Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15265 del 24/06/2010

Cassazione civile sez. II, 24/06/2010, (ud. 16/03/2010, dep. 24/06/2010), n.15265

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

EQUITALIA GERIT s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Barberini n. 52,

presso lo studio dell’Avvocato PURI Paolo, dal quale è rappresentata

e difesa per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via Virgilio n.

38, presso lo studio dell’Avvocato RONCHIETTO Claudio, dal quale è

rappresentata e difesa per procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

nonchè nei confronti di:

COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza del Giudice di pace di Roma n. 33878 del 2008,

depositata in data 5 agosto 2008.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

16 marzo 2010 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per la resistente, l’Avvocato Claudio Ronchietto;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso in senso conforme alla

relazione.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che EQUITALIA GERIT s.p.a. ha impugnato per cassazione, sulla base di tre motivi, la sentenza del Giudice di pace di Roma, depositata il 5 agosto 2008, con la quale è stata accolta, nel contraddittorio con essa ricorrente e con il Comune di Roma, l’opposizione proposta da G.A. avverso una cartella di pagamento, sul rilievo che la stessa cartella era affetta da nullità per omessa indicazione in essa del responsabile del procedimento, con condanna della sola Equitalia, in quanto soggetto che aveva emesso l’atto con procedura viziata, al pagamento delle spese processuali;

che la ricorrente ha premesso che il ricorso è stato proposto ai sensi dell’art. 339 cod. proc, civ., comma 3, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, a norma del quale “le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’art. 113, comma 2, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme del procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia”, con ciò implicitamente ritenendo che le sentenze emesse secondo equità, come nel caso di specie, siano invece ricorribili per cassazione allorquando vengano dedotti altri motivi;

che, con il primo motivo, ha dedotto violazione e falsa applicazione del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, convertito, con modificazioni, in L. n. 31 del 2008 e formula il seguente quesito:

“Dica la Suprema Corte di cassazione se il Giudice di Pace di Roma, nella sentenza n. 33878/08, abbia omesso di applicare la normativa prevista dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, come convertito dalla L. n. 31 del 2008, recante la “Proroga dei termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni in materia finanziaria”, per le cartelle esattoriali carenti dell’espressa indicazione del nominativo del responsabile del procedimento emesse prima del 1 giugno 2008″;

che, con il secondo motivo, la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, formulando il seguente quesito: “Dica la Suprema Corte di cassazione se il Giudice di Pace di Roma, nella sentenza n. 33878/08, abbia omesso l’applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, il quale dispone che il provvedimento amministrativo non sia annullabile quando, benchè siano state violate norme sul procedimento o sulla forma degli atti, il contenuto dispositivo dello stesso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”;

che, con il terzo motivo, la ricorrente ha infine dedotto violazione della L. n. 241 del 1990, art. 5, comma 1, formulando il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte di cassazione se il Giudice di Pace di Roma, nella sentenza n. 33878/08, abbia omesso l’applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 5, il quale dispone che fino a quando non sia effettuata la designazione del responsabile del procedimento da parte del dirigente di ciascuna unità organizzativa sarà considerato responsabile del procedimento il funzionario preposto all’unità organizzativa stessa”;

che l’intimata G.A. ha resistito con controricorso, eccependo l’inammissibilità del ricorso per inidoneità dei quesiti, e ne ha chiesto comunque il rigetto;

che, essendosi ritenute sussistenti le condizioni per la decisione con il procedimento di cui all’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata redatta relazione ai sensi di tale norma, che è stata notificata alle parti e comunicata al Pubblico Ministero.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il relatore designato, nella relazione depositata in data 11 gennaio 2010, ha formulato la seguente proposta di decisione:

“La sentenza del giudice di pace impugnata è stata depositata il 5 agosto 2008, allorquando era già entrato in vigore il D.Lgs. n. 40 del 2006, che ha modificato il regime della impugnazione delle sentenza del giudice di pace emesse secondo equità, stabilendo che le stesse sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme del procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia.

Trova quindi applicazione il principio secondo cui “dall’assetto scaturito dalla riforma di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, e particolarmente dalla nuova disciplina delle sentenze appellabili e delle sentenze ricorribili per cassazione, emerge con certezza assoluta che, riguardo alle sentenze pronunciate dal giudice di pace nell’ambito del limite della sua giurisdizione equitativa necessaria, l’appello a motivi limitati, previsto dall’art. 339 cod. proc. civ., comma 3, è l’unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso (se si esclude la revocazione per motivi ordinari). Tale conclusione – non desumibile esplicitamente da detta norma, posto che l’avverbio esclusivamente che in essa figura potrebbe apparire riferibile non al mezzo esperibile, bensì ai motivi deducibili con il mezzo stesso, onde l’interprete potrebbe avere il dubbio (peraltro per il solo vizio di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5) che contro la sentenza sia esperibile, prevedendolo altra norma, altra impugnazione ordinaria per i motivi esclusi e segnatamente il ricorso per cassazione – si giustifica, oltre che per un’elementare ragione di coerenza, che esclude un concorso di mezzi di impugnazione non solo per gli stessi motivi, ma anche per motivi che rispetto a quelli ammessi in riferimento ad un mezzo rappresenterebbero un loro allargamento, si giustifica in forza della lettura dell’art. 360 nuovo testo, là dove nel comma 1 prevede l’esperibilità del ricorso per cassazione soltanto contro le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado. Poichè la sentenza equitativa del giudice di pace non è nè una sentenza pronunciata in grado di appello nè una sentenza pronunciata in unico grado (atteso che è, sia pure per motivi limitati, appellabile e, dunque, è sentenza di primo grado), appare evidente che essa non è sottoponibile a ricorso per cassazione per i vizi diversi da quelli indicati dal comma 3 dell’art. 339 e particolarmente per quello di cui al n. 5 dell’art. 360. Nè, d’altro canto è ipotizzabile la configurabilità del ricorso per cassazione per il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 sulla base dell’u.c., del nuovo testo dello stesso art. 360, che ammette il ricorso per cassazione contro le sentenze ed i provvedimenti diversi dalla sentenza per i quali – a norma dell’art. 111 Cost., comma 7 – è ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge per tutti i motivi di cui al primo comma e, quindi, nelle intenzioni del legislatore, anche per quello di cui al n. 5 citato. Invero, la sentenza del giudice di pace pronunciata nell’ambito della giurisdizione equitativa, essendo appellabile, sia pure per motivi limitati, sfugge all’ambito di applicazione del suddetto comma 7, che pertiene alle sentenze ed ai provvedimenti aventi natura di sentenza in senso c.d. sostanziale, per cui non sia previsto alcun mezzo di impugnazione e non riguarda i casi nei quali un mezzo di impugnazione vi sia, ma limitato a taluni motivi e la decisione riguardo ad esso possa poi essere assoggettata a ricorso per cassazione (com’è quella resa dal giudice d’appello sulle sentenze del giudice di pace ai sensi dell’art. 339, comma 3, la quale, naturalmente, lo sarà con adattamento dei motivi di ricorso all’ambito di quelli devolvibili al giudice d’appello stesso)” (Cass., n. 13019 del 2007)” cfr. anche SS.UU. 27339/08;

che il Collegio condivide la proposta di inammissibilità contenuta nella relazione di cui sopra;

che non appaiono idonee ad indurre a una diversa conclusione le critiche mosse dalla ricorrente nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ.;

che, invero, le sentenze che la ricorrente indica come espressive di una diversa interpretazione dell’art. 339 cod. proc. civ., comma 3, e art. 113 cod. proc. civ., comma 2, tale da rendere possibile il ricorso per cassazione avverso sentenze del giudice di pace allorquando non ricorrano i motivi espressamente indicati nell’art. 339 cit., non appaiono pertinenti, giacchè relative a sentenze depositate prima della entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, che ha reso appellabili tutte le sentenze emesse dal giudice di pace, con i limiti previsti nel terzo comma per quelle pronunciate secondo equità;

che, peraltro, sussiste una ulteriore ragione di inammissibilità del ricorso, poichè i tre motivi nei quali si articola non sono corredati da idonei quesiti di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc, civ.;

che, invero, nella giurisprudenza di questa Corte si è chiarito che “il quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C. di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura cosi come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata” (Cass., n. 11535 del 2008);

che è quindi “inammissibile per violazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ., il ricorso per cassazione nel quale l’illustrazione dei singoli motivi sia accompagnata dalla formulazione di un quesito di diritto che si risolve in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso sub indice” (Cass., S.U., n. 28536 del 2008);

che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo in favore della parte resistente, mentre non vi è luogo a provvedere sulle spese nei confronti del Comune di Roma, non avendo lo stesso svolto attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 600,00, di cui Euro 400,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 16 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2010

 

 

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