Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15250 del 12/07/2011

Cassazione civile sez. I, 12/07/2011, (ud. 06/04/2011, dep. 12/07/2011), n.15250

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.N. (c.f. (OMISSIS)), già Amministratore

delegato della Maretti S.p.a., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ACHILLE PAPA 21, presso lo STUDIO PANNAIN, rappresentato e difeso

dall’avvocato RUGGIERO GIUSEPPE, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositato il

29/12/2007 n. 135/07 R.G.V.G.;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/04/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO DIDONE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO

1.- M.N. – già amministratore delegato della s.p.a.

Maretti – ha adito la Corte di appello di Lecce proponendo nei confronti del Ministero della Giustizia domanda di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, in relazione alla dedotta irragionevole durata del procedimento fallimentare aperto nei confronti della s.p.a. Maretti dal Tribunale di Bari con sentenza del 29.11.1993 e chiuso con decreto del 19.12.2005, notificatogli il 3.10.2006.

La Corte di appello, con decreto depositato il 29.12.2007, ha dichiarato inammissibile la domanda perchè proposta da soggetto non legittimato, essendo stata la società (peraltro, cancellata) parte del processo presupposto e, inoltre, il ricorso era stato proposto (il 3.4.2007) oltre il termine semestrale previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, decorrente dal quindicesimo giorno dall’affissione all’albo pretorio del decreto di chiusura.

Contro il decreto l’attore ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi con i quali denuncia: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, formulando il quesito “se chiunque, essendo stato amministratore di una società di capitali dichiarata fallita, possa ritenersi danneggiato (anche solo indirettamente) dall’irragionevole protrarsi della procedura fallimentare, e pertanto legittimato L. n. 89 del 2001, ex art. 2, alla proposizione del relativo ricorso”;

2) violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, L. Fall., artt. 119 e 26, nonchè vizio di motivazione in punto asserito decorso del termine semestrale di cui all’art. 4, cit.

legge. Deduce che tale termine semestrale decorre dalla di notificazione del decreto di chiusura al fallito e che la domanda sarebbe comunque tempestiva anche con riferimento alla data di affissione del provvedimento di chiusura perchè avvenuta lo stesso giorno (3.10.2006) della notificazione del decreto.

Formula il seguente quesito: “se il termine semestrale di cui all’art. 6 Legge Pinto, in materia di ricorso avverso l’irragionevole durata di una procedura fallimentare, decorra per il fallito dalla data della notificazione allo stesso del decreto di chiusura. Ferma, nella specie, la tempestività della domanda in questione anche rispetto al diverso termine dell’intervenuta pubblicazione del decreto nell’albo pretorio”.

1.1.- Disposta dalla Corte la rinnovazione della notificazione del ricorso – nulla ex art. 291 c.p.c. perchè era stato notificato al Ministero della Giustizia presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato anzichè presso l’Avvocatura Generale – il Ministero intimato ha resistito con controricorso.

2.1.- Osserva la Corte che, pur essendo fondata la censura relativa alla ritenuta tardività del ricorso e ciò alla luce del principio enunciato dalla Corte costituzionale (Corte cost., 7.7.2010 n. 279) la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 119, comma 2, nel testo anteriore alla riforma, nella parte in cui fa decorrere, nei confronti dei soggetti interessati e già individuati sulla base degli atti processuali, il termine per il reclamo avverso il decreto motivato del tribunale di chiusura del fallimento, dalla data di pubblicazione dello stesso nelle forme prescritte dalla L. Fall., art. 17, anzichè dalla comunicazione dell’avvenuto deposito effettuata a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero a mezzo di altre modalità di comunicazione previste dalla legge, il ricorso deve essere rigettato.

Infatti, come ha evidenziato questa Corte (per tutte, di recente, Sez. 1, n. 16446/2010), non v’è dubbio che la L. n. 89 del 2001, rinvii alla C.E.D.U. per l’individuazione dei soggetti legittimati alla domanda di equa riparazione. Dispone infatti che la legittimazione spetta a chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione; della Convenzione “sotto il profilo del mancalo rispetto de termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1”.

E’ all’art. 6, par. 1, della Convenzione che occorre dunque fare riferimento; in particolare alla definizione del diritto alla durata ragionevole come legittima pretesa di qualsiasi persona che attenda da un tribunale la decisione “sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta”.

E in realtà questa definizione del soggetto legittimato a chiedere l’equa riparazione corrisponde alla definizione che dottrina e giurisprudenza danno dei soggetti qualificabili come parti di un procedimento penale. Viene definito parte, infatti, il soggetto titolare di un diritto di azione da cui derivi per il giudice un dovere di decidere nel merito delle sue domande.

E’ anche per questa ragione che si afferma che in tema di equa riparazione per la violazione del termine di durata ragionevole del processo, allorquando nel giudizio durato eccessivamente agisca una società (nella specie, di persone), non rileva l’eventuale disagio psichico del socio o dell’amministratore, giacchè si tratta di soggetti diversi dalla parte, che è la società quale centro autonomo di imputazione di diritti e di doveri, e che è quindi la sola legittimata a far valere i disagi e turbamenti psicologici compatibili con l’assenza della fisicità (Sez. 1, n. 3118/2005).

Tale principio, a fortiori, è applicabile alle società aventi personalità giuridica (cfr. Sez. 1, n. 7145/2006). Va, dunque, riaffermato il principio per il quale il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, specificamente richiamato dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, solo con riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente in favore delle “parti” della causa nel cui ambito si assume avvenuta la violazione e non anche di soggetti che siano ad essa rimasti estranei, essendo irrilevante, ai fini della legittimazione, che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo. Pertanto, il socio di società di capitali che sia stata parte del processo prolungatosi oltre il termine ragionevole, non è processualmente legittimato ad azionare il rimedio offerto dalla citata legge, neanche in caso di sopravvenuto fallimento della società medesima e di inerzia della curatela, non essendo egli immediatamente inciso dai pregiudizi correlati alla durata irragionevole del processo (Sez. 1, n. 17111/2005).

Al rigetto del ricorso consegue la condanna alle spese, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 600,00, oltre le spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2011

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