Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15268 del 20/06/2017


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Cassazione civile, sez. II, 20/06/2017, (ud. 21/04/2017, dep.20/06/2017),  n. 15268

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19411/2012 proposto da:

BE.FR., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 108, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO ORSINI,

rappresentato e difeso dagli avvocati GIANFRANCO MARINAI, FRANCESCO

CAFFARELLI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.M. (OMISSIS), B.S. (OMISSIS),

N.D. (OMISSIS), B.C. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 30, presso lo studio

dell’avvocato GIAMMARIA CAMICI, che li rappresenta e difende

unitamente agli avvocati DANIELA GUERRIERI, LEOPOLDO CITI, giusta

procura a margine del controricorso;

– ricorrenti incidentali –

e contro

N.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 990/2011 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 18/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/04/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Alessandro Orsini per delega dell’Avvocato Marinai

per il ricorrente e l’Avvocato Giammaria Camici per i

controricorrenti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento dei

motivi da 13 a 16 del ricorso principale e, previa correzione della

sentenza impugnata (Cass. n. 18787/2005), rigetto degli altri motivi

e del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 24 settembre 1992, Be.Fr. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Pisa B.F. affinchè fosse dichiarata la simulazione del contratto di compravendita immobiliare del 15 marzo 1973 intercorso tra il convenuto, quale acquirente, e b.e. come venditore, avente ad oggetto il Podere (OMISSIS), per essere in realtà l’attore acquirente, unitamente al B., della quota del 50% del bene, formalmente intestato per l’intero al convenuto. Per l’effetto chiedeva altresì disporsi lo scioglimento della comunione conformemente a quanto già disposto con scrittura privata sottoscritta dalle parti.

In via subordinata chiedeva, previo accertamento dell’obbligo del B. di trasferire in suo favore la quota del 50% del podere, pronunziarsi sentenza ex art. 2932 c.c., accertando altresì che parte attrice aveva assolto tutte le obbligazioni connesse alla proprietà acquisita, sia in ordine al pagamento del prezzo che in merito alle spese necessarie, per la ristrutturazione, gestione e manutenzione del fondo.

Al fine di comprovare i fatti di causa produceva altresì dichiarazione a firma del B. con la quale questi riconosceva il regime di comproprietà sul bene e l’avvenuta corresponsione da parte del Be. del 50% delle somme necessarie all’acquisto ed alla ristrutturazione dei beni, con il conseguente obbligo a formalizzare il regime di comproprietà con atto pubblico ed a semplice richiesta dell’attore

Si costituiva il B. che eccepiva la nullità dell’atto di cessione di quota per la violazione della previsione di cui alla L. n. 379 del 1967, art. 4, in quanto la partecipazione all’acquisto dell’attore non era stata autorizzata dall’Ente per la colonizzazione della Maremma Tosco-Laziale, ed essendo il Be. privo della necessaria qualifica di coltivatore diretto. In via riconvenzionale chiedeva quindi che l’attore fosse condannato al rilascio della porzione del podere dal medesimo occupata, dichiarandosi disposto a restituire le somme ricevute per l’acquisto e per la ristrutturazione.

Il Tribunale con sentenza non definitiva del 24 ottobre 1995 rigettava la domanda volta al riconoscimento della comproprietà del bene ovvero del diritto al trasferimento della quota del 50%, dichiarando altresì la nullità dell’atto di divisione del 23 ottobre 1978, ordinando all’attore il rilascio della porzione del fondo occupata, disponendo per la prosecuzione del giudizio, al fine di determinare le somme dovute a titolo restitutorio in favore dell’attore.

Rilevava che la vicenda dedotta in giudizio costituiva un’ipotesi di interposizione reale di persona, ma che la stessa era invalida in quanto il patto fiduciario era privo di forma scritta.

Inoltre alcun rilievo poteva attribuirsi alla dichiarazione ricognitiva sottoscritta dal solo B., in quanto inidonea a produrre l’effetto traslativo della proprietà del bene, presupponendo in ogni caso l’esistenza di un atto munito di forma scritta in grado di assicurare validamente il trasferimento della proprietà.

Per l’effetto reputava assorbita la domanda di annullamento della L. n. 379 del 1967, ex art. 6.

In merito alla domanda subordinata volta ad ottenere il trasferimento della proprietà, ad avviso del Tribunale la scrittura prodotta in atti non consentiva di evincere l’esistenza di un’obbligazione siffatta, avendo in realtà carattere ricognitivo di un obbligo scaturente da altro atto non prodotto, ma che in ogni caso l’eventuale impegno sarebbe incorso nell’invalidità di cui all’art. 4, della menzionata legge, posto che il trasferimento non poteva ritenersi subordinato alla cessazione del vincolo di inalienabilità previsto dalla legge, evidenziandosi in tal modo la finalità elusiva dell’accordo.

Tale conclusione aveva poi conforto nel fatto che le parti, ancora in costanza del vincolo, avevano provveduto a dividere fra loro il fondo con atto in palese violazione della previsione di cui alla L. n. 1078 del 1940, art. 3, il chè comportava la nullità anche della divisione.

Circa l’eccezione di prescrizione dell’azione di annullamento, riteneva che in ogni caso la stessa era idonea a paralizzare la domanda ex art. 2932 c.c., occorrendo fare richiamo alla diversa regola dell’imprescrittibilità dell’eccezione di annullamento del contratto.

Il processo veniva quindi interrotto per il decesso del B. e riassunto nei confronti di V.M., vedova del convenuto, di B.M., figlio del convenuto, e dei nipoti ex filia premorta Ma., N.M. e D..

Si costituivano anche B.S. e C., figli di B.M. che eccepivano di essere semplici legatari, mentre V.M., oltre a contestare la ritualità della riassunzione e la conseguente estinzione del giudizio, nel merito eccepiva di essere una semplice legataria del marito.

Si costituivano anche B.M. ed i germani N., i quali nell’associarsi alle difese della V., deducevano di avere rinunziato all’eredità del convenuto con atto del 3 aprile 1997.

Disattesa l’eccezione di estinzione del giudizio e di nullità dell’atto di riassunzione, espletata l’istruttoria, il processo era nuovamente interrotto per la morte di V.M..

La causa era riassunta nei confronti del figlio B.M. e di N.M. e Donatella, in rappresentazione della figlia premorta Ba.Ma., i quali contestavano il loro difetto di legittimazione passiva e l’estinzione del giudizio.

Di analogo tenore erano anche le difese di B.S. e C..

Il Tribunale di Pisa con la sentenza definitiva del 12 novembre 2005, disattese le eccezioni di carattere processuale in merito alla ritualità della riassunzione del giudizio a seguito dei due eventi interruttivi, accoglieva la domanda di ripetizione dell’attore, condannando B.S., B.C., B.M., N.M. e N.D. al pagamento della somma di Lire 85.000.000, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal 1974 al saldo.

Avverso la sentenza definitiva proponevano appello B.S. e C., e nel costituirsi in giudizio proponevano appello incidentale B.M., N.M. e N.D..

Attesa la mancata costituzione del Be., veniva disposta la rinotifica dell’atto di appello, ed all’esito della rinnovazione si costituiva l’appellato che segnalava di avere separatamente proposto appello avverso la sentenza non definitiva e quella definitiva, instando per la riunione dei due giudizi.

Quindi disposta la riunione, la Corte d’Appello di Firenze con la sentenza n. 990 del 18 luglio 2011 confermava la sentenza non definitiva, ed in parziale accoglimento dell’appello dei B., determinava a far data dal 12 gennaio 1997 la decorrenza degli interessi legali e della rivalutazione monetaria sulla somma di Euro 43.898,83 dovuta da parte degli appellanti B. e N., compensando integralmente le spese di lite.

La sentenza, dopo avere rilevato l’ammissibilità e tempestività dell’appello proposto autonomamente dal Be., disattendeva l’eccezione di estinzione del giudizio per l’intempestiva riassunzione, rilevando che la causa era stata effettivamente riassunta nei confronti di tutti i soggetti interessati, non rilevando la diversa qualificazione giuridica dagli stessi dedotta (di eredi ovvero di legatari).

Inoltre la riassunzione, occorrendo avere riguardo alla data del deposito del relativo ricorso, era avvenuta tempestivamente rispetto alla data di comunicazione dell’evento interruttivo.

A fronte dell’eccezione del Be. di difetto di integrità del contraddittorio, per non essere stato evocato in giudizio il b., venditore del fondo, rilevava che la corretta qualificazione giuridica della domanda proposta, escludeva che si trattasse di un’ipotesi di interposizione fittizia di persona, sicchè non era necessaria la partecipazione del terzo alienante.

In merito all’eccezione di nullità della sentenza, per avere il Tribunale d’ufficio rilevato la inidoneità della scrittura ricognitiva del B.F. a produrre l’effetto traslativo, non assicurando il contraddittorio sulla medesima questione, osservava la Corte d’Appello che il tema della qualificazione giuridica della scrittura era stato sempre al centro dell’attenzione difensiva, ben potendo quindi il giudice di primo grado provvedere alla corretta ed autonoma qualificazione della fattispecie.

In ogni caso la parte non aveva indicato quali erano le ragioni che avrebbe potuto far valere qualora fosse stato attivato il contraddittorio tra le parti.

Passando ad esaminare la fondatezza della domanda di accertamento della proprietà ovvero di trasferimento della stessa, reiterate dal Be. con l’appello proposto, secondo la sentenza gravata doveva attribuirsi priorità alla questione relativa alla radicale nullità degli accordi intercorsi tra il Be. ed il B. in quanto idonei ad eludere le previsioni di cui alla L. n. 379 del 1967.

Trattasi, secondo i giudici di appello, di accordi in frode alla legge e quindi del tutto invalidi, senza che tale invalidità possa essere rimossa dal fatto che allo spirare del termine di trenta anni, sia venuto meno il vincolo di inalienabilità.

Andava quindi confermato il rigetto della domanda attorea di accertamento della comproprietà e di divisione del fondo.

Passando alla disamina della domanda restitutoria, rilevava che B.S. e C. non contestavano la qualità di eredi di B.F., laddove invece B.M. ed i figli della figlia premorta del convenuto, Ba.Ma., e precisamente N.M. e Donatella, avevano documentato di avere rinunciato all’eredità del convenuto.

Tuttavia tra gli eredi del B.F. andava annoverata anche la moglie V.M., la quale era rimasta in possesso dei beni del marito senza provvedere alla redazione dell’inventario, divenendone quindi erede, unitamente ai nipoti B.S. e C..

Alla V. erano poi succeduti il figlio B.M. ed i nipoti N.M. e D., subentrando gli stessi quindi anche nell’obbligazione restitutoria gravante sulla V., con l’effetto che ognuna delle controparti del Be. era tenuta a far fronte all’obbligazione vantata dall’attore, per la rispettiva quota ereditaria.

Nel merito riteneva sussistere il diritto dell’attore alla restituzione delle somme a suo tempo versate per l’acquisto e per la ristrutturazione del bene, così come comprovate dall’istruttoria svolta.

In punto però di interessi e rivalutazione, pur riconoscendo la mala fede del B., in quanto partecipe del contratto volto ad eludere le previsioni di cui alla L. n. 379 del 1967, osservava che però risultava applicabile la diversa disposizione di cui all’art. 1282 c.c., comma 3, che in caso di credito da rimborso di spese fatte per cose da restituire, prevede che non decorrono gli interessi per il periodo di tempo in cui chi ha fatto le spese abbia goduto della cosa senza corrispettivo e senza essere tenuto a rendere conto del godimento, sicchè gli interessi e la rivalutazione andavano accordati a partire dalla data intermedia tra quelle in cui era avvenuto il rilascio dei terreni e dell’immobile, e precisamente a far data dall’11 marzo 1997.

Quanto alla rivalutazione monetaria, premesso che trattasi di obbligazione di valuta, la stessa andava riconosciuta ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, ma con la precisazione che gli interessi al tasso legale andavano calcolati sull’importo originario del capitale, che doveva essere poi indipendentemente sottoposto a rivalutazione monetaria.

Infine atteso l’esito complessivo del giudizio, che aveva visto la reciproca soccombenza delle parti, disponeva la compensazione integrale delle spese di entrambi i gradi.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Be.Fr. sulla base di sedici motivi.

B.S., B.C., B.M. e N.D. hanno resistito con controricorso, proponendo a loro volta ricorso incidentale affidato a sette motivi.

Il ricorrente ha presentato controricorso al ricorso incidentale. N.M. non ha svolto difese in questa fase.

La causa è stata chiamata alla pubblica udienza del 22 novembre 2016, in vista della quale i controricorrenti avevano depositato memorie ex art. 378 c.p.c. e la Corte ha ordinato la notifica del ricorso incidentale nei confronti dell’intimato N.M., provvedendosi in tal senso da parte dei controricorrenti.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso principale si denunzia la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 183, 359, 101, 112 e 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Deduce il ricorrente che con il primo motivo di appello aveva contestato la circostanza che il Tribunale d’ufficio avesse rilevato che la dichiarazione sottoscritta dal B.F., contenente il riconoscimento della comproprietà del fondo in capo all’attore, era inidonea a determinare l’effetto traslativo della proprietà, in quanto non poteva sostituire il documento originale, la cui mancanza preclude il verificarsi del trasferimento, per la cui produzione è necessario un atto avente forma scritta ad substantiam.

Si sostiene che laddove il Tribunale avesse sottoposto all’attenzione delle parti la questione in esame, l’attore avrebbe potuto svolgere le sue opportune difese, modificando le domande ovvero le eccezioni e formulando le opportune richieste istruttorie.

Inoltre la controparte aveva eccepito la nullità delle dichiarazioni negoziali per motivi del tutto diversi da quelli riscontrati poi dal Tribunale.

1.1 Il motivo, premesso l’erroneo richiamo in rubrica dell’art. 360 c.p.c., n. 3, posto che la violazione di legge lamentata attiene ad un error in procedendo, è infondato.

1.2 In primo luogo, la censura non coglie la ratio decidendi della sentenza d’appello, la quale ha ritenuto del tutto superfluo indagare circa la portata effettuale della dichiarazione de qua, e la sua idoneità a giustificare il preteso trasferimento della proprietà in favore dell’attore, pervenendo invece ad affermare la nullità (rectius, come si dirà oltre, l’annullabilità degli accordi intercorsi tra le parti), ritenendo tale invalidità assorbente rispetto al diverso profilo, invece indagato dal Tribunale, in ordine alla valenza ricognitiva o traslativa della dichiarazione unilaterale del B..

In ogni caso, pur apparendo condivisibili le motivazioni della Corte distrettuale nella parte in cui escludono il profilo della novità della circostanza posta dal Tribunale a fondamento della sua pronunzia di rigetto, ritenendo che la verifica in merito all’idoneità del meccanismo negoziale individuato dal Be. a giustificare il trasferimento della proprietà del bene era necessariamente implicata dalle contestazioni del convenuto circa la validità della scrittura stessa, la censura mossa non tiene conto di quanto sul punto precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte che, in relazione al quadro processuale anteriore alla modifica di cui all’art. 101 c.p.c., che ha procedimentalizzato il rilievo officioso di una questione che il giudice intenda porre a fondamento della propria decisione, hanno affermato che, laddove la denunziata violazione del contraddittorio sia stata operata dal giudice di primo grado, è necessario che la stessa costituisca oggetto di uno specifico motivo di appello, al fine di rimuovere alcune preclusioni (specie in materia di contro – eccezione o di prove non indispensabili, che l’omesso rilievo abbia impedito di proporre (così Cass. S.U. n. 20935/2009; conf. Cass. n. 8936/2013; Cass. n. 2984/2016).

La doglianza di parte ricorrente, come peraltro sottolineato anche dalla sentenza impugnata (cfr. pag. 28), non appare confarsi a quanto prescritto dalla giurisprudenza di questa Corte, atteso che risulta del tutto carente la specifica indicazione di quali particolari attività processuali siano state precluse per effetto della denunziata violazione, rendendo quindi la stessa inidonea a giustificare la pretesa nullità della sentenza.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 379 del 1967, art. 4, nonchè dell’art. 1444 c.c., comma 2, in quanto la Corte d’Appello ha ravvisato la nullità di ogni accordo intercorso tra le parti, in quanto posto in essere al fine di eludere l’applicazione delle suddette previsioni.

Tuttavia, deve reputarsi che il contratto concluso in violazione del cennato art. 4, sia affetto da annullabilità, con la conseguenza che la successiva sottoscrizione dell’atto di divisione del 23 ottobre 1978 implica una convalida del negozio, in conseguenza della sua volontaria esecuzione.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

2.1 In primo luogo deve evidenziarsi, trattandosi di punto che si pone con carattere preliminare rispetto anche ai successivi motivi di ricorso, che appare effettivamente erroneo il richiamo compiuto dal giudice di merito alla fattispecie della nullità per giustificare l’improduttività di effetti degli accordi intercorsi tra il Be. ed il B., per effetto della violazione di cui alla L. n. 379 del 1967, art. 4, essendo pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, come si avrà modo di illustrare in occasione della disamina del quarto motivo di ricorso, che il legislatore ha inteso sanzionare l’atto in contrasto con il divieto di cessione non autorizzata ed a soggetto privo della qualifica di coltivatore diretto, con la previsione dell’annullamento del contratto, così come chiaramente disposto dall’art. 6 della medesima legge.

Trattasi però di errore che impone unicamente la correzione della motivazione della sentenza impugnata, ma che non risulta in alcun modo idoneo ad inficiare la sostanziale correttezza della soluzione raggiunta dal giudice di appello.

Infatti, e ribadito che nella fattispecie l’annullabilità dell’accordo era stata puntualmente eccepita dal convenuto (il che rileva ai fini della fondatezza della contro-eccezione di prescrizione), non appare possibile invocare la convalida quale conseguenza dell’atto di divisione successivamente intervenuto tra le parti in relazione al medesimo fondo.

Osta a tale possibilità, in primo luogo la circostanza che anche l’atto dal quale si vorrebbe ricavare l’effetto convalidante, e cioè la divisione, è stato correttamente dichiarato nullo già dal Tribunale, in quanto in evidente contrasto con la previsione di cui alla L. n. 1078 del 1940, art. 3, che prevede la nullità degli atti che abbiano ad oggetto il frazionamento dell’unità poderale, quale quella oggetto di causa, il che induce ad elidere anche il preteso effetto del negozio ai sensi dell’art. 1444 c.c..

2.2 In secondo luogo, come si ricava chiaramente dalla previsione di cui alla L. n. 379 del 1967, art. 6, la fattispecie di invalidità prevista dal legislatore è riconducibile ad un’ipotesi di annullabilità assoluta, essendone rimessa l’iniziativa finalizzata alla sua declaratoria (ovvero alla deduzione dell’eccezione volta a paralizzare la domanda finalizzata all’esecuzione del contratto annullabile) oltre che all’Ente che ha proceduto all’assegnazione, a chiunque vi abbia interesse, e ciò in considerazione anche dell’interesse a tutela del quale la sanzione è prevista, che trascende gli interessi meramente individuali dei contraenti.

Ne consegue che, laddove si verta in un’ipotesi di annullabilità assoluta, così come evidenziato dalla più accorta dottrina, la convalida risulta impedita, non solo e non tanto per la necessità che la convalida sia attuata da tutti i soggetti investiti della legittimazione a far valere l’annullabilità, ma altresì in ragione della finalità della sanzione che è posta a tutela di interessi di natura diversa da quelli dei soli contraenti, essendo quindi preclusa la possibilità di valutare la conformità dell’assetto programmato al proprio interesse reale, in funzione del quale è appunto conferito il potere di convalida.

3. Con il terzo motivo si denunzia la violazione dell’art. 2907 c.c., in quanto il Tribunale di Pisa aveva stabilito che la violazione della L. n. 379 del 1967, art. 4, era motivo di annullabilità e non di nullità, senza che la decisione fosse stata sul punto gravata.

Con il quarto motivo si denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, nonchè la violazione e falsa applicazione della L. n. 379 del 1967, art. 4.

Si evidenzia che la Corte d’appello ha erroneamente ravvisato un’ipotesi di nullità, anzichè di semplice annullabilità negli accordi intercorsi tra le parti, trascurando che la norma de qua prevede una fattispecie di annullabilità.

Con il quinto motivo si denunzia la sussistenza del vizio motivazionale nonchè la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla L. n. 379 del 1967, art. 4, nonchè degli artt. 1476, 1477 e 1498 c.c..

Infatti il Be. con un motivo di appello aveva dedotto l’erroneità della decisione del Tribunale che aveva rilevato d’ufficio l’invalidità delle intese intercorse tra le parti.

Peraltro, il convenuto si era limitato ad eccepire la sola annullabilità del contratto, ma non la nullità, sicchè la pronunzia adottata dal Tribunale violava la previsione di cui all’art. 112 c.p.c..

Inoltre la deduzione del B. era avvenuta a distanza di oltre dieci anni dall’accordo, ed allorquando, con la propria condotta, aveva manifestato la volontà di rinunziare a far valere l’invalidità dell’intesa.

3.1 I motivi che per la loro connessione devono essere esaminati congiuntamente sono infondati.

Effettivamente, come già sopra evidenziato, erronea appare la qualificazione della previsione di cui alla L. n. 379 del 1967, art. 6, come idonea a dar vita ad una fattispecie di nullità negoziale, essendo del tutto pacifico nella giurisprudenza della Corte, come peraltro confermato dal tenore letterale della norma, che in tal caso il legislatore abbia configurato un’ipotesi di annullabilità, ancorchè assoluta, del contratto idoneo a violare le previsioni di cui agli artt. 4 ed 8 della stessa legge, e quindi, per quanto rileva in questa sede, del contratto con il quale le parti abbiano inteso trasferire, ovvero si siano impegnate a trasferire (prima della scadenza del vincolo trentennale) la proprietà di un terreno oggetto di assegnazione fondiaria, senza l’autorizzazione dell’ente che ha proceduto all’assegnazione ed a favore di soggetto privo della qualifica di coltivatore diretto, come il Be. (cfr. Cass. n. 10577/2012; Cass. n. 14564/2004, secondo cui se il fondo è alienato a soggetto, condizioni e prezzo diversi da quelli indicati nell’art. 4, di quest’ultima legge, il contratto è annullabile, ai sensi dell’art. 6 della medesima, e l’azione, esperibile da chiunque vi ha interesse, si prescrive in cinque anni dalla sua stipulazione).

Tuttavia essendo pacifico, come riconosciuto dallo stesso ricorrente che il convenuto aveva eccepito l’invalidità del contratto ai sensi della norma de qua, e che le conseguenze del suo rilievo, anche se solo sotto il profilo dell’eccezione, sono idonee a privare l’accordo stesso della sua efficacia, impedendo quindi di riconoscere la comproprietà del bene ovvero, nella alternativa ipotesi configurata dall’attore, l’esistenza di un obbligo del convenuto a trasferire in suo favore la quota del 50%, avere affermato che si tratti di nullità costituisce un mero errore qualificatorio, emendabile con la correzione della motivazione della sentenza, senza che ciò abbia ripercussioni sulla correttezza della soluzione raggiunta.

Ne viene, una volta ricondotta la qualificazione della patologia di cui è affetto l’accordo tra le parti, alla previsione di annullabilità del contratto, che risultano immediatamente privi di fondatezza sia il terzo motivo (posto che si conferma la conclusione circa l’annullabilità del negozio, come sostenuto dal giudice di primo grado), sia il quarto motivo.

In merito poi al quinto motivo, premesso che come si rileva dalla formulazione delle conclusioni di parte convenuta quali riportate nella sentenza non definitiva del Tribunale del 3 febbraio 1996, nell’invocare la violazione della L. n. 379 del 1967, art. 4, si chiedeva dichiararsi la nullità ovvero l’annullamento della cessione in favore del Be., il che denota che era stata avanzata anche richiesta di annullamento, deve escludersi che sussista violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Ed, infatti, oltre a doversi richiamare il principio per il quale, a fronte della deduzione dei fatti ad opera della parte, compete al giudice stabilire quali siano le conseguenze in iure derivanti dagli stessi, sicchè, anche a fronte dell’affermazione della sussistenza di una causa di nullità, ben avrebbe potuto il giudice di ufficio pervenire alla declaratoria di annullamento, deve ricordarsi che secondo la giurisprudenza di questa Corte, non può essere individuata una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nel caso in cui il giudice, pur investito di una domanda di nullità, provveda ad accertare l’annullabilità del contratto (in tal senso Cass. n. 15981/2007, citata anche nella sentenza gravata e la conforme Cass. n. 16708/2002, a mente della quale la domanda giudiziale con cui la parte intenda far accertare la nullità di un contratto, al fine di poterne disconoscere gli effetti, si pone, rispetto ad un’ipotetica domanda di annullamento di quel medesimo contratto dipendente da una invalidità meno grave, nei termini di maggiore a minore).

Ne consegue che non eccede i limiti della domanda la sentenza che, in luogo della richiesta declaratoria di radicale nullità di un contratto, ne pronunci l’annullamento, ove quest’ultimo risulti fondato sui medesimi fatti.

4. Il sesto motivo di ricorso lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, nonchè la violazione e falsa applicazione dell’articolo unico della L. n. 191 del 1992, nonchè della L. n. 1078 del 1940, richiamata dalla L. n. 379 del 1967, art. 4, nonchè la violazione della L. n. 379 del 1967, artt. 4 e 6.

Assume il ricorrente che l’articolo unico della L. n. 191 del 1992, ha disposto che il divieto di frazionamento delle unità poderali di cui alla L. n. 1078 del 1940, art. 1, abbia durata trentennale dalla sua prima assegnazione. Per l’effetto una volta trascorso il trentennio dalla detta assegnazione, il fondo era divisibile.

Ne discende che alla data della sentenza l’immobile oggetto di causa era divisibile.

Risulta altresì erronea l’affermazione della sentenza nella parte in cui afferma che la promessa di trasferimento sottoscritta dalle parti prima della scadenza del trentennio avrebbe portata elusiva del divieto normativo.

Inoltre andrebbe affermata la validità del pactum fiduciae sottoscritto dal B. a seguito dell’acquisto dell’immobile, essendo possibile rimuovere il vincolo di indivisibilità, allorchè il bene sia divisibile in più unità fondiarie, ai sensi della L. n. 379 del 1967, art. 10.

Infine, se anche dovesse reputarsi che la L. n. 191 del 1992, non abbia portata retroattiva, il negozio fiduciario è perfettamente valido, in quanto nulla impedisce che in presenza del vincolo di indivisibilità, il bene possa appartenere a più soggetti.

4.1 Anche tale motivo è destituito di fondamento.

In primo luogo parte ricorrente opera un’indebita confusione tra gli effetti della L. n. 191 del 1992, che effettivamente ha posto un limite trentennale alla situazione di indivisibilità dei fondi, con la diversa previsione di cui alla L. n. 379 del 1967, artt. 4 e 6, che viceversa non sono interessati dalla novella. Quest’ultima, infatti, con una disciplina destinata ad operare solo per il futuro, ha previsto che il divieto di frazionamento delle unità poderali di cui alla L. 3 giugno 1940, n. 1078, art. 1, ha durata trentennale dalla prima assegnazione.

Trattasi però di norma che è stata costantemente interpretata nel senso che abbia portata innovativa e non meramente interpretativa delle precedenti disposizioni, poichè modifica il regime giuridico vigente, eliminando il vincolo d’indivisibilità perpetua ed introducendo quello di durata temporanea trentennale dalla prima assegnazione. Ne consegue che gli atti di divisione del podere stipulati prima dell’entrata in vigore della citata legge del 1992 sono affetti da nullità assoluta ed insanabile, perchè contrari a norma imperativa (Cass. n. 212/2006; Cass. n. 9636/2008).

Ne discende che in relazione alla declaratoria di nullità della scrittura divisionale del 23/10/1978, alla quale il ricorrente annette anche l’effetto di convalida, la norma sopravvenuta non ha alcuna rilevanza, confermandosi pertanto la sua contrarietà alla norma imperativa all’epoca vigente.

La novella poi non ha in alcun modo innovato rispetto alla disposizione di cui alla L. n. 379 del 1967, art. 4, restando quindi operante il divieto di procedere ad alienazioni o cessioni di fondi in favore di soggetti privi della qualifica soggettiva, ovvero senza il rispetto delle condizioni previste dalla legge.

Ciò comporta che l’accordo intercorso tra le parti, ed in disparte il problema della mancanza di prova della sua esistenza mediante la produzione di una scrittura avente i requisiti di forma ad substantiam, questione a suo tempo rilevata dal giudice di primo grado (non potendosi a tal fine attribuire rilievo alla dichiarazione unilaterale ricognitiva del solo B., cfr. sul punto Cass. n. 10163/2011, secondo cui ove il patto fiduciario abbia ad oggetto beni immobili, dovendo risultare da un atto avente forma scritta “ad substantiam”, non può essere sostituito da una dichiarazione confessoria proveniente dall’altra parte, non valendo tale dichiarazione nè quale elemento integrante il contratto nè – anche quando contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo; conf. Cass. n. 5565/2001; Cass. n. 9687/2003), resta comunque annullabile, e come tale inidoneo a produrre gli effetti invocati dal ricorrente.

Ne consegue che una volta esclusa la possibilità di ritenere prodottosi l’effetto traslativo in favore del Be., deve escludersi altresì che alla data della sentenza ovvero all’attualità esista una situazione di comunione tra le parti, il che rende del tutto irrilevante la circostanza che nelle more sia decorso il termine trentennale dall’assegnazione, e che quindi oggi sarebbe potenzialmente possibile dividere il bene.

Quanto, invece alla pretesa idoneità della scrittura a firma del B. a generare l’obbligo di trasferimento quale adempimento del pactum fiduciae intercorso tra le parti, del tutto condivisibili appaiono le considerazioni sviluppate al giudice di appello che avvalendosi del potere di provvedere alla genuina interpretazione della volontà delle parti, e senza che sul punto il motivo di ricorso risulti idoneo a confutare la correttezza logico argomentativa dell’operazione ermeneutica compiuta dalla sentenza gravata, ha ritenuto che le parti in ogni caso non avevano inteso rimandare al futuro, e precisamente ad un’epoca successiva al venir meno del vincolo, il trasferimento della proprietà in capo al Be., sicchè era evidente la contrarietà dell’intesa alle previsioni di cui alla L. n. 379 del 1967.

Del tutto nuova, e comunque necessitante di accertamenti in fatto, è la questione concernente la pretesa applicazione della L. n. 379 del 1967, art. 10, circa la possibilità di poter procedere alla rimozione del vincolo di indivisibilità in via giudiziale, in quanto, in assenza di qualsivoglia riferimento alla stessa contenuto in sentenza, la parte avrebbe dovuto quanto meno allegare in quale fase processuale la questione stessa era stata in precedenza dedotta in giudizio.

Tuttavia, al di là dell’inammissibilità discendente dal segnalato profilo di novità, valga rilevare che la rimozione del vincolo de quo presuppone la proposizione di un’autonoma domanda giudiziaria, che non risulta essere stata avanzata, ma ancor di più, che a monte esista una situazione di comunione, per il cui scioglimento si invoca la rimozione del vincolo di indivisibilità, laddove, per quanto sopra esposto, la invalidità degli accordi fiduciari intercorsi tra il Be. ed il B. preclude la stessa insorgenza della comunione fra gli stessi.

La ribadita nullità dell’atto di divisione, e l’impossibilità di attribuire allo stesso efficacia convalidante degli accordi in violazione della L. n. 379 del 1967, art. 6, dà altresì contezza della possibilità per il B. di poter sollevare l’eccezione di annullamento, non potendosi a tal fine invocare la maturazione della prescrizione di siffatta facoltà, stante la regola di imprescrittibilità dell’eccezione di annullamento di cui all’art. 1442 c.c., comma 4.

5. Il settimo motivo denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1414, 2932 e 102 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Infatti, la Corte distrettuale ha omesso di valutare la fondatezza della domanda, riproposta dal Be. in sede di appello, finalizzata a far dichiarare l’interposizione fittizia del contratto di acquisto del fondo del 15/3/1973, riconoscendo che l’attore era quindi divenuto acquirente per la quota del 50%.

5.1 Il motivo è da rigettare.

La Corte di Appello, ancorchè in relazione alla doglianza concernente la mancata partecipazione al giudizio del venditore del fondo, ha con ampia ed articolata motivazione, spiegato le ragioni per le quali doveva escludersi che nella fattispecie ricorresse un’ipotesi di interposizione fittizia di persona, non essendosi mai dedotto che il venditore fosse partecipe dell’accordo simulatorio, requisito indispensabile affinchè possa rilevarsi una fattispecie di simulazione relativa soggettiva.

Con richiamo anche a precedenti di questa Corte, si è quindi sottolineato che l’accordo in merito alla effettiva proprietà del bene avesse un rilievo meramente interno, che determinava l’inquadramento della vicenda nell’ambito dell’interposizione reale di persona.

A fronte di tale motivazione, il ricorrente in maniera apodittica sostiene che si verta in una fattispecie di simulazione soggettiva, ma lo stesso riassunto del contenuto della dichiarazione sottoscritta dal B., che a suo dire fornirebbe la prova di tale assunto, conforta vieppiù la correttezza dell’inquadramento giuridico offerto dalla Corte territoriale.

Inoltre, l’auspicato diverso inquadramento giuridico della vicenda, in ogni caso non sortirebbe alcun effetto favorevole per la posizione del Be., posto che anche laddove si reputi che il riconoscimento della comproprietà in suo favore, sia frutto di un accordo trilaterale del quale era partecipe anche il venditore, accordo avente natura simulatoria, lo stesso si potrebbe egualmente in violazione della L. n. 379 del 1967, artt. 4 e 6, incorrendo le parti nella sanzione dell’annullabilità.

6. Con l’ottavo motivo si lamenta l’omessa, insufficiente e contradditoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, nonchè la violazione dell’art. 1414 c.c. e art. 102 c.p.c., atteso che la sentenza ha omesso di prendere in considerazione la domanda di simulazione relativa soggettiva del contratto di acquisto del fondo, sicchè il rigetto della domanda è stato assunto in assenza di motivazione.

Inoltre, una volta richiesto l’accertamento della simulazione, si imponeva la partecipazione al giudizio nella qualità di litisconsorte necessario anche del venditore del bene, sicchè sussiste una violazione del litisconsorzio necessario che determina la nullità della sentenza.

6.1 Il motivo è egualmente infondato.

Ed, infatti deve escludersi la dedotta violazione dell’obbligo di motivazione ad opera del giudice del merito, avendo la sentenza ampiamente esposto alle pagg. da 26 a 28, le ragioni per le quali, alla luce della stessa prospettazione dei fatti operata dall’attore, la corretta qualificazione della vicenda dovesse essere operata facendo riferimento alla figura del negozio fiduciario, evidenziando altresì che la deduzione solo in appello della partecipazione del b. all’intesa tra attore e convenuto, costituiva una inammissibile modifica delle allegazioni in fatto.

Tale affermazione non risulta in alcun modo oggetto di censura da parte del ricorrente, il che conferma la sostanziale novità della domanda di interposizione fittizia, avanzata solo in grado di appello, come confermato altresì dal fatto che i mezzi istruttori destinati a fornire la prova di tale vicenda, e di cui si fa menzione in motivo, erano stati articolati solo in secondo grado.

Tuttavia, deve escludersi la violazione del principio del litisconsorzio necessario, alla luce del fatto che appare pacifico tra le parti che il prezzo della compravendita, ancorchè in parte con denaro fornito dal Be., era stato integralmente versato al venditore.

Tale situazione implica che debba farsi applicazione di quanto di recente precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte che, con la sentenza n. 11523/2013, hanno affermato, innovando rispetto alla precedente giurisprudenza, che nel giudizio avente ad oggetto la simulazione relativa di una compravendita per interposizione fittizia dell’acquirente, l’alienante non riveste la qualità di litisconsorte necessario, se nei suoi confronti il contratto sia stato integralmente eseguito, mediante adempimento degli obblighi tipici di trasferimento del bene e di pagamento del prezzo, e non venga dedotto ed allegato l’interesse dello stesso ad essere parte del processo, ovvero la consapevolezza e volontà del venditore di aderire all’accordo simulatorio, rimanendo, di regola, irrilevante per chi vende la modifica soggettiva della parte venditrice e perciò integralmente efficace l’accertamento giudiziale compiuto nei soli confronti dell’interposto e dell’interponente.

Deve per l’effetto escludersi che sussistesse un effettivo interesse del venditore alla partecipazione al presente giudizio, e che pertanto possa invocarsi la violazione dell’art. 102 c.p.c..

7. Il nono motivo denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza circa un fatto decisivo per il giudizio e la violazione dell’art. 1399 c.c..

Infatti, la sentenza gravata ha omesso di pronunciarsi sulla deduzione dell’appellante secondo cui la successiva dichiarazione unilaterale del B. valeva come ratifica dell’acquisto operato dallo stesso B. su mandato dell’attore, così come valore di ratifica andava attribuito al successivo atto di divisione.

7.1 Ed invero in disparte l’inappropriato richiamo all’istituto della ratifica, in assenza di un acquisto operato dal B. in nome e per conto del Be., e dovendo la ratifica in ogni caso essere compiuta dal rappresentato, e cioè dal Be., e non anche dal rappresentante, e cioè il B., sempre nella costruzione del motivo operata da parte ricorrente, il ragionamento risulta in ogni caso travolto a monte dalla rilevata invalidità di ogni accordo intervenuto tra le parti, sia sotto forma di impegno a riconoscere la comproprietà del bene in favore dell’attore, sia come impegno a trasferire una quota del bene medesimo, per risultare in contrasto con le prescrizioni di cui alla L. n. 379 del 1967, art. 4.

Il motivo deve quindi essere rigettato.

8. Il decimo motivo denunzia l’omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, nonchè la violazione degli artt. 1392 e 1350 c.c., non avendo la Corte toscana preso in esame il motivo di appello con il quale si deduceva l’esistenza di un mandato ad acquistare conferito dall’attore al convenuto.

8.1 Le suesposte considerazioni circa la portata assorbente dell’invalidità riscontrata dalla sentenza di appello giustifica il rigetto del motivo, occorrendo comunque sottolineare che l’inquadramento della vicenda nell’ambito di un fenomeno di interposizione reale di persona dimostra che, attesa l’evidente assimilazione che, anche in dottrina, si compie tra pactum fiduciae e mandato ad acquistare, la tesi di parte ricorrente è stata ben tenuta presente dalla Corte di merito, che come detto ha tuttavia reputato risolutiva, ed in senso sfavorevole alla tesi dell’attore, l’impossibilità di ricondurre effetti al meccanismo di interposizione voluto dalle parti, in quanto annullabile.

9. Le ragioni che hanno determinato il rigetto del nono e del decimo motivo, giustificano anche il rigetto dell’undicesimo motivo che denunzia l’omessa ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia e la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 2932 c.c..

Ed, infatti, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, la sentenza lungi dall’omettere di prendere in considerazione la pretesa esistenza di un obbligo di trasferimento della comproprietà del bene, quale scaturente dalle intese intervenute ab origine tra le parti, ha ritenuto assorbente e prevalente la riscontrata invalidità per la loro idoneità a frustrare le finalità di cui alla L. n. 379 del 1967.

10. Il dodicesimo motivo lamenta l’omessa ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia nonchè la violazione e falsa applicazione della L. n. 379 del 1967, art. 6 e della L. n. 1078 del 1940, art. 1.

Si richiama poi la possibilità di ottenere la rimozione del vincolo ai sensi della L. n. 379 del 1967, art. 10 e gli effetti di cui alla L. n. 191 del 1992.

Si assume che l’annullabilità del contratto non era mai stata eccepita e che comunque l’eccezione era prescritta, sicchè la Corte di merito ha omesso di pronunciarsi sulla domanda di divisione del bene, atteso che alla data della sentenza erano trascorsi oltre trent’anni dalla prima assegnazione.

10.1 Il motivo si risolve sostanzialmente nella reiterazione delle tesi difensive di cui al sesto motivo di ricorso, occorrendo quindi pervenire al suo rigetto, mediante rinvio alle argomentazioni già espresse al punto 5.1 che precede.

11. L’ordine logico delle questioni impone poi la preventiva disamina del sedicesimo motivo di ricorso, che laddove si rivelasse fondato, determinerebbe l’assorbimento dei tre che lo precedono.

Lo stesso denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione nonchè la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c..

Infatti, si deduce che a fronte della sentenza del Tribunale che aveva disposto che gli interessi sulle somme dovute a titolo restitutorio in favore dell’attore, dovessero decorrere dalla data della consegna dell’importo pari al 50% del prezzo e delle spese fatte d’intesa con il B., le controparti avevano proposto appello solo sull’assenza di miglioramenti tuttora in essere alla data della decisione, sicchè in assenza di impugnazione sulla data di decorrenza, la Corte d’Appello non poteva modificarla, stante la formazione del giudicato.

11.1 La deduzione è palesemente destituita di fondamento, atteso che, come si ricava dalla ricapitolazione in sintesi dei motivi di appello proposti da B.S. e C., così come effettuata nella sentenza impugnata, si evidenzia la proposizione del decimo motivo di appello, che appunto invocava l’applicazione dell’art. 1282 c.c., comma 3.

12. Il tredicesimo motivo di ricorso lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nonchè la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c. e art. 1282 c.c., comma 3, in quanto la sentenza gravata ha affermato che, pur ravvisandosi la mala fede del B., e quindi prospettandosi l’applicabilità dell’art. 2033 c.c., tuttavia gli interessi potevano decorrere a favore del Be. sulle somme dovute a titolo di ripetizione dell’indebito, solo a far data dalla riconsegna dei beni, reputandosi quindi applicabile la previsione di cui all’art. 1282 c.c., comma 3.

La decisione impugnata ha però erroneamente dato prevalenza all’art. 1282, a discapito dell’art. 2033, che è noma speciale e derogatoria.

Il quattordicesimo motivo denunzia sempre il vizio motivazionale nonchè la violazione degli artt. 1282 e 2033 c.c., in quanto alla base del ragionamento della Corte di appello, nel dare applicazione all’art. 1282 c.c., comma 3, vi sarebbe il convincimento che il ricorrente avesse goduto dell’immobile in relazione al quale aveva maturato il diritto al rimborso delle spese, senza versare alcun corrispettivo, trascurando però che l’attore aveva provveduto al pagamento della metà del prezzo e delle spese di ristrutturazione, dovendosi quindi escludere che il godimento fosse avvenuto senza corrispettivo.

Il quindicesimo motivo denunzia poi, sempre accanto al vizio di motivazione, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1282 e 2033 c.c., in quanto la sentenza di appello, reputando applicabile l’art. 1282 c.c., comma 3, aveva trascurato che l’importo da restituire in favore dell’attore era costituito in parte dal corrispettivo pagato per l’acquisto del bene ed in parte da quanto il Be. aveva speso per le opere eseguite d’intesa con il B.. Ne consegue che per le somme dovute a titolo di restituzione del prezzo versato non può comunque trovare applicazione la previsione di cui all’art. 1282 c.c.

12.1 I tre motivi attesa la intima connessione delle questioni che involgono, possono essere congiuntamente trattati.

Ritiene il Collegio di dover propendere per la tesi della specialità della previsione dettata dall’art. 2033 c.c. e con la conseguente sua prevalenza rispetto all’applicazione della diversa previsione di cui all’art. 1282 c.c., comma 3, trattandosi appunto di una disposizione destinata ad approntare una specifica sanzione per l’accipiens in mala fede.

Inoltre non deve trascurarsi che la sentenza ha accomunato in una sola statuizione la sorte sia delle somme dovute a titolo di rimborso spese che delle somme dovute per rimborso prezzo per le quali invece dovrebbero risultare inapplicabile in ogni caso alla previsione di cui all’art. 1282 c.c., comma 3, non trattandosi appunto di spese sostenute per le cose da restituire Ancora l’affermazione del giudice di merito presuppone la legittimità del titolo in base al quale è avvenuto il godimento del bene da parte del ricorrente e la conseguente legittimità della fruizione dei frutti, posto che la lettera e la ratio dell’art. 1282 c.c., sottendono che si tratti di un rimborso per spese sostenute da chi aveva un legittimo titolo per detenere, mentre nel caso di specie si può affermare, in ragione dell’accertata invalidità degli eventuali accordi intercorsi tra le parti, che mancava ab initio un valido titolo giustificativo sia per il godimento che per il contributo alle spese, sicchè il tutto è destinato ad essere ricondotto alla disciplina in tema di ripetizione di indebito.

Infine, non deve trascurarsi quanto si osserverà in occasione della disamina del quarto motivo del ricorso incidentale, il cui accoglimento, come si ha modo di anticipare sul punto, implica il riconoscimento dell’obbligo in capo al Be. di rendere conto, quanto meno ai fini della compensazione con il credito ora in esame, dei frutti goduti medio tempore, venendo quindi meno il presupposto applicativo della diversa previsione di cui all’art. 1282 c.c., comma 3, applicata invece dal giudice di appello.

I motivi vanno pertanto accolti con la conseguente cassazione sul punto della sentenza impugnata.

13. Il primo motivo del ricorso incidentale assume la rinuncia da parte del ricorrente alla rivalutazione monetaria sulle somme allo stesso spettanti, in quanto nella trascrizione delle conclusioni del ricorso non risulta avanzata alcuna domanda in merito alla rivalutazione.

13.1 Il motivo è inammissibile in quanto non appare riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di vizio suscettibile di essere dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., denotandosi altresì l’assenza di qualsivoglia critica alla decisione del giudice di appello, ma solo l’intento di attribuire una determinata valenza ad una condotta processuale della controparte successiva alla definizione del giudizio di appello.

14. Il secondo motivo del ricorso incidentale denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 565, 566, 649 e 480 c.c., in relazione al mancato accoglimento dell’eccezione di carenza di legittimazione passiva di B.S. e C., nonchè sul medesimo punto, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Si rileva che la sentenza gravata ha disatteso l’eccezione già sollevata in sede di appello, assumendo che i ricorrenti incidentali, figli di B.M., e quindi nipoti di B.F., non avevano contestato la loro qualità di eredi del defunto convenuto.

Si assume invece che gli stessi sono intervenuti in giudizio in quanto legatari, posto che B.F. con testamento aveva lasciato loro in legato il podere (OMISSIS).

Deve quindi escludersi che siano eredi del convenuto e che, a seguito della rinunzia all’eredità da parte del genitore B.M., abbiano posto in essere atti di accettazione dell’eredità del nonno.

Inoltre, a seguito della morte della nonna V.M., alla sua successione sono risultati chiamati il figlio B.M., ed i nipoti ex filia premorta, N.M. e Donatella, dovendosi quindi escludere la loro qualità di eredi anche rispetto a tale diverso compendio ereditario.

14.1 Il motivo difetta di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, atteso che i ricorrenti incidentali, pur riconoscendo di essere stati beneficati con il testamento del defunto B.F., assumono che la disposizione in loro favore andrebbe qualificata in termini di legato.

Tuttavia hanno omesso di riportare il contenuto del testamento, onde consentire a questa Corte di apprezzare se la disposizione della quale sono beneficiari, sebbene avente ad oggetto una res certa, possa effettivamente essere apprezzata alla stregua di un legato ovvero se non valga, come implicitamente opinato dal giudice di merito, ed anche in relazione al complesso delle altre disposizioni testamentarie, quale institutio ex certa re.

15. Il terzo motivo del ricorso incidentale lamenta la violazione degli artt. 566, 481 e 521 c.c., in relazione al mancato accoglimento dell’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata da B.M., N.M. e N.D., per non essere gli stessi eredi di V.M., avendo quest’ultima rinunziato all’eredità del marito.

In relazione alla medesima affermazione si denunzia anche l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

La sentenza di appello ha disatteso l’eccezione de qua osservando che se il B.M. ed i N. avevano rinunziato all’eredità del convenuto, tuttavia la di lui moglie, V.M., era rimasta a lungo nel possesso dei beni del marito, senza redigere l’inventario, non potendo quindi essere considerata usufruttuaria ovvero legataria. L’acquisto della qualità di erede ne determinava la responsabilità per i debiti ereditari, nei quali erano poi succeduti B.M. ed i N., quali eredi della V..

Si deduce che tale ragionamento è erroneo, in quanto la V. era stata nominata usufruttuaria generale dei beni del marito, e che a seguito di actio interrogatoria esperita dallo stesso Be., aveva fatto decorrere il termine assegnato dal Pretore per la dichiarazione di accettazione, senza effettuare alcuna dichiarazione, perdendo quindi il diritto di accettare.

15.1 Anche tale motivo difetta di specificità.

Infatti, il ragionamento della Corte distrettuale presuppone la qualifica di chiamata in capo alla V., sul presupposto che la stessa non fosse semplice legataria, avendo altresì osservato che, essendo nel possesso dei beni ereditari, anche l’inutile decorso del termine assegnato ai sensi dell’art. 481 c.c., non impediva l’acquisto ex lege della qualità di erede, per effetto della previsione di cui all’art. 485 c.c..

Al fine di contrastare tale affermazione sarebbe stato necessario trascrivere in ricorso il contenuto del testamento di B.F., onde apprezzare l’effettiva portata delle disposizioni testamentarie in favore della V. (e ciò a prescindere dalla contrastata questione concernente la corretta qualificazione da assegnare all’attribuzione della qualità di usufruttuario generale, in termini di legato ovvero di istituzione di erede).

Peraltro, risalendo il decesso del convenuto alla data del 4 marzo 1996, alla scadenza del termine di tre mesi concesso dal Pretore ai sensi dell’art. 481 c.c., all’esito dell’udienza del 17/1/1997, il termine di cui all’art. 485 c.c., sarebbe comunque abbondantemente decorso, sicchè la decadenza prevista dalla norma richiamata dai ricorrenti incidentali non potrebbe in ogni caso operare a fronte dell’avvenuto acquisto della qualità di erede ex lege, per effetto della mancata redazione dell’inventario da parte del chiamato che si trova nel possesso dei beni ereditari. Ne consegue altresì che nei confronti della medesima non poteva a monte operare la previsione di cui all’art. 481 c.c., avendo già perso alla data di fissazione del termine, la qualità di chiamata, per essere già divenuta erede.

16. Il quarto motivo di ricorso incidentale denunzia la violazione dell’art. 1148 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in merito al mancato accoglimento dell’eccezione di compensazione delle somme dovute al Be. con i frutti dallo stesso percepiti, dalla data della domanda giudiziale, sino al rilascio dei beni.

In tale ottica la Corte distrettuale aveva omesso di dare applicazione all’art. 1148 c.c., che impone, dopo la proposizione della domanda giudiziale, l’obbligo del possessore di restituzione dei frutti percepiti e di quelli che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia.

Si osserva che tale eccezione era stata tempestivamente sollevata nella comparsa di risposta in sede di reclamo avverso il diniego del provvedimento di sequestro richiesto dall’attore, e reiterata nei successivi scritti difensivi in Tribunale.

Tuttavia la sentenza definitiva del Tribunale aveva disatteso la stessa, che era stata poi riproposta in appello con uno specifico motivo, laddove la Corte di appello aveva motivato unicamente circa la pretesa applicabilità dell’art. 1282 c.c., comma 3, ritenendo tecnicamente non configurabile una compensazione tra le rispettive poste creditorie.

16.1 Il motivo è fondato atteso che a fronte della puntuale reiterazione dell’eccezione de qua, la Corte di Appello si è limitata a fare applicazione, peraltro in maniera erronea della norma di cui all’art. 1282 c.c., comma 3, senza in alcun modo motivare circa le ragioni del mancato accoglimento dell’eccezione de qua.

La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata in parte qua, con rinvio per un nuovo esame nel merito, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Firenze.

17. Il quinto motivo di ricorso incidentale denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza in ordine all’accertamento della mala fede del B.F., in relazione alla applicazione dell’art. 2033 c.c..

Si sostiene che l’affermazione circa il fatto che il B. avesse tradito la fiducia del Be. era contraddetta dal fatto che nella stessa sentenza si dava atto che inizialmente le parti avevano invece rispettato gli accordi presi.

Doveva quindi ritenersi che fosse stato il Be. a non accontentarsi più della situazione di fatto creatasi, il che esclude che possa ravvisarsi la mala fede del loro dante causa.

17.1 Il motivo è inammissibile posto che con lo stesso si mira surrettiziamente ad ottenere un diverso apprezzamento dei fatti di causa così come invece operato dal giudice di merito il quale ha con motivazione congrua e logica evidenziato le ragioni per le quali il B. doveva ritenersi in mala fede, essendo consapevole dell’idoneità dell’accordo a violare le previsioni sanzionate con l’annullabilità, che lui stesso aveva eccepito.

18. Il sesto motivo di ricorso incidentale denunzia la violazione dell’art. 1150 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto concernente il diritto al rimborso delle spese sostenute dal Be. per riparazioni straordinarie e miglioramenti.

Infatti, si sostiene che il diritto al rimborso per i miglioramenti presuppone che gli stessi sussistano al tempo della restituzione.

Nella specie la Corte di merito ha errato nel non accogliere tale eccezione, qualificando incongruamente gli interventi per i quali aveva effettuato gli esborsi il ricorrente principale, quali interventi di manutenzione straordinaria, recependo la determinazione sul punto del Tribunale.

18.1 Anche tale motivo deve essere rigettato risolvendosi in una sostanziale richiesta di rivalutazione dei fatti di causa, e limitandosi a contestare la qualificazione degli interventi in termini di manutenzione straordinaria in luogo di miglioramenti, mirando anche in tal caso ad ottenere un diverso apprezzamento di circostanze di fatto, che invece risultano oggetto di ampia ed argomentata motivazione ad opera del giudice di merito, con puntuale rinvio anche alle fonti del proprio convincimento.

19. Il settimo motivo del ricorso incidentale, infine, denunzia la violazione dell’art. 1295 c.c., nonchè l’omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione in ordine al riparto dell’obbligazione restitutoria tra gli eredi del convenuto.

Infatti, anche per l’ipotesi di rigetto del secondo e del terzo motivo di ricorso incidentale, si sottolinea che, non essendo tutti i controricorrenti eredi diretti del convenuto, non potrebbero rispondere di un debito di quest’ultimo.

19.1 Il motivo è infondato.

Ed, invero alla luce del rigetto degli altri motivi del ricorso incidentale concernenti il preteso difetto di legittimazione passiva, è emerso che B.C. e S. sono eredi diretti del convenuto, e che i germani N. e B.M., in quanto eredi di V.M., sono succeduti pro quota nel debito ereditario di B.F., gravante appunto sulla V..

La sentenza impugnata, lungi dal prevedere una condanna in solido tra tutti gli intimati, ha correttamente previsto che gli stessi debbano rispondere per la rispettiva quota ereditaria, e ciò in conformità di quanto previsto dall’art. 754 c.c., dovendosi poi procedere alla determinazione di tale quota in ragione anche delle modalità attraverso le quali è stato ripartito tra la V. e B.C. e S. il patrimonio del B.F., e tra B.M. ed i germani N., il patrimonio della V..

20. La sentenza gravata deve quindi essere cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Appello di Firenze che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

 

La Corte, accoglie il 13, 14 e 15 motivo del ricorso principale nonchè il quarto motivo del ricorso incidentale, e rigettati gli altri motivi del ricorso principale ed incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Firenze, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2017

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