Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15218 del 22/07/2016


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Cassazione civile sez. lav., 22/07/2016, (ud. 21/04/2016, dep. 22/07/2016), n.15218

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20994-2013 proposto da:

B.R.I., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA FABIO MASSIMO, 45, presso lo studio dell’avvocato LUIGI MATTEO,

rappresentato e difeso dall’avvocato DONNINO DONNINI, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

V.G., C.F. (OMISSIS), in proprio e quale liquidatore

ed amministratore della cessata società “FONDERIA GHISA METALLI

V.E.C.O. S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, V.S., C.F. (OMISSIS),

in proprio e quale socio della cessata società “FONDERIA GHISA

METALLI V.E.C.O. S.R.L., V.F. C.F. (OMISSIS) in

proprio e quale socio della cessata società “FONDERIA GHISA METALLI

V.E.C.O. S.R.L., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

MAGLIANO SABINA 24, presso lo studio dell’avvocato LUIGI PETTINARI,

rappresentati e difesi dagli avvocati ALESSANDRO LUCCHETTI, ALBERTO

LUCCHETTI, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n 1199/2012 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 14/01/2013 R.G.N. 6/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/04/2016 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato LUIGI MATTEO per delega Avvocato DONNINO DONNINI;

udito l’Avvocato LUCCHETTI ALESSANDRO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Ancona confermava la sentenza del giudice della stessa sede con cui era stato respinto il ricorso proposto da B.R.I. nei confronti della Fonderia Ghisa-Metalli V.E.C.O. s.r.l. inteso a conseguire il risarcimento del danno risentito per effetto del comportamento persecutorio adottato nei suoi confronti, trasfuso in atti reiterati nel tempo, contrari al principio di correttezza e buona fede, oltre che gravemente lesivi del diritto alla salute e idonei ad ingenerare un danno morale ed esistenziale.

A fondamento del decisum, in estrema sintesi, la Corte di merito poneva il rilievo della inammissibilità delle domande concernenti il danno morale ed esistenziale formulate in relazione alle circostanze, per la prima volta enunciate in grado di appello, relative a fatti integranti i reati di lesione personale, violenza, minaccia. Sotto altro versante rimarcava la carenza di prova in ordine all’esistenza del danno biologico quale conseguenza della condotta datoriale, che non aveva conseguito alcun riscontro in sede di accertamento medico-legale.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il lavoratore affidato a nove motivi. Resistono con controricorso V.G., in proprio e quale liquidatore ed amministratore della cessata Fonderia Ghisa-Metalli V.E.C.O. s.r.l. in liquidazione, nonchè V.S. e V.F. in proprio e quali soci della predetta società.

Le parti tutte hanno infine depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

In ordine logico va esaminata con priorità la questione sollevata in via pregiudiziale dalle parti controricorrenti, attinente alla inammissibilità del ricorso per intervenuta estinzione della società, a seguito della cancellazione dal registro delle imprese per chiusura della procedura di liquidazione ex art. 2495 c.c..

Occorre premettere che risulta rituale produzione in atti ex art. 372 c.p.c., congiuntamene al controricorso, di documentazione attestante la cancellazione dal Registro delle Imprese della Fonderia Ghisa Metalli Veco s.r.l. in liquidazione, recante data 11/1/2012. Emerge altresì ex actis (vedi bilancio di esercizio al 20/2/2011), che non sia intervenuta alcuna ripartizione di attivo fra i soci.

In ordine agli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, dopo la riforma del diritto societario attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, proseguendo l’opera ricostruttiva già avviata con le sentenze nn. 4060-4061-4062 del 22 febbraio 2010, va rimarcato che le Sezioni Unite hanno definito taluni fondamentali principi relativi alla questione qui delibata.

Resta acquisito, in primis, che, dall’entrata in vigore della novella del 2003, la cancellazione determina l’estinzione della società di capitali e la presunzione d’estinzione della società di persone, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad esse facenti capo, avendo la riforma adottato, per una ratio di certezza giuridica, il sistema della liquidazione “formale” (Sez.U. 22 febbraio 2010, n.4060).

Da tale premessa, le Sezioni Unite muovono quindi, con la sentenza 12 marzo 2013 n. 6070, per ricostruire le conseguenze dell’estinzione in termini – lato sensu – successori:1) quanto agli effetti sostanziali passivi (trasferimento del debito sociale ai soci, con responsabilità limitata o illimitata, a seconda del tipo di responsabilità connesso alla struttura societaria); 2) quanto agli effetti sostanziali attivi (acquisto in comunione tra i soci dei diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione, escluse le mere pretese e le ragioni creditorie incerte, la cui mancata liquidazione manifesta rinuncia); 3) quanto i agli effetti processuali (incapacità della società di stare in giudizio, interruzione del giudizio pendente, prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, inammissibilità dell’impugnazione proposta dalla società o contro di essa, anzichè dai soci o contro di essi).

La Corte ha precisato che, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali.

L’art. 2495 c.c., comma 2 (riprendendo, peraltro, quanto già stabiliva in proposito il previgente art. 2456, comma 2) stabilisce infatti, a tal riguardo, che i creditori possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. E’ prevista, inoltre, anche la possibilità di agire (deve intendersi, però, per risarcimento dei danni) nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale è dipeso da colpa di costui.

La ratio della norma citata, palesemente risiede nell’intento d’impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto. Ma questo risultato si realizza appieno solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità nella medesima norma indicati. Il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori. Autorevole dottrina ha infatti affermato che la responsabilità dei soci trova giustificazione nel “carattere strumentale del soggetto società: venuto meno questo, i soci sono gli effettivi titolari dei debiti sociali nei limiti della responsabilità che essi avevano secondo il tipo di rapporto sociale prescelto”.

Nei descritti approdi, dunque, le Sezioni Unite di questa Corte hanno condivisibilmente rimarcato come il successore che risponde solo intra vires dei debiti trasmessigli, non cessi per questo di essere un successore; e, tuttavia, se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire (vedi in questi termini, in motivazione, Cass. S.U. cit. n.6070 del 2013).

L’esegesi della disposizione qui considerata come definita da questa Corte nei descritti approdi, ha ricevuto, del resto, ulteriore avallo da recente pronuncia del Giudice delle Leggi (vedi Ordinanza 10 febbraio 2016 n.53) che, nel dichiarare la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2495 c.c., comma 2 sollevata con riferimento all’art. 3 cost., art. 24 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, ha rilevato il mancato esperimento da parte del giudice rimettente, “del pur doveroso tentativo di dare una interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata, nonostante gli approdi ermeneutici in tal senso delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenze 22 febbraio 2010 n.4060, n.4061 e n. 4062; nonchè le sentenze 12 marzo 2013 n. 6070, n.6071 e n. 6072)”.

In via ulteriore, va altresì rilevato come, sul versante processuale, la Corte abbia rimarcato che la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dalla L. Fall., art. 10); pertanto, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dall’art. 299 c.p.c. e ss., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; qualora l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso.

Orbene, con riferimento alla fattispecie in questa sede scrutinata, deve considerarsi che il giudizio è stato instaurato nei confronti della società Fonderia Ghisa-Metalli V.E.C.O. s.r.l. in liquidazione, definita “cessata” dal medesimo ricorrente, ed effettivamente già estinta al momento della notifica del presente ricorso; lo stesso risulta incardinato altresì nei confronti di V.G., in proprio e quale liquidatore ed amministratore della cessata Fonderia Ghisa-Metalli V.E.C.O. s.r.l. in liquidazione, nonchè V.S. e V.F. in proprio e quali soci della predetta società nei confronti dei quali, alla stregua della documentazione ritualmente depositata da parte controricorrente, non si è realizzata alcuna ripartizione di attivo all’esito della chiusura della procedura di liquidazione della società.

Considerato, per quanto sinora detto, che i soci di una società di capitali estinta per cancellazione dal registro delle imprese succedano a questa ai sensi dell’art. 110 c.p.c.: solo se abbiano riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione, secondo quanto dispone l’art. 2495 c.c. (vedi ex aliis, Cass. 26 giugno 2015 n. 13259, Cass. 16 maggio 2012 n. 7676), il suddetto limite di responsabilità si riflette sul requisito dell’interesse ad agire nei confronti dei soci, evidentemente carente laddove, come nello specifico, nessuna riscossione di somme vi sia stata all’esito della procedura di liquidazione.

In definitiva, alla stregua delle argomentazioni sinora esposte, il ricorso deve dichiararsi inammissibile, per essere rivolto nei confronti di una società ormai estinta, oltre che nei confronti dei singoli soci che risulta non abbiano riscosso alcuna quota all’esito della liquidazione della società, palesandosi a tal riguardo, l’azione intrapresa dal ricorrente, carente della essenziale condizione dell’ interesse ad agire.

Restano, quindi assorbiti i nove motivi formulati dal ricorrente, sotto il profilo di nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 (primo, secondo, quinto, sesto, settimo, ottavo motivo), di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 (terzo motivo), di difetto di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (quarto e nono motivo) attinenti alle domande risarcitorie proposte nel presente giudizio.

Il governo delle spese del presente giudizio di legittimità segue, infine, il regime della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata, dandosi atto della sussistenza delle condizioni richieste dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte ricorrente, a titolo di contributo unificato, dell’ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 21 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2016

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