Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15226 del 21/07/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 15226 Anno 2015
Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: BLASUTTO DANIELA

SENTENZA

sul ricorso 11414-2009 proposto da:
ALESSI ARMANDO C.E.

LSSRND43L13H5010,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 95, presso
lo studio degli avvocati FRANCESCO PALUMBO, ADRIANO
f

ABATE che lo rappresentano e difendono, giusta delega
in atti;
– ricorrente –

2015
2220

contro

COMUNE DI ROMA C.F. 02438750586, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21,

Data pubblicazione: 21/07/2015

presso lo studio dell’avvocato CARLO SPORTELLI, che
lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 1330/2008 della CORTE
D’APPELLO di ROMA, depositata il 11/12/2008, R.G.N.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19/05/2015 dal Consigliere Dott. DANIELA
BLASUTTO;
udito l’Avvocato PALUMBO FRANCESCO;
udito l’Avvocato MONTANARO CRISTINA per delega
verbale SPORTELLI CARLO,
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il
rigetto.

5603/2004;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Roma, accogliendo parzialmente la domanda proposta da Alessi

Armando, dichiarava il diritto del ricorrente a svolgere mansioni corrispondenti alla
qualifica di assunzione come dirigente superiore ed ordinava al Comune di Roma di
assegnare il medesimo Alessi ad un incarico di dirigenza apicale di rilevanza, anche

Municipio.
Tale sentenza veniva impugnata da entrambe le parti, con separati ricorsi, poi riuniti.
La Corte di appello di Roma rigettava il ricorso dell’Alessi e, in parziale accoglimento di
quello proposto dal Comune, dichiarava il solo diritto del dirigente ad ottenere un
incarico direttivo che fosse rispettoso dei criteri di cui alla deliberazione della Giunta
comunale n. 28 del 12.1.2001 e, comunque, dei criteri di cui all’art. 109 T.U. delle
leggi sull’ordinamento degli Enti locali, così limitando l’ordine sancito nei confronti del
Comune nella gravata sentenza, e, ritenuta conseguentemente la nullità dei
provvedimenti adottati dal Sindaco di Roma indicati al punto 1) nel ricorso introduttivo
del giudizio, perché privi di motivazione, sì da non consentire il controllo dei criteri
anzidetti, dichiarava la manifesta infondatezza della questione di illegittimità
costituzionale quale proposta dall’Alessi.
Osservava la Corte romana: a) che nel nuovo sistema di lavoro c.d. contrattuale
alle dipendenze di amministrazioni pubbliche e, segnatamente alla stregua della
disciplina dettata dagli artt. 15 e 19 d. Igs. n. 165/01, al conferimento degli incarichi
dirigenziali ed al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’art. 2103 c.c.; b) che la
qualifica dirigenziale esprime soltanto l’idoneità professionale del dipendente a
svolgere determinate mansioni e non una particolare posizione lavorativa inserita
nell’ambito di una carriera, sì che, in caso di passaggio da un incarico ad un altro, non
sussiste il diritto del dirigente a conservare l’ufficio in precedenza ricoperto, ma solo il
diritto a conservare le funzioni dirigenziali e tali principi valgono anche per il dirigente
locale; c) che, pertanto, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, era priva
di fondamento normativo la pretesa dell’Alessi di conservare una determinata tipologia
di incarico dirigenziale; d) che il Comune di Roma aveva proceduto, con deliberazione
di Giunta n. 28 del 12.1.2001, alla preventiva formulazione di criteri in base ai quali
provvedere al conferimento di incarichi dirigenziali, alla revoca ed al passaggio ad
incarichi diversi e si era così autovincolato al rispetto di criteri oggettivi
predeterminati; e) che i provvedimenti adottati nei confronti dell’Alessi, ossia
l’ordinanza sindacale n. 322 del 2001 e quella 4.12.2002, erano privi di motivazione,
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retributiva, equivalente a quello svolto sino all’ottobre 2001 presso la direzione del 12°

in quanto mancanti di qualsiasi riferimento non solo ai criteri di cui all’art. 19 d.lgs. n.
29/93 (attitudini, capacità professionali, competenza tecnica, esperienza maturata,
adeguatezza alla nuove funzioni, natura ed incarichi dei programmi da realizzare),
pure richiamati dalla contrattazione collettiva, ma anche ai criteri generali dettati dalla
delibera di Giunta n. 28 del 2001; f) che tali provvedimenti, in quanto non motivati,

rispettoso dei criteri di cui alla deliberazione della Giunta comunale n. 28 del
12.1.2001 e comunque dei criteri di cui all’art. 109 del T.U. delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali.
Per la cassazione di tale sentenza Armando Alessi propone ricorso affidato a quattro
motivi. Resiste il Comune di Roma con controricorso. Il ricorrente ha altresì depositato
memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denuncia omessa motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.) per avere
la sentenza rigettato l’autonomo ricorso in appello proposto dall’Aiessi senza motivare
al riguardo. Con tale impugnazione il ricorrente aveva lamentato che il Tribunale omise
di pronunciare in merito alle richieste risarcitorie relative ai danni patrimoniali derivati
dai provvedimenti retrocessivi attuati dal Comune di Roma, danni specificamente
relativi all’inattività durata quattro mesi, al conferimento di incarichi vuoti di contenuto
e di funzioni, ai fatti di mobbing posti in essere nei confronti del ricorrente.
Il motivo è inammissibile: a) innanzitutto, è denunciato come vizio di motivazione
un (presunto) error in procedendo (mancato esame dei motivi di appello aventi ad
oggetto l’omessa pronuncia sulle domande risarcitorie) e, di conseguenza, il motivo è
privo della formulazione del relativo quesito di diritto; b) non vengono trascritti i
motivi di appello asseritamente non esaminati; pertanto, il ricorso difetta di
autosufficienza (art. 366 n. 3 c.p.c.), non potendosi stabilire i termini della
riproposizione delle domande risarcitorie e, di conseguenza, se quella avente ad
oggetto i danni patrimoniali (prospettata sul presupposto del carattere “retrocessivo”
degli incarichi conferiti) mantenesse attualità e presentasse profili di interesse (sì da
esigere una espressa pronuncia al riguardo) anche alla luce della soluzione giuridica
accolta dal Giudice di appello o invece presupponesse la integrale conferma del dictum
di cui alla sentenza di primo grado; c) infine, la sentenza impugnata non riferisce di
motivi di appello vedenti su danni da mobbing, per cui la relativa questione – così
come proposta – risulta essere estranea all’ambito del devoluto in appello.

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erano nulli e sussisteva il diritto del ricorrente ad ottenere un incarico direttivo

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Con il secondo motivo si denunciano violazione di legge, in relazione all’art. 52 d.lgs.
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165/01 e all’art. 42 d.p.r. n. 268/87, e vizio di motivazione. Si chiede se sia legittimo
che con atti regolamentari (nella specie, deliberazioni n. 73 del 1995 e n. 621 del
2002) il Comune di Roma potesse sopprimere la pluralità e la gerarchia delle qualifiche
dirigenziali. Si sostiene, infatti, che l’introduzione di un ruolo unico e il mantenimento

tuttavia di una gerarchia oggettiva degli incarichi dirigenziali, attribuiti
indifferentemente ai dirigenti ricompresi nel ruolo unico, viola il principio per cui il
dirigente ha diritto a ricevere non un qualsiasi incarico ma uno di rango equivalente,
anche sotto il profilo retributivo, a quello svolto in precedenza.
Il motivo è infondato.
In tema di pubblico impiego privatizzato, l’art. 52 del digs. 30 marzo 2001, n. 165,
assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento
alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla
professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto
la natura equivalente della mansione, non potendosi aver riguardo alla norma generale
di cui all’art. 2103 cod. civ. (Cass. n.18283 del 2010, conf. Cass. n. 7106 del 2014).
Con il terzo motivo si censura la sentenza per violazione di legge, in relazione agli
artt. 19 e 27 cl.igs. n. 165/01, art. 2087 c.c. Si chiede se la norma di cui all’art. 19
d.lgs. n. 165/01, nella parte in cui esclude l’applicabilità ai dirigenti pubblici dell’art.
2103 c.c., debba essere interpretata nel senso che detta inapplicabilità va intesa come
all’istituto della c.d. promozione automatica, non consentendo detta norma il
demansionamento del dirigente, sicché è illegittimo il conferimento di un incarico non
confacente alla sua qualifica e alle attitudini dimostrate, che a sua volta integrerebbe
una violazione dell’art. 2087 c.c., ossia del diritto alla libera esplicazione della
personalità del lavoratore la cui tutela trova fondamento anche nelle norme
costituzionali. Si sostiene che, diversamente opinando, dovrebbe ritenersi non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 dAgs. n.
165/01, in riferimento agli artt. 2,3,4 e 41 co.2, 35 e 97 Cost.
Anche tale motivo è destituito di fondamento.
Il D.Lgs. n. 29 del 1993 (e successive modificazioni) ha creato in materia di
dirigenza statale un sistema caratterizzato dal riconoscimento di un rapporto di
carattere fiduciario tra organi di governo e dirigenti, che si esprime nella previsione
della temporaneità e rotazione degli incarichi dirigenziali, e che pertanto non impone il
rispetto dell’art. 2103 c.c.. Il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli
enti locali (trasfuso da ultimo nell’art. 109 del D. Lgs. n. 267 del 2000) esclude la
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A

configurabilità di un diritto soggettivo a conservare in ogni caso determinate tipologie
di incarico dirigenziale. Lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che,
nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l’attitudine
professionale all’assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente
perciò – anche in difetto della espressa previsione di cui all’art. 19 D. Lgs. n. 165 del
2001 stabilita per le amministrazioni statali – di ritenere applicabile l’art. 2103 cod.

non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della
dirigenza tecnica (Cass. 23760 dei 2004 , conf. n. 3451 del 2010; v. pure Cass. n.
22284 del 2014 e n. 24035 del 2013).
Quanto ai profili di incostituzionalità, solo genericamente denunciati nel contesto del
terzo motivo, va richiamata la sentenza n. 1707 del 2013 delle Sezioni Unite della
Corte (conf. Cass. n. 23336 del 2013) secondo cui, in tema di ricorso per cessazione,
la prospettazione di una questione di costituzionalità, essendo funzionale alla
cessazione della sentenza impugnata e postulando la prospettazione di un motivo che
giustificherebbe tale effetto una volta accolta la questione medesima, suppone
necessariamente che, a conclusione dell’esposizione del motivo così finalizzato, sia
indicato il corrispondente quesito di diritto previsto dall’abrogato art. 366-bis cod.
proc. civ. (ove applicabile “ratione temporis”), indipendentemente dalla rilevabilità
d’ufficio della questione di costituzionalità e dall’ammissibilità del ricorso che prospetti
soltanto un dubbio di costituzionalità.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta violazione di legge, in relazione agli artt.
89 e 109 d.lgs. 267 del 2000, artt. 1 e 29 Regolamento sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi del Comune di Roma, artt. 19 e 20 CCNL area dirigenza 1998/2001, art. 19
d.lgs. n. 165/01, artt. 1418, 1419, 2058 e 2103 c.c., nonché vizio di motivazione. Il
motivo si conclude con un quesito multiplo, che non consente di distinguere i principi
di diritto che dovrebbero essere espressi da questa Corte e che quindi non corrisponde
alle prescrizioni di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ.. Il quesito di diritto che il
ricorrente ha l’onere di formulare ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. deve essere
proposto in modo tale che la Corte possa rispondervi semplicemente con un sì o con
un no. Ne consegue che è inammissibile il quesito formulato in termini tali da
richiedere una previa attività interpretativa della Corte, come accade nell’ipotesi in cui
sia proposto un quesito multiplo, la cui formulazione imponga alla Corte di sostituirsi
al ricorrente mediante una preventiva opera di semplificazione, per poi procedere alle

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civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite

singole risposte che potrebbero essere tra loro diversificate (Cass. 29 gennaio 2008,
n.1906).
A ciò aggiungasi che, nelle sue diverse articolazioni, il quesito tende infondatamente
ad assimilare, nella natura e negli effetti, l’ipotesi dell’attribuzione di un nuovo incarico
(quando il precedente sia venuto a scadenza) all’ipotesi della revoca dell’incarico per

che muovono da una presunta, ma insussistente, Illegittima rimozione” dall’incarico.
Il ricorso va dunque respinto. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in
dispositivo, sono poste a carico del ricorrente, in applicazione del principio generale
della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che
liquida in Euro 5.000,00 per compensi e in Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di
legge e 15% per rimborso spese forfettarie.
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2015
Il Consigliere est.

Il Presi ente

responsabilità dirigenziale; prive di pertinenza sono, dunque, tutte le considerazioni

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