a conclusione dei motivo formula il seguente quesito di diritto:

“Dica la Suprema Corte se risulti errata la determinazione dei presupposti numerici adottata dal Giudice di rinvio per determinare la retribuzione globale di fatto annuale percepita dal V. alla data del licenziamento”.

2. Osserva preliminarmente la Corte che l’art. 366 bis c.p.c. è applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore (2.3.2006) de D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (cfr, D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2) e anteriormente a 4.7.2009 (data di entrata in vigore della L. n. 68 del 2009) e, quindi, anche al presente ricorso, atteso che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 20.10.2008.

In base alla norma suddetta, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, sempre a pena di inammissibilità, la chiara indicazione dei fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per e quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Secondo l’orientamento di questa Corte il principio di diritto previsto dall’art. 366 bis c.p.c., deve consistere in una chiara sintesi iogico-giuridica della questione sottoposta al vaglio de giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 20360/2007), mentre la censura concernente l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve contenere un momento di sintesi (omologo de quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr, explurimis, Cass., SU, n. 20603/2007). In particolare deve considerarsi che il quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis c.p.c., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Suprema Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione de caso specifico e l’enunciazione de principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento de motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regola iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 11535/2008;

19892/2007).

Conseguentemente è inammissibile non solo il ricorso ne quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito, si da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico (cfr, ex piurimis, Cass., SU, 20360/2007, cit.).

2.1 Nel caso che ne occupa il quesito di diritto formulato a conclusione d primo motivo di ricorso è de tutto generico, non contenendo alcuno specifico richiamo alla fattispecie a cui dovrebbe riferirsi nè precisando, in relazione al vizio concretamente denunciato, cosa dovrebbe intendersi per “criteri in procedendo”; in definitiva, quale che fosse la risposta data ai quesito proposto, la stessa non consentirebbe, proprio per la genericità del quesito, di riconoscere la fondatezza o meno della doglianza svolta.

Ne discende l’inammissibilità dei motivo.

2.2 A conclusione de secondo motivo, svolto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il quesito di diritto formulato non costituisce il richiesto momento di sintesi, poichè, pur indicando il fatto controverso, non contiene alcun riferimento specifico agli elementi di giudizio che, isolatamente presi o tra loro collegati, porterebbero a configurare i lamentati vizi motivazionali, risolvendosi, in sostanza, nella mera richiesta alla Corte di accertamento della fondatezza delle censure.

Anche tale motivo deve quindi ritenersi inammissibile.

3. in definitiva va quindi dichiarata l’inammissibilità del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 40,00 (quaranta), oltre ad Euro 1.000,00 (mille) per onorari ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2011

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