Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15252 del 04/06/2019

Cassazione civile sez. VI, 04/06/2019, (ud. 05/02/2019, dep. 04/06/2019), n.15252

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3299-2018 proposto da:

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato MARCO PETROCELLI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

TELECOM ITALIA SPA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI

22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati ROBERTO ROMEI, ENZO

MORRICO, FRANCO RAIMONDO BOCCIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3697/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 31/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 05/02/2019 dal Consigliere Relatore Dott. LUIGI

CAVALLARO.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che, con sentenza depositata il 31.7.2017, la Corte d’appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato l’impugnativa proposta da F.A. avverso il licenziamento disciplinare intimatogli da Telecom Italia s.p.a.;

che avverso tale pronuncia F.A. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi di censura;

che Telecom Italia s.p.a ha resistito con controricorso;

che è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio;

che parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione degli artt. 115,116 e 244 c.p.c. per avere la Corte di merito attribuito valore probatorio alla deposizione dei testi O. e P., nonostante che la prima non potesse essere considerata come testimonianza, essendo piuttosto espressiva di una presunzione in ordine all’accadimento dei fatti su cui avrebbe dovuto riferire, e la seconda riferisse circostanze apprese de relato;

che, con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. c.c., per avere la Corte territoriale errato nell’interpretazione della scrittura privata precorsa inter partes e relativa alle modalità di restituzione dell’autovettura che egli aveva in uso per motivi di servizio;

che, con il terzo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2730 e 2734 c.c. per avere la Corte di merito attribuito valore confessorio ad una sua dichiarazione, senza considerare quelle ad essa aggiunte e di segno contrario;

che, con il quarto motivo, il ricorrente censura di nullità la sentenza per violazione degli artt. 115 c.p.c., art. 191 c.p.p. e artt. 2 e 3 St. lav., per avere la Corte territoriale attribuito valore probatorio alle risultanze di una indagine investigativa effettuata senza finalità difensive ed al solo fine di controllare l’attività dei dipendenti sul posto di lavoro; che è ormai consolidato il principio secondo cui, specie a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, da parte del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, (conv. con L. n. 134 del 2012), il giudizio di fatto compiuto dal giudice di merito può essere censurato in sede di legittimità soltanto in caso di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere autonomamente decisivo, nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, restando viceversa esclusa la possibilità di dolersi dell’omesso esame di singoli elementi istruttori, qualora il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. n. 8053 del 2014);

che, sotto altro ma concorrente profilo, si è chiarito che le violazioni dell’art. 115 c.p.c. censurabili per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 4, possono concernere il fatto che il giudice di merito abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, ovvero abbia posto alla base della decisione fatti erroneamente ritenuti non contestati o notori o frutto di sua scienza personale, ricadendo diversamente la censura nell’ambito dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. fra le tante Cass. nn. 11892 e 27000 del 2016, 4699 del 2018);

che, da ultimo, costituisce ius receptum il principio secondo cui la ricerca e l’individuazione della comune volontà dei contraenti costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo ex art. 360 c.p.c., n. 5, e in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 e ss. c.c. (Cass. n. 29111 del 2017), fermo restando che l’interpretazione secondo buona fede non consente di assegnare all’atto una portata diversa da quella che emerge dal suo contenuto obiettivo e piuttosto corrispondente alla convinzione soggettiva di una singola persona (Cass. n. 5239 del 2004);

che, alla luce dei suesposti principi, debbono ritenersi inammissibili il primo, il secondo e il terzo motivo di censura, atteso che pretendono di sottoporre a critica il giudizio di verosimiglianza formulato dalla Corte di merito in ordine a quanto riferito dal ricorrente e dai testi O. e P., il consequenziale giudizio di attendibilità sulle loro dichiarazioni, il ricorso al ragionamento presuntivo e l’interpretazione offerta del contenuto della scrittura privata relativa all’uso dell’autovettura di servizio ben al di là dei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, che – come anzidetto – consente la censura di tali aspetti del giudizio di fatto solo qualora si deduca l’omesso esame di fatti di per sè idonei a sovvertirne l’esito;

che, nella specie, la Corte di merito ha formulato il giudizio in ordine alla commissione della condotta ascritta al ricorrente sulla scorta di una valutazione complessiva del materiale probatorio acquisito, senza attribuire alle sue dichiarazioni alcun valore confessorio, ma riscontrandole sulla scorta di quanto dichiarato da altri testi (cfr. in particolare pag. 10, p. 7, della sentenza impugnata), e ricostruendo il significato della clausola negoziale sulla scorta del suo tenore letterale (ibid., pag. 11, p. 7.1);

che parimenti inammissibile è il quarto motivo, dal momento che la sentenza impugnata nulla dice circa la dedotta inutilizzabilità delle indagini compiute dall’agenzia investigativa cui si era rivolta l’odierna controricorrente e, trattandosi di questione implicante un accertamento di fatto circa la natura difensiva o meno di esse, era onere di parte ricorrente precisare quando e come essa sarebbe stata veicolata nel giudizio di merito (cfr. Cass. n. 20518 del 2008 e, più recentemente, Cass. n. 2038 del 2019), non potendo a tal fine ritenersi sufficiente un mero rinvio agli atti di causa in assenza della puntuale trascrizione delle parti di essi all’uopo rilevanti (cfr., da ult., Cass. n. 20694 del 2018);

che il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;

che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 5 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019

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