Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15275 del 20/06/2017

Cassazione civile, sez. un., 20/06/2017, (ud. 24/01/2017, dep.20/06/2017),  n. 15275

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente aggiunto –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di sez. –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente di sez. –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25740-2015 proposto da:

CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, in persona del Vice

Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA,

LUNGOTEVERE RAFFAELLO SANZIO 9, presso lo studio dell’avvocato

MASSIMO LUCIANI, che lo rappresenta e difende, giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PRINCIPESSA

CLOTILDE 2, presso lo studio dell’avvocato ANGELO CLARIZIA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO LIROSI, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

M.E., MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1686/2015 del CONSIGLIO DI STATO, depositata

il 31/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/01/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;

uditi gli avvocati Massimo LUCIANI e Angelo CLARIZIA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. FUZIO RICCARDO,

che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Nel 2014 con distinti ricorsi, M.E., da una parte, nonchè il Ministero della Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura, dall’altra, proposero appello contro C.A. e avverso la sentenza del T.A.R. Lazio n. 5571 del 26 maggio 2014, resa tra le predette parti e concernente l’esecuzione della sentenza del T.A.R. Lazio n. 4711/2013 – che aveva dato, a sua volta, esecuzione alla sentenza del medesimo T.A.R. n. 32321/10, confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato del 18 aprile 2012 n. 2295, sentenze tutte relative al conferimento dell’incarico di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona – e relativa altresì alle istanze volte alla dichiarazione di nullità o all’annullamento di delibere del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura e della 5^ Commissione del predetto Consiglio, sempre inerenti al conferimento del posto di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1686/015 depositata il 31 marzo 2015, riuniti gli appelli, li rigettò entrambi, compensò integralmente tra le parti le spese di giudizio e ordinò l’esecuzione di quella decisione dall’autorità amministrativa.

Avverso tale sentenza il Consiglio Superiore della Magistratura ha proposto ricorso ex art. 110 cod. proc. amm. e art. 362 c.p.c., fondato su cinque motivi, di cui l’ultimo formulato in via subordinata, e illustrato da memoria.

Ha resistito con controricorso C.A..

Gli intimati M.E. e Ministero della Giustizia non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

La sentenza impugnata dinanzi alle Sezioni Unite di questa Corte si inserisce in una complessa vicenda che può riassumersi come appresso indicato.

In data 16 settembre 2009 il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura conferì a M.E., preferendola ad C.A., l’ufficio di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona, con le relative funzioni direttive requirenti di primo grado.

Il C. impugnò la predetta nomina innanzi al T.A.R. Lazio che accolse il ricorso con sentenza del 14 settembre 2010 n. 32321. Tale sentenza, appellata sia dall’Amministrazione che dalla M., fu confermata dalla sentenza 18 aprile 2012, n. 2295 del Consiglio di Stato.

Dopo la sentenza di appello, il Consiglio Superiore della Magistratura si pronunciò nuovamente sulla nomina del Procuratore della Repubblica di Ancona con provvedimento del 26 luglio 2012, in cui affermò che la motivazione delle predette due sentenze del G.A. non precludeva al medesimo C.S.M. di confermare il giudizio discrezionale favorevole alla M., fondandolo su argomenti diversi.

Dopo il rinnovato conferimento alla M. dell’ufficio in parola, il C. presentò un primo ricorso per l’esecuzione della sentenza n. 32321/10 del T.A.R. Lazio, chiedendo la declaratoria di nullità della nomina e dei provvedimenti ad essa consequenziali, sostenendo che la Delib. 26 luglio 2012 avrebbe palesemente eluso le statuizioni del giudice amministrativo di cui alle pronunce sopra richiamate.

Il T.A.R. accolse il ricorso per l’esecuzione con la sentenza del 10 maggio 2013 n. 4711, rilevando che il nuovo provvedimento si sarebbe sostanzialmente fondato sugli stessi elementi già impiegati nella precedente decisione, diversamente presentati, e che non sarebbero stati rispettati i vincoli imposti dal giudicato, sia per i profili ormai definiti, sia per quelli che avrebbero dovuto essere considerati prima di pervenire alla nuova deliberazione, indicati nelle precedenti decisioni come essenziali per poter preferire la M. al C.. Conclusivamente il T.A.R. così statuì:

“a) dichiara la mancata ottemperanza della decisione T.A.R. Lazio, 1, 14 settembre 2010, n. 32321, confermata dalla sentenza C.d.S., IV, 18 aprile 2012, n. 2295, e, per l’effetto, ne ordina l’adempimento al Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura entro sessanta giorni dalla comunicazione ovvero dalla notificazione della presente decisione;

b) si riserva, in caso di perdurante inottemperanza, di provvedere, su ulteriore impulso di parte, alla nomina di un commissario ad acta, ovvero alla determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o all’emanazione dello stesso in luogo dell’Autorità preposta;

c) dichiara nullo, ex art. 114, comma 4, lett. b), c.p.a., il provvedimento 26 luglio 2012, con cui il Plenum ha nuovamente nominato M.E. nelle funzioni di procuratore della Repubblica di Ancona, che, stante la provvisoria esecutività della presente decisione, ex art. 33 c.p.c., comma 2, ne cessa con effetto dalla pubblicazione della presente sentenza”.

Avverso la sentenza appena richiamata propose appello la sola M.. Tale appello risulta essere stato poi rigettato dal Consiglio di Stato con sentenza n. 1682 del 31 marzo 2015 (v. ricorso C.S.M., p. 6).

Nelle more si aprì una nuova fase del procedimento e del giudizio di ottemperanza 9592/12, in cui era stata emessa la già richiamata sentenza n. 4711/13, in quanto il C., trascorso il termine assegnato con quella decisione, a partire dal 13 giugno 2013, notificò e depositò istanza per la nomina di un commissario ad acta per la nomina, sulla notizia che la V Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, due giorni prima, aveva nuovamente proposto al Plenum di nominare la M. Procuratore della Repubblica di Ancona (istanza ritenuta dal Consiglio di Stato, con la sentenza impugnata in questa sede – v. p. 17 -, inammissibile, sul rilievo che il termine fissato dal giudice non era ancora scaduto, e comunque improcedibile per i successivi sviluppi).

Ed invero il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, in data 17 luglio 2013, deliberò di non impugnare la sentenza n. 4711/13, di ottemperare al giudicato formatosi sulle due precedenti decisioni del G.A., di procedere al “riesame del conferimento dell’ufficio” in questione e di rivalutare, quindi, la posizione dei magistrati interessati, tenendo conto dei fatti di rilievo disciplinare medio tempore intervenuti e riguardanti la posizione del C..

Avverso tale deliberazione il C. presentò un ulteriore atto, notificato a partire dal 3 settembre 2013, recante una nuova istanza per la nomina del commissario ad acta insieme a nuovi motivi aggiunti.

Va pure evidenziato che già il precedente 15 luglio 2013 la 5^ Commissione del C.S.M. aveva riproposto al Plenum il conferimento dell’ufficio alla M. con motivazione depositata il 5 settembre 2013 e il 18 settembre 2014 il Plenum riconfermò la M..

In particolare, nella motivazione della proposta si ribadì che, pur dopo la dichiarazione di nullità del provvedimento del 26 luglio 2012, vi era spazio “per una nuova attività amministrativa che, nel rispetto dei principi giuridici ivi affermati e che hanno portato a rilevare i motivi di illegittimità dell’atto… provveda nuovamente ad esercitare il potere di individuare il magistrato più idoneo ad essere nominato Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona, mediante rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice avendo presenti le illegittimità rilevate dalla sentenza in punto di carenza di motivazione ed illogicità della scelta”, e che tali affermazioni erano ancor più valide “allorchè, come nella fattispecie, siano intervenuti fatti e circostanze nuov(i)”, costituiti: a) dalle vicende che avevano coinvolto il C., “nelle more del rinnovo della presente procedura destinatario di un provvedimento disciplinare emanato dalla Sezione Disciplinare del CSM che, con ordinanza n. 12 del 17 maggio 2012, lo (aveva) trasferito di sede, di ufficio e di funzione al Tribunale di Tivoli, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 13 e 22 in accoglimento delle richieste del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione”, formulate quando quest’ultimo aveva promosso azione disciplinare a carico del C. per tre incolpazioni; b) l’avvenuta iscrizione del C. nel registro degli indagati presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria “per i reati di falso in atto pubblico e truffa ai danni dello Stato per avere formato ed attestato dichiarazioni non corrispondenti al vero in relazione al numero di ore di insegnamento da lui effettuate nell’espletamento dell’incarico di docenza assunto, negli anni accademici 2006-2007 e 2009-2010, presso l’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria”.

Quindi la 5^ Commissione, ritenuto che la dott.ssa M. “si pone(va) almeno in una posizione di equivalenza rispetto al dott. C. in un giudizio complessivo di tipo attitudinale specifico fondato sugli indicatori oggettivi con successiva preferenza, su quest’ultimo, per la maggiore anzianità”, tuttavia, riesaminati i profili dei due candidati anche in relazione ai risultati “dell’attività espletata nell’ambito delle funzioni di coordinamento nazionale e alla luce dei (in quella proposta) citati elementi sopravvenuti a carico della posizione del dott. C.” (reiterata e grave inosservanza delle norme regolamentari e delle disposizioni sul servizio giudiziario proprio della Direzione Nazionale antimafia da parte del C., pacifica sua frequentazione con L.G.L., percepito dalla collettività come appartenente alla criminalità organizzata, contestazione al C. di reati, non connessi alla sua funzione giudiziaria e posti in essere con riferimento allo svolgimento del suo incarico di docenza universitaria) concluse che tali elementi sopravvenuti erano “dirimenti nella scelta del candidato più idoneo ad assumere le funzioni di Procuratore della Repubblica di Ancona”.

Avverso la proposta della Commissione e la deliberazione del Plenum del 18 settembre 2013 che l’aveva accolta nonchè nuovamente avverso la deliberazione del Plenum 17 luglio 2013 (che aveva stabilito di considerare i fatti di rilievo disciplinare medio tempore intervenuti riguardanti il C.) furono proposti ulteriori motivi aggiunti.

Si costituirono in giudizio la M., il Ministero della Giustizia e il C.S.M..

Il ricorso venne deciso con la sentenza n. 5571 del 26 maggio 2014, con la quale l’adito T.A.R., soffermandosi sulla questione principale dell’elusione del giudicato, riteneva fondate le censure proposte e accoglieva il ricorso per ottemperanza e per l’effetto:

1) dichiarava nulli e comunque inefficaci: a) la deliberazione 18 settembre 2013 del Plenum del C.S.M. con cui era stato conferito nuovamente alla M. l’ufficio di Procuratore della Repubblica di Ancona, b) le presupposte Delib. 15 luglio 2013 della 5^ Commissione e del Delib. 17 luglio del Plenum del C.S.M.; c) il decreto del Ministro della Giustizia, con cui era stato adottato in conformità della deliberazione sub a) il provvedimento di nomina della dott.ssa M.; 2) disponeva e comunque accertava che, dal giorno seguente alla data di pubblicazione di quella decisione, la M. cessava dalle funzioni e dall’ufficio di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona; 3) nominava un commissario ad acta nei termini e nelle forme specificate nella motivazione di quella sentenza, affinchè rinnovasse la scelta del Procuratore della Repubblica di Ancona in luogo e con i poteri del Consiglio Superiore della Magistratura.

Come già sopra riportato, avverso la sentenza n. 5571/14 propose impugnazione la M. che contestò le statuizioni del primo giudice, evidenziando l’errata ricostruzione in fatto e in diritto operata da quel Giudice, e ripropose le proprie difese.

Nel giudizio di appello si costituirono il Ministero della Giustizia e il C.S.M. in via adesiva alla posizione dell’appellante, nonchè il C. chiedendo, invece, la declaratoria di inammissibilità ovvero, in via gradata, il rigetto del ricorso.

La stessa sentenza fu impugnata anche dal Ministero della Giustizia e dal C.S.M. e il C. si costituì resistendo all’appello proposto.

Si è già pure evidenziato che il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1686/2015, depositata il 31 marzo 2015, riuniti gli appelli, li rigettò, compensò integralmente tra le parti le spese di giudizio e ordinò l’esecuzione di quella decisione dall’autorità amministrativa.

Avverso tale sentenza il C.S.M. ha proposto ricorso ex art. 110 cod. proc. amm. e art. 362 c.p.c., illustrato da memoria; ha resistito con controricorso C.A. mentre gli intimati M.E. e Ministero della Giustizia non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Per completezza si evidenzia che, come rappresentato dal C.S.M., (v. p. 7-8 del ricorso), con sentenza del 1 luglio 2015, n. 11080, il T.A.R. Lazio si è pronunciato sull’ottemperanza delle sentenze nn. 4711 del 2013 e 32321 del 2010 dando conto del sopravvenuto D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 2, comma 4 che ha modificato la L. n. 195 del 1958, art. 17, comma 2. Tale novella è stata ritenuta di immediata applicazione da quel Giudice, il quale ha affermato che, “pur essendo… (nel caso all’esame di quel Giudice) la nomina del Commissario ad acta antecedente alla sua entrata in vigore”, l’incarico di tale commissario “è cessato al momento dell’entrata in vigore della sopraindicata disposizione normativa senza che il relativo mandato fosse stato adempiuto”, ha ritenuto “la persistente esistenza ed efficacia delle due sopraindicate sentenze” di quel T.A.R., “che all’epoca dell’entrata in vigore della nuova disciplina normativa erano ormai definitive e passate in giudicato a seguito dell’indicata conferma in appello, ed alle quali il C.S.M. dovrà quindi conformarsi entro il termine assegnato con la presente sentenza ai sensi della nuova normativa”, ha considerato che “in sede di riesercizio del proprio potere a seguito di annullamento giurisdizionale dell’atto impugnato l’Amministrazione riacquista la propria discrezionalità con il solo limite dell’impossibilità di riprodurre i medesimi vizi già oggetto del decisum” e ha affermato che il C.S.M. “dovrà… adempiere all’ordine, contenuto nelle indicate sentenze, di procedere alla integrale rinnovazione della procedura di selezione comparativa, previa convocazione delle parti e curando la pienezza della partecipazione e del contraddittorio nei rapporti fra di esse e con l’Amministrazione”. In particolare, con la già richiamata sentenza n. 11080 del 2015, il T.A.R. Lazio ha pure precisato che l’Amministrazione è tenuta “nella propria discrezionalità, non solo a determinarsi secondo i limiti imposti dalla rilevanza sostanziale della posizione soggettiva azionata e consolidata in sentenza, ma anche a prendere in esame la situazione controversa nella sua complessiva estensione, valutando non solo i profili oggetto della decisione del giudice, ma pure quelli comunque rilevanti, ancorchè sopravvenuti, ai fini della complessiva rivalutazione della posizione dei diversi candidati quanto alla loro idoneità all’incarico alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento dei pubblici uffici di cui all’art. 97 Cost., per provvedere definitivamente sull’oggetto della pretesa evitando ogni possibile elusione del giudicato e curando la efficacia sostanziale della tutela giurisdizionale accordata mediante I scelta del soggetto più meritevole in sede di rinnovazione dello scrutinio comparativo”.

Tale sentenza è stata impugnata dal C. e sospesa in sede cautelare con ordinanza del Consiglio di Stato 22 settembre 2015, n. 4301.

Nelle more del giudizio, queste Sezioni Unite, con sentenza n. 24825/15 del 9 dicembre 2015, in accoglimento parziale del ricorso proposto dal C. avverso la sentenza n. 38/15 pubblicata il 9 aprile 2015, con cui la Sezione disciplinare del C.S.M. aveva inflitto al predetto la sanzione disciplinare della censura e ne aveva disposto il trasferimento d’ufficio al Tribunale di Tivoli con funzione di giudice, ha riformato detta sentenza nella sola parte in cui ha applicato in via definitiva la misura accessoria della perdita delle funzioni semidirettive precedentemente espletate, in quanto non prevista dalla legge a titolo di sanzione disciplinare definitiva, e ha rigettato nel resto l’impugnazione proposta.

Come pure rappresentato dal C.S.M. nella memoria depositata, con provvedimento del Commissario ad acta nominato dal T.A.R. nel ricorso 9592/12, in data 11 dicembre 2015 è stata disposta la nomina della M. quale Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona; il C. ha contestato tale provvedimento e ne ha chiesto la sospensione con reclamo depositato il 22 dicembre 2015, che è stato rigettato dal T.A.R. Lazio con sentenza del 3 marzo 2016, n. 2813; in data 4 gennaio 2016 M.E. ha preso possesso dell’ufficio di cui si discute in causa.

Nella già richiamata memoria, il C.S.M. ha altresì rappresentato che, con sentenza del 20 aprile 2016, n. 1551, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello proposto da C.A. avverso la sentenza n. 11080 del 2015, sopra indicata, ha fornito al commissario ad acta i chiarimenti richiesti e ha rigettato l’istanza della dott.ssa M., ritenendo che, anche a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 90 del 2014 “resta… intatto, nel giudizio di ottemperanza, il potere del giudice amministrativo di nominare, ove occorra, un commissario ad acta” in quanto “l’effetto pratico della riforma… consiste semplicemente nella impossibilità per il giudice dell’ottemperanza di procedere direttamente all’emanazione (o alla determinazione del contenuto) del provvedimento in luogo dell’amministrazione (come previsto dalla lettera a) dell’art. 114 c.p.a.) ovvero di dare esecuzione a sentenze non passate in giudicato (come previsto dalla lettera c) dell’art. 114 c.p.c.”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va rigettata l’eccezione di intempestività del ricorso proposta dal C., atteso che, in mancanza di notifica della sentenza impugnata in questa sede e depositata in data 31 marzo 2015, non si applica il termine breve per proporre impugnazione, sicchè non rileva che, come dedotto dal C., dai verbali dei lavori della 5^ Commissione del C.S.M., seduta pomeridiana del 14 ottobre 2015, la sentenza impugnata in questa sede era conosciuta dal medesimo C.S.M. sin dal 7 aprile 2015; risulta, quindi, tempestivo il ricorso notificato a mezzo posta con raccomandata A.R. spedita in data 30 ottobre 2015, entro, quindi, il termine semestrale di cui all’art. 92 cod. proc. amm., comma 3.

2. Non si è nella specie verificata la cessazione della materia del contendere, non risultando, alla luce di quanto rappresentato dalle parti in sede di discussione, che sia definitivo l’ultimo provvedimento adottato dal Commissario ad acta e relativo al conferimento dell’ufficio in questione alla M., per essere lo stesso ancora sub iudice.

3. Con il primo motivo si lamenta “Eccesso di potere giurisdizionale. Violazione e falsa applicazione degli artt. 37 c.p.c., artt. 7, 112 e 114 cod. proc. amm. Violazione dell’art. 105 Cost. Violazione del D.L. n. 90 del 2014, art. 2 e della L. 24 marzo 1958, n. 195, art. 17 (motivo ex art. 362 c.p.c. e art. 110 cod. proc. amm.)”.

In particolare, con il mezzo all’esame, si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, premesso che “il tema della comparazione tra i pretendenti all’incarico” in questione è “stato svolto dal C.S.M. in almeno due diverse occasioni, una prima volta con la Delib. 16 settembre 2009, annullata dal T.A.R. del Lazio con sentenza 14 settembre 2010, n. 32321, confermata in appello, e una seconda volta, con delibera del 26 luglio 2012, anch’essa annullata dal T.A.R. del Lazio con sentenza 10 maggio 2013 n. 4711”, il Consiglio di Stato avrebbe affermato che ben avrebbe il primo Giudice dichiarato nulla la delibera del 18 settembre 2013 del Plenum del C.S.M. (unitamente agli atti da essa presupposti e ad essa connessi), in quanto il C.S.M. non avrebbe potuto conferire nuovamente alla M. l’ufficio di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona, in forza del principio che precluderebbe “all’Amministrazione – dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il potere o la facoltà di provvedere di nuovo – di esaminare l’affare nella sua interezza”, dovendo essa sollevare, “una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati”.

Sostiene il ricorrente che, secondo la sentenza impugnata, a seguito della dichiarazione di nullità della delibera 26 luglio 2012, disposta con la sentenza del T.A.R. del Lazio n. 4711 del 2013, “il punto di equilibrio tra potere pubblico e aspettativa privata sopra tracciato” sarebbe “stato già raggiunto”, con la conseguenza che “qualsiasi valutazione di elementi non considerati, siano essi pregressi e non previamente risaltanti o successivi e non conferenti”, apparirebbe “comunque in violazione del limite del doppio annullamento intervenuto”.

Tali affermazioni si porrebbero, ad avviso del C.S.M., in contrasto con l’art. 37 c.p.c., in quanto il Consiglio di Stato avrebbe dovuto riconoscere il difetto di giurisdizione proprio e del T.A.R. nel limitare, nei termini detti, il potere del C.S.M. di valutare autonomamente le candidature del C. e della M., pur sempre nel rispetto delle precedenti pronunce ottemperande, sicchè la sentenza impugnata avrebbe travalicato i limiti della giurisdizione amministrativa, collocandosi al di fuori dei confini dell’esercizio dei poteri attribuiti al Giudice dell’ottemperanza dagli artt. 112 e 114 cod. proc. amm. e L. n. 195 del 1978, art. 17, comma 2, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 2, comma 4, conv. con modif. dalla L. n. 114 del 2014.

Il G.A., con la sentenza impugnata, secondo il ricorrente, si sarebbe altresì “illegittimamente arrogat(o) l’esercizio di una funzione (la valutazione comparativa dei candidati per l’incarico direttivo di cui è causa) che l’art. 105 Cost rimette al C.S.M., violando così, oltre l’indicato parametro costituzionale, anche la L. n. 195 del 1978, art. 17, comma 1”.

Ad avviso del ricorrente, la tutela giurisdizionale del G.A., “imprescindibile garanzia dei legittimi interessi (e talora dei diritti) dei cittadini”, “deve essere modulata secondo le fattispecie concrete sottoposte al suo esame e deve essere costruita in armonia con i precetti costituzionali”, il che sarebbe mancato nel caso all’esame, sia con riferimento alla tipologia dei poteri esercitabili che in relazione all’estensione del sindacato giurisdizionale.

Il C.S.M., richiamando le sentenze della Corte Costituzionale nn. 419 e 435 del 1995, assume che da tali decisioni si evincerebbe che: a) la tutela apprestata dal G.A. nei confronti degli atti del C.S.M. deve essere piena e comprende anche quella assicurata dalla giurisdizione estesa al merito, che è connessa al giudizio di ottemperanza; b) il G.A. può eventualmente sostituirsi al C.S.M. solo qualora l’attività che egli compie sia predeterminata dal legislatore e sia quindi vincolata, non ammettendo alcun margine di discrezionalità e non implicando alcuna valutazione riservata al C.S.M..

Sostiene, altresì, il ricorrente che il caso all’esame sarebbe diverso da quelli esaminati dalla Corte Costituzionale, non gravando alcun vincolo alla nomina del C. sul C.S.M., tenuto solo al rispetto dei limiti indicati dal T.A.R. Lazio con le sentenze nn. 32321/10 e 4711/13; che ad identiche conclusioni perverrebbe la giurisprudenza amministrativa, da cui si desumerebbe sia che il sindacato sulle deliberazioni del C.S.M. sarebbe “esterno”, sia che la sostituzione del G.A. al C.S.M. sarebbe preclusa “dai più fondamentali principi del nostro ordinamento e dalla posizione costituzionalmente guarentigiata dell’organo di governo autonomo della magistratura”, e che tale sostituzione sarebbe preclusa non solo nelle controversie inerenti al conferimento degli incarichi direttivi o semidirettivi ma anche in qualsiasi controversia relativa a determinazioni del C.S.M. sulla carriera e sullo status dei magistrati. Inoltre, i richiamati “approdi giurisprudenziali” avrebbero, sempre secondo il C.S.M., trovato l’avallo del legislatore, con la modifica della L. n. 195 del 1958, art. 17, comma 2, escludendo detta norma che il G.A. possa determinare il contenuto dell’atto di nomina o addirittura emanarlo in luogo del C.S.M..

Per le medesime ragioni, a parere del ricorrente, dovrebbe escludersi che il C.S.M. “possa rieffondere il proprio potere valutativo solo per un numero limitato di volte”, come avrebbe illegittimamente affermato la sentenza gravata.

Ritiene il C.S.M. che proprio la sua posizione istituzionale imporrebbe una lettura costituzionalmente orientata del divieto – di costruzione giurisprudenziale – di riesercitare il potere amministrativo per più di due volte mediante nuove valutazioni discrezionali, una volta intervenuto l’annullamento dell’atto, essendo ipotizzabile l’assenza di ogni margine discrezionale solo nei casi in cui l’attività del C.S.M. sia predeterminata dal legislatore e, quindi, vincolata e che tale soluzione, nel tutelare l’autonomia costituzionale del C.S.M., perseguirebbe l’interesse pubblico al buon andamento degli uffici giudiziari.

Il ricorrente deduce che, con la sentenza n. 32321 del 2010, il T.A.R. Lazio aveva rilevato che il C. “fa(ceva) parte dal 2002, con deleghe ed incarichi specifici, della DNA, organo preposto a coordinare il lavoro della DDA, (era) responsabile del servizio informatico cui fa(ceva) capo la gestione della banca nazionale dati SIDDA e del relativo personale”, precisando che tanto non comportava che “un candidato che vant(asse) la ridetta esperienza d(ovesse) necessariamente prevalere su un candidato che ne (fosse) privo”, ma imponeva al C.S.M. soltanto “un obbligo “rafforzato” di motivazione, che d(esse) conto di quali (fossero) i profili attitudinali e di merito di cui il candidato prescelto a(vesse) esclusivo o maggior possesso rispetto all’altro candidato, e in che modo tali profili (fossero) idonei ad attribuire allo stesso prevalenza in quanto lo rend(evano) più idoneo avuto riguardo alle esigenze funzionali da soddisfare”.

Rappresenta il ricorrente che la Delib. 26 luglio 2012 sarebbe stata adottata proprio allo scopo di ottemperare alla sentenza del T.A.R. del Lazio n. 32321 del 2010, cercando di colmare le lacune motivazionali su cui era fondato l’annullamento della prima delibera di assegnazione dell’incarico, rimanendo il C.S.M. libero di valutare comparativamente i due candidati, a condizione che la rinnovata preferenza della M. non si fondasse sugli argomenti su cui si basava la delibera annullata, e che, tuttavia, anche tale delibera era stata dichiarata nulla con la sentenza del n. 4711 del 2013. Deduce, altresì, di aver ritenuto preferibile, con la successiva delibera del 18 settembre 2013 (anch’essa dichiarata nulla per elusione del giudicato dalle sentenze T.A.R. Lazio n. 5571 del 2014 e Consiglio di Stato n. 1686 del 2015, quest’ultima impugnata in questa sede), il curriculum professionale della dott.ssa M. per ragioni non attinte dalle precedenti due sentenze del Consiglio di Stato, sicchè tale ultima delibera non potrebbe essere considerata elusiva del giudicato.

Assume conclusivamente il ricorrente che la sentenza impugnata in questa sede sarebbe illegittima sia per aver negato la possibilità di una ulteriore valutazione discrezionale del C.S.M. a seguito della sentenza n. 4711 del 2013 del T.A.R. Lazio, sia per non aver – una volta negato tale possibilità – disposto il mutamento del rito, da quello di ottemperanza a quello ordinario, “sede per lo scrutinio di valutazioni dell’Amministrazione che siano, al contempo, non elusive del giudicato e innovative rispetto a quelle già ritenute illegittime dal Giudice amministrativo”.

4. Con il secondo motivo si lamenta “Eccesso di potere giurisdizionale per un ulteriore profilo. Violazione dell’art. 37 c.p.c., artt. 29, 112 e 114 cod. proc. amm. (motivo ex artt. 362 c.p.c. e art. 110 cod. ammm)”.

Il ricorrente sostiene che il Consiglio di Stato avrebbe ritenuto di dover scrutinare la legittimità della delibera del C.S.M. del 18 settembre 2013 alla luce dei fatti e documenti nuovi, così vagliando la ragionevolezza delle valutazioni effettuate dal C.S.M. anche sulla base di tali ulteriori elementi, ma in tal modo il Consiglio di Stato sarebbe caduto nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale per superamento dei limiti esterni della giurisdizione, proprio “nella misura in cui il Consiglio di Stato ha scrutinato la delibera” in parola “esercitando i poteri del giudice dell’ottemperanza, nonostante che essa, per espressa affermazione della sentenza gravata, si fondasse in parte su elementi nuovi, che non erano stati sottoposti al precedente scrutinio del giudice amministrativo”, laddove la valutazione di legittimità della delibera adottata sulla base di elementi sopravvenuti avrebbe dovuto essere condotta nelle forme della cognizione ordinaria ex art. 29 cod. proc. amm. invece che in quelle del rito dell’ottemperanza.

Ad avviso del ricorrente “la doverosa conversione del rito… avrebbe dovuto altresì condurre il Consiglio di Stato a dichiarare inefficace la nomina del commissario ad acta e gli atti di questi nelle more eventualmente adottati nonchè, in ogni caso, privare di effetti l’intero procedimento di esecuzione del giudicato ai sensi dell’art. 114 cod. proc. amm.”.

5. Con il terzo motivo si lamenta “Eccesso di potere giurisdizionale per un ulteriore profilo. Violazione dell’art. 37 c.p.c. e dell’art. 105 Cost. (motivo ex art. 362 c.p.c. e art. 110 cod. proc. amm.)”.

Sostiene il ricorrente che il Consiglio di Stato avrebbe vagliato la legittimità della Delib. C.S.M. del 18 settembre 2013 sulla base di quelli che lo stesso C.S.M. aveva considerato elementi e fatti nuovi e, all’esito di tale scrutinio, avrebbe ritenuto gli stessi inidonei all’assegnazione dell’incarico alla M., sia perchè già conoscibili dal C.S.M. al momento in cui aveva adottato la precedente Delib. 26 luglio 2012, sia perchè, in ogni caso, la valutazione di tali elementi nuovi “manca di quegli elementi integrativi, i quali avrebbero potuto spiegare la prevalenza della M. sul C.”.

Il C.S.M., in particolare, censura la sentenza impugnata nella parte in cui il Consiglio di Stato ha affermato che “la sede della… considerazione (dei fatti sopravvenuti) non è quella del procedimento già concluso e doppiamente valutato dal giudice amministrativo, ma quella di un eventuale nuovo e diverso iter, fondato su presupposti o modalità autonome”, sostenendo che tale affermazione, oltre ad essere in contraddizione con le altre parti della motivazione, dimostrerebbe il vizio di eccesso di potere giurisdizionale che affliggerebbe la sentenza impugnata, in quanto il Consiglio di Stato, “indebitamente sostituendosi” al C.S.M. e “usurpando la discrezionalità amministrativa” dello stesso, avrebbe “inteso prefigurare l’attività di valutazione comparativa per l’attribuzione di incarichi direttivi, individuando quali fatti e atti debbano essere considerati… e quali, invece, non lo debbano essere, nonostante che la legge (D.Lgs. n. 160 del 2006, artt. 10 e 12), in proposito… riservi sul punto al C.S.M. ampia discrezionalità”.

Inoltre, ad avviso del ricorrente, il Consiglio di Stato si sarebbe “ingerito nella discrezionalità amministrativa del C.S.M. anche per un ulteriore profilo”. Imponendo all’Amministrazione di considerare i fatti nuovi in un “nuovo e diverso iter fondato su presupposti e modalità autonome”, il Consiglio di Stato avrebbe evidentemente “voluto imporre al C.S.M. di valersi, semmai, dei poteri autotutela”, il che, oltre a violare il principio di buon andamento della P.A. ex art. 9 Cost., costituirebbe diretta ingerenza nell’attività amministrativa, risolvendosi nell’indicazione al C.S.M. dell’ordine e della tipologia degli atti da adottare, ed esulerebbe dalla giurisdizione, di cognizione o di ottemperanza che sia, del G.A..

6. Con il quarto motivo si lamenta “Eccesso di potere giurisdizionale per un ulteriore profilo. Violazione dell’art. 37 c.p.c. e dell’art. 105 Cost. (motivo ex art. 362 c.p.c., e art. 110 cod. proc. amm.)”.

Il ricorrente censura il capo della sentenza impugnata in cui si afferma che “non può criticarsi la sentenza del primo Giudice (sent. T.A.R. Lazio, n. 5571 del 2014) per non aver tenuto in considerazione gli eventi indicati dalla parte” allora appellante, in quanto il T.A.R., nel “valutare i contenuti concreti di tali elementi sopravvenuti, senza escluderne a priori la rilevanza”, è giunto alla conclusione, che “va condivisa”, circa l’assenza nel nuovo provvedimento “di quegli elementi integrativi, i quali avrebbero dovuto spiegare la prevalenza della M. sul C.”.

Sostiene il C.S.M. che tale argomentazione sarebbe illegittima e integrerebbe il vizio di eccesso di potere giurisdizionale, in quanto il Consiglio di Stato, per le ragioni già espresse nell’illustrazione del secondo motivo, avrebbe dovuto rilevare l’insussistenza dei presupposti per giudicare in sede di ottemperanza e disporre il mutamento del rito; comunque, la sentenza impugnata, pur se adottata in sede di ottemperanza, soggiacerebbe ai noti limiti che incontra il G.A. nel corso dell’ordinario rito di annullamento.

Tali limiti, a parere del ricorrente, sarebbero stati superati nella specie all’esame, in quanto il Consiglio di Stato si sarebbe “limitato a giustificare la preferenza per il dott. C. sulla base della mera “non condivisibilità della valutazione” effettuata dal C.S.M., in ordine alla ritenuta irrilevanza della sopravvenuta vicenda disciplinare che l’ha interessato, nonostante che il C.S.M., con ordinanza cautelare della Sezione Disciplinare del 17 maggio 2012″, confermata da queste Sezioni Unite con sentenza del 6 dicembre 2012, “abbia cautelarmente disposto il trasferimento e la destinazione del dott. C. ad altre funzioni”.

Assume il C.S.M. che il Consiglio di Stato non avrebbe citato a giustificazione delle sue indicazioni alcuna disposizione di legge nè alcun paragrafo della circolare del C.S.M. che regola il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi ma sarebbe, invece, pervenuto a tali conclusioni limitandosi a confermare integralmente la sentenza del T.A.R. n. 5571 del 2014, facendo propria la motivazione ivi offerta sul punto, e sostiene, altresì, che rientrerebbe nella discrezionalità del C.S.M. valutare l’incidenza di un provvedimento disciplinare quanto ai risultati conseguiti dal magistrato nonchè quanto alla clausola aperta di legge che ritiene rilevante “ogni altro elemento” da cui possa desumersi l’attitudine all’esercizio delle funzioni direttive.

A parere del C.S.M., il Consiglio di Stato, così decidendo, avrebbe oltrepassato i limiti della sua giurisdizione e contestualmente leso l’ambito di discrezionalità che il D.Lgs. n. 160 del 2006, art. 12, comma 10, deferisce al C.S.M., il quale, per il conferimento delle funzioni direttive, ben potrebbe valutare l’incidenza di un procedimento disciplinare quanto ai risultati conseguiti dal magistrato nonchè ogni altro elemento da cui possa desumersi l’attitudine all’esercizio delle funzioni direttive.

7. I primi quattro motivi del ricorso, i quali, essendo strettamente connessi, ben possono essere unitariamente esaminati, non possono essere accolti.

7.1. Si osserva che le decisioni del Consiglio di Stato in sede di giudizio di ottemperanza sono soggette al sindacato delle Sezioni Unite di questa Corte sul rispetto dei limiti esterni della giurisdizione, tenendo presente che, in tal caso, è attribuita al giudice amministrativo una giurisdizione anche di merito. A tale riguardo, questa Corte ha più volte (Cass., sez. un., 19 gennaio 2012, n. 736; Cass., sez. un., 26 aprile 2013, n. 10060; Cass., sez. un., 3 febbraio 2014, n. 2289) precisato che, al fine di distinguere le fattispecie in cui il sindacato sui limiti di tale giurisdizione è consentito da quelle nelle quali risulta inammissibile, risulta decisivo stabilire se quel che tiene in questione è il modo in cui il potere giurisdizionale di ottemperanza è stato esercitato dal giudice amministrativo, attenendo ciò ai limiti interni della giurisdizione, oppure se sia in discussione la possibilità stessa, in una determinata situazione, di fare ricorso al giudizio di ottemperanza, attenendo ciò, invece, ai limiti esterni della giurisdizione.

In particolare, quando l’ottemperanza sia stata invocata denunciando comportamenti elusivi del giudicato o manifestamente in contrasto con esso, afferiscono ai limiti interni della giurisdizione gli eventuali errori imputati al giudice amministrativo nell’individuazione degli effetti conformativi del giudicato medesimo, nella ricostruzione della successiva attività dell’amministrazione e nella valutazione di non conformità di questa agli obblighi derivanti dal giudicato; trattandosi, invece, dei limiti esterni di detta giurisdizione quando è posta in discussione la possibilità stessa, nella situazione data, di far ricorso alla giurisdizione di ottemperanza.

Questa Corte ha pure chiarito (Cass., sez. un., 19 gennaio 2012, n. 736; Cass., sez. un., 2 febbraio 2015, n. 1823; Cass., sez. un., 31 marzo 2015, n. 6494) che il giudizio di ottemperanza, in particolare nel caso in cui sia denunciato un comportamento della pubblica amministrazione elusivo del giudicato, si svolge in una triplice operazione: (a) di interpretazione del giudicato, al fine di individuare il comportamento doveroso per la pubblica amministrazione in sede di ottemperanza; (b) di accertamento del comportamento in effetti tenuto dalla medesima amministrazione; (c) di valutazione della conformità del comportamento tenuto dall’amministrazione a quello che avrebbe dovuto tenere.

Gli errori nei quali incorra il giudice amministrativo nel compimento delle indicate operazioni, e i vizi che inficiano la motivazione sugli stessi punti, essendo inerenti al giudizio di ottemperanza, restano confinati all’interno della giurisdizione medesima, e non integrano quell’eccesso di potere giurisdizionale che solo è sindacabile dalla Corte di cassazione.

E’ stato da questa Corte pure precisato che nella giurisdizione di merito del giudizio di ottemperanza si ha eccesso di potere giurisdizionale quando il G.A. ritiene che ci siano i presupposti dell’ottemperanza anche nei casi in cui tali presupposti in realtà non ricorrano (nel senso che non sussistono nè violazione nè, soprattutto, elusione del giudicato) (Cass., sez. un., 19/01/2012, n. 736), così sostanzialmente esercitando un’attività amministrativa discrezionale sotto le vesti di una giurisdizione di merito (Cass., sez. un., 5/10/2015, n. 19787).

7.2. Tenuto conto dei richiamati principi, si osserva che, nella specie, il Consiglio di Stato, non risulta essere incorso nei denunciati vizi.

7.3. In particolare, deve ritenersi che la questione, posta all’attenzione di questa Corte e sottesa ai motivi all’esame, e relativa al se, in sede di ottemperanza, la P.A. e, nella specie il Consiglio Superiore della Magistratura, possa valutare, nell’ambito della sua discrezionalità, fatti storicamente sopravvenuti, se rilevanti, non può che trovare risposta positiva, non essendo tanto precluso dalla sussistenza di uno o più giudicati.

Come evidenziato dall’Adunanza Plenaria 15 gennaio 2013, n. 2, cui ha ampiamente fatto riferimento il Consiglio di Stato nella decisione impugnata in questa sede, il giudice dell’ottemperanza “deve essere considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il suo presupposto”.

Anche nell’ambito del giudizio di ottemperanza occorre tener conto dell’esigenza di conferire adeguata effettività alle sentenze del G.A. e, nel contempo, di contenere in tempi ragionevoli la risposta giurisdizionale e di evitare inutili duplicazioni – o comunque proliferazioni – di accesso alla tutela giurisdizionale e, in tale prospettiva, assume rilevanza se sia possibile o meno la valutazione dei fatti sopravvenuti, non potendosi certo addivenirsi alla conclusione che l’esigenza di certezza, propria del giudicato, e cioè di un assetto consolidato degli interessi coinvolti, possa comportare un effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni sopravvenute di riedizione di un potere, qualora questo, pur prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove non contemplate e va aggiunto – non contemplabili in precedenza.

La conclusione rigorosa, cui evidentemente non si ritiene di aderire, si pone in contrasto con la pur avvertita esigenza di salvaguardare la sfera di autonomia e di responsabilità dell’Amministrazione, esigenza ancor più pregnante nel caso del C.S.M., alla luce della posizione istituzionale di tale organo, avente rilevanza costituzionale.

Il che, tuttavia, non implica che la riedizione del potere non debba essere assoggettata a precisi limiti, non potendo certo l’Amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del G.A., rimettere in discussione quanto già accertato in sede giurisdizionale (v. CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia, cui fa espresso riferimento la richiamata Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato).

L’art. 112 cod. proc. amm., comma 1 che apre il titolo 1, dedicato al giudizio di ottemperanza, impone alla P.A. e alle altre parti l’obbligo di eseguire i provvedimenti del G.A., e tale obbligo assume particolare rilievo proprio nei confronti della P.A., in una prospettiva di leale ed imparziale esercizio del munus pub/icum, in

esecuzione dei principi di cui all’art. 97 Cost. e che permeano pure la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla quale il diritto all’esecuzione della pronuncia del giudice è considerato complemento inevitabile e qualificante della tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale, come pure evidenziato nella sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

Se, quindi, la P.A. ha l’obbligo di soddisfare la pretesa del ricorrente vittorioso e di non frustrare con comportamenti elusivi le legittime aspettative di questi, è indispensabile che la P.A., nel dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale, cooperi lealmente, attenendosi ai noti principi di buona fede e correttezza, senza che l’ottimale assetto di tutti gli interessi di volta in volta coinvolti possano costituire una giustificazione o, peggio, un alibi per sottrarsi all’esecuzione del giudicato.

Va pure evidenziato che è ben possibile che si sia in cospetto di fatti che, pur conosciuti, all’epoca dell’emanazione dell’atto, dalla P.A. non siano stati dalla stessa valorizzati, ma in tal caso è il giudice dell’ottemperanza che, nell’ambito della sua giurisdizione, deve provvedere alla valutazione della loro rilevanza.

Se, quindi, tale valutazione spetta al giudice dell’ottemperanza, non risulta conseguentemente rilevante la questione sollevata dal ricorrente, secondo cui tale valutazione avrebbe dovuto essere condotta nelle forme della cognizione ordinaria ex art. 29 c.p.c., ed avrebbe reso necessario il mutamento del rito, nella specie non disposto.

Si osserva, inoltre, che le censure in parola ineriscono alle regole del giudizio amministrativo, che rientrano nella piena cognizione del G.A., e che gli eventuali errores in procedendo non ridondano in vizio di giurisdizione (ex plurimis, Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8056; Cass., sez. un., 5 ottobre 2015, n. 19787).

7.4. Va peraltro rimarcato che, nel caso all’esame, i fatti richiamati dalla Delib. C.S.M. in contestazione non possono ritenersi sopravvenuti, in quanto, con riferimento ai comportamenti disciplinarmente rilevanti tenuti dal C. allorchè questi era in servizio presso la Procura Nazionale Antimafia, trattasi di quegli stessi fatti posti a base dell’ordinanza cautelare della Sezione Disciplinare del C.S.M. del 17 maggio 2012, anteriore, quindi, alla Delib. 26 luglio 2012 oltre che, naturalmente, a quella del 18 settembre 2013, e, con riferimento all’iscrizione, in data 26 giugno 2012, nel registro degli indagati per irregolarità nell’attività didattica, non risulta contestata la pronta comunicazione al C.S.M. di tale circostanza da parte della Procura procedente.

Va pure rilevato che il Consiglio di Stato, nella motivazione della sentenza impugnata, ha comunque evidenziato che gli ulteriori sviluppi delle vicende sopra ricordate – nei quali evidentemente deve ricomprendersi anche la sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte di rigetto avverso il provvedimento disciplinare di trasferimento disposto nei confronti del C. (cui si fa riferimento, tra l’altro, a p. 41 della sentenza impugnata) -, valutati nei loro “contenuti concreti” dal T.A.R. “nulla” hanno “aggiunto” (v. sentenza impugnata p. 45-46). E questa è una valutazione di merito che è certamente rimessa al Giudice dell’ottemperanza.

7.5. Alla luce delle argomentazioni che precedono, resta assorbito l’esame delle ulteriori questioni sollevate dalle parti con i mezzi in scrutinio.

8. Deve, quindi, essere esaminato il quinto motivo di ricorso, proposto in via subordinata, e con il quale si lamenta “Eccesso di potere giurisdizionale per un ulteriore profilo. Violazione e falsa applicazione dell’art. 37 c.p.c., art. 114 cod. proc. amm.; del D.L. n. 90 del 2014, art. 2 e della L. 24 marzo 1958, n. 195, art. 17(motivo ex art. 362 c.p.c. e art. 110 cod. proc. amm.)”.

Secondo il ricorrente, il Consiglio di Stato, nel ritenere di dover consentire “il prosieguo dell’iter dell’adozione degli atti consequenziali tramite il già nominato commissario ad acta, procedura che aveva già avuto inizio nelle more del giudizio di appello e sulla quale la presente procedura non ha alcun effetto interdittivo”, avrebbe disapplicato il D.L. n. 90 del 2014, art. 2 di modifica della L. n. 195 del 1958, art. 17.

Pur se la novella è intervenuta successivamente alla sentenza ottemperanda e al conferimento dell’incarico commissariale, l’apertura di una nuova fase processuale, determinata dall’appello nei confronti della sentenza n. 5771/14 del T.A.R. Lazio, produrrebbe, ad avviso del ricorrente, effetti che implicherebbero anche l’applicabilità del novellato art. 17.

Sostiene la parte ricorrente che la novella del 2014 ha previsto che l’ottemperanza delle sentenze concernenti il conferimento degli incarichi direttivi da parte del C.S.M. debba essere rimessa allo stesso C.S.M.. Pertanto, il Consiglio di Stato, avendo pronunciato la sentenza qui impugnata dopo l’entrata in vigore del D.L. n. 90 del 2014 ed essendo, ai sensi dell’art. 114 c.p.c., commi 5, 6 e 8divenuto dominus dell’ottemperanza, avrebbe dovuto disporre la cessazione dell’incarico commissariale già assegnato e rimettere l’esecuzione al C.S.M., specie in considerazione della circostanza che il Commissario ad acta non aveva ancora proceduto all’adozione del provvedimento di ottemperanza.

8.1. Il motivo è infondato.

Ritiene il Collegio che quanto prospettato dal ricorrente non può essere desunto dalla previsione di cui al D.L. n. 90 del 2014, art. 2, comma 4.

Tale disposizione non interviene, infatti, sulle norme del codice del processo amministrativo, pur richiamandole in parte, evidenziandosi, in particolare, che la disciplina relativa al commissario ad acta è dettata dalla lett. d) dell’art. 114 codice di rito in parola, che non risulta essere stato neppure implicitamente abrogato.

9. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

10. In considerazione della novità delle questioni esaminate, le spese del giudizio di cassazione vanno compensate per intero tra le parti.

11. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, ai del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e compensa per intero tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 24 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2017

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