Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15230 del 16/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 16/07/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 16/07/2020), n.15230

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13986-2017 proposto da:

B.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANARO n.

25, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VISCO, rappresentato e

difeso dagli avvocati LUCIA MARTINO e VINCENZO DE MICHELE;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA

DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2709/2016 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 15/12/2016 R.G.N. 1782/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza

dell’11/02/2020 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ STEFANO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato VINCENZO DE MICHELE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Bari ha respinto l’impugnazione principale proposta da B.R. avverso la sentenza del Tribunale di Foggia del 19 dicembre 2012 che, così si legge nella pronuncia oggi gravata, aveva “rigettato il ricorso con il quale la parte, odierna appellante, aveva impugnato il provvedimento di decadenza dall’impiego adottato nei suoi confronti” dalla Agenzia delle Dogane e, in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da quest’ultima, aveva condannato il ricorrente al pagamento della somma corrispondente ai compensi indebiti percepiti negli anni (OMISSIS).

2. In punto di fatto la Corte territoriale ha evidenziato che l’appellante aveva chiesto all’ente datore di lavoro di essere autorizzato ad assumere l’incarico di componente del consiglio di amministrazione della s.p.a. Amica ed aveva ricevuto il 7 dicembre 2007 una prima risposta negativa, poi ribadita con atto dell’11 gennaio 2008, con il quale l’Agenzia, oltre a respingere le osservazioni proposte avverso il primo provvedimento di diniego, aveva anche diffidato il dipendente allo svolgimento dell’incarico. La diffida era stata ripetuta il 9 giugno 2008 ed il 18 marzo 2010 l’amministrazione, richiamate le determinazioni pregresse e le difese del dipendente, aveva dichiarato il B. decaduto dall’impiego.

3. Il giudice d’appello, richiamato il quadro normativo, ha ritenuto privo di rilievo l’accertamento sulla sussistenza o meno di una finalità di lucro perseguita dall’Amica s.p.a., società in house affidataria di servizio pubblico locale da parte del Comune di Foggia, perchè, in assenza di una disposizione di legge che attribuisse il diritto ad assumere l’incarico, erano decisivi ai fini di causa la mancanza di autorizzazione e lo svolgimento dell’attività nonostante l’espressa diffida.

4. La Corte territoriale ha, invece, ritenuto fondata l’impugnazione incidentale ed ha rilevato che l’obbligo previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 di restituzione dei compensi indebiti, avente natura latamente sanzionatoria, sussiste a prescindere dallo stato soggettivo del dipendente pubblico, sicchè aveva errato il Tribunale nel valorizzare, per il periodo antecedente all’atto di diniego, la buona fede del B. e nel limitare la condanna alle sole somme corrisposte dalla società a partire dal (OMISSIS).

5. Per la cassazione della sentenza Raffaele B. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi ai quali l’Agenzia delle Dogane ha opposto difese con tempestivo controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. ed eccepisce la nullità della sentenza impugnata assumendo che erroneamente la Corte territoriale ha pronunciato sulla legittimità del provvedimento di decadenza, non oggetto del ricorso iscritto al n. 1893/2010 R.G. Tribunale di Foggia, con il quale era stato domandato l’accertamento: della compatibilità dell’incarico di componente del consiglio di amministrazione della s.p.a. Amica con lo status di dipendente pubblico; dell’illegittimità del provvedimento di diniego di autorizzazione del (OMISSIS); del diritto allo svolgimento dell’attività non autorizzata; dell’illegittimità della contestazione di addebiti del (OMISSIS).

Precisa il ricorrente che il provvedimento di decadenza era intervenuto solo il 18 marzo 2010, quando già il giudizio risultava pendente, ed era stato impugnato con altro e distinto ricorso, iscritto al n. 19671/2010 R.G. Tribunale di Foggia, tuttora pendente perchè sospeso ex art. 295 c.p.c..

Evidenzia che il Tribunale, contrariamente a quanto asserito nella sentenza qui impugnata, non si era pronunciato sulla legittimità della decadenza, ma aveva solo escluso la compatibilità tra l’impiego pubblico e la carica di componente del consiglio di amministrazione di una società di capitali e perciò aveva rigettato le domande formulate con il ricorso del 22 febbraio 2010, non riguardanti il provvedimento adottato dall’Agenzia in corso di causa.

Ritiene, pertanto, palese la violazione dell’art. 112 c.p.c. perchè tutto il percorso argomentativo sviluppato dal giudice d’appello si riferisce ad una domanda diversa da quella effettivamente proposta.

2. La seconda censura, formulata sempre ex art. 360 c.p.c., n. 4, eccepisce, sotto altro profilo, la nullità della sentenza e del procedimento conseguente alla violazione degli artt. 36,100 e 112 c.p.c. ed addebita alla Corte territoriale l’omessa pronuncia sulle domande di accertamento della compatibilità con lo status di pubblico dipendente dell’incarico non autorizzato e dell’illegittimità del diniego di autorizzazione nonchè della contestazione disciplinare. Sostiene il ricorrente che la sanzione prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, presuppone la violazione degli obblighi imposti all’impiegato dalla disposizione e pertanto può essere irrogata solo a condizione che sia legittimo il diniego. La domanda riconvenzionale non poteva essere accolta in quanto il ricorrente aveva dimostrato attraverso la produzione documentale che la Amica S.p.A. non aveva scopo di lucro e perseguiva esclusivamente la realizzazione di finalità pubbliche. Sussisteva, inoltre, l’interesse ad agire per fare accertare l’illegittimità della contestazione disciplinare in ragione della stretta connessione esistente fra detta domanda e quella riconvenzionale proposta dall’amministrazione.

3. Il terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, aqrt. 53 degli artt. 1175, 1375, 1454 e 1703 c.c., dell’art. 12 preleggi, del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 63. Il ricorrente deduce che la domanda riconvenzionale doveva essere rigettata nella sua interezza, sia perchè … andava esclusa l’asserita incompatibilità dell’incarico con il rapporto di pubblico impiego, sia in quanto occorreva tener conto della buona fede del dipendente e del comportamento dell’amministrazione, che aveva fatto sorgere un legittimo affidamento sulla liceità della condotta tenuta. Evidenzia al riguardo di avere comunicato sin dal marzo 2005 lo svolgimento di attività extraistituzionale e di avere indicato anche i compensi percepiti, attenendosi ad una prassi consolidata ed alla circolare con la quale il Ministero delle Finanze aveva ritenuto sufficiente la semplice comunicazione in attesa che sul tema si acquisisse il parere del Consiglio di Stato.

4. Il primo motivo di ricorso è fondato.

Occorre premettere che allorquando, come nella fattispecie, il ricorrente denunci un error in procedendo, di natura tale da determinare, se accertato, la nullità della sentenza impugnata o del procedimento, la Corte di Cassazione è investita del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate dal codice di rito ed in particolare nel rispetto delle prescrizioni imposte dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4 (Cass. S.U. n. 8077/2012; Cass. S.U. n. 20181/2019).

Le ragioni che giustificano la diversa latitudine dei poteri di cognizione del giudice di legittimità, a seconda che venga denunciato un error in iudicando o in procedendo, sono state indicate dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 8077/2012, con la quale si è evidenziato che, qualora la nullità dipenda da un difetto di attività del giudice o delle parti, il “fatto” processuale si colloca all’interno di una vicenda che è tuttora in corso di sviluppo ed il vizio si riverbera anche sul giudizio di cassazione, impedendo la realizzazione di quello che oggi la Carta costituzionale e lo stesso codice di rito hanno definito il “giusto processo”. Da ciò le Sezioni Unite hanno tratto la conseguenza che, nei casi in cui il vizio discenda da un errore interpretativo o valutativo dell’atto processuale commesso dal giudice del merito, l’esame non può ridursi alla valutazione della sufficienza e della logicità della motivazione della sentenza gravata perchè, al contrario, compete alla Corte di legittimità “percepire direttamente e pienamente quel fatto, apprezzarne la portata ed individuarne il significato e la concreta idoneità a produrre effetti nel processo, perchè solo in tal modo è possibile vagliarne la conformità al modello legale”.

4.1. Sviluppando i richiamati principi, affermati in via generale in una fattispecie nella quale veniva in rilievo la nullità dell’atto introduttivo del giudizio, la successiva giurisprudenza di questa Corte ha precisato che non può essere riservata al giudice del merito l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato od a quello del tantum devolutum quantum appellatum, perchè in tal caso la denuncia dell’error in procedendo attribuisce alla Corte di cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti (Cass. n. 25259/2017; Cass. n. 21421/2014).

Sulla base del richiamato orientamento, al quale va data qui continuità, la censura formulata con il primo motivo di ricorso, che supera il preliminare vaglio di ammissibilità (il ricorrente ha trascritto nel corpo del motivo gli atti rilevanti e li ha specificamente indicati, provvedendo, inoltre, al loro deposito ex art. 369 c.p.c., n. 4), consente al Collegio di esaminare direttamente gli atti processuali e di interpretarli, al fine di verificare la sussistenza della denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c..

4.2. In effetti risulta dagli atti che con il ricorso iscritto al n. 1893/2010 R.G. Tribunale di Foggia, depositato il 2.2.2010, B.R., sul presupposto che la società in house non perseguisse finalità di lucro, aveva impugnato l’atto di diniego dell’autorizzazione a svolgere l’incarico di componente del consiglio di amministrazione della s.p.a. Amica nonchè la contestazione disciplinare del (OMISSIS), ed aveva chiesto l’accertamento del suo diritto a svolgere l’incarico stesso, in ragione della compatibilità del medesimo con lo status di dipendente pubblico (pag. 3 del ricorso e allegato n. i).

Alla data di deposito dell’atto introduttivo l’Agenzia delle Dogane non aveva ancora adottato il provvedimento di decadenza dall’impiego del 18 marzo 2010, avverso il quale il ricorrente aveva depositato altro ricorso, iscritto al n. 19671/2010 R.G. del Tribunale di Foggia, tuttora pendente in primo grado, perchè il giudizio non era stato riunito a quello già instaurato, ed all’udienza dell’11 febbraio 2014 ne era stata disposta la sospensione (allegati nn. 21 e 23).

La sentenza del 19 dicembre 2012, emessa dal Tribunale di Foggia ed impugnata con l’appello del 18 giugno 2013, aveva definito il primo giudizio instaurato da B.R., senza pronunciare sulla legittimità dell’atto con il quale l’Agenzia delle Dogane aveva dichiarato il dipendente decaduto dall’impiego (pag. 9 e 10 del ricorso; allegato n. 8) e, pertanto, i motivi di appello si riferivano unicamente alle domande rigettate, ossia a quelle volte ad ottenere l’accertamento della compatibilità dell’incarico con lo status di impiegato pubblico nonchè dell’illegittimità del diniego di autorizzazione, domande che, seppure connesse con quelle fatte valere nel giudizio n. 19671/2010, da queste ultime differiscono quanto a petitum ed a causa petendi.

4.3. La Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che la decisione impugnata avesse “rigettato il ricorso col quale la parte aveva impugnato il provvedimento di decadenza dall’impiego..” ed ha, poi, ritenuto decisiva, per affermare la legittimità del provvedimento, la circostanza che lo svolgimento dell’incarico non fosse stato autorizzato e che il B. fosse stato diffidato dal proseguire nell’attività incompatibile (pag. 1 e pag. 8 della decisione).

Sussiste, pertanto, la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., causa di nullità della sentenza qui gravata, perchè il giudice d’appello ha pronunciato su una domanda diversa da quella proposta, che, lo si ribadisce, riguardava la pretesa illegittimità del diniego di autorizzazione e l’asserito diritto a svolgere l’incarico non autorizzato.

E’ noto, infatti, che il vizio di ultra o extra petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (cfr. fra le più recenti Cass. n. 8048/2019).

Quest’ultima evenienza si ravvisa nella fattispecie perchè la Corte territoriale ha pronunciato sulla legittimità di un atto, quello di decadenza, che non era in discussione in quel giudizio.

5. Dalla violazione dell’art. 112 c.p.c. discende la nullità della sentenza impugnata e, pertanto, l’accoglimento del primo motivo comporta l’assorbimento delle ulteriori censure.

La decisione impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà, nei limiti del devoluto, all’esame delle domande formulate nel giudizio iscritto al n. 1893/2010 R.G. Tribunale di Foggia, non riguardante il provvedimento di decadenza dall’impiego, statuendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Non sussistono le condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, con assorbimento delle ulteriori censure. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2020

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