Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15217 del 22/07/2016

Cassazione civile sez. lav., 22/07/2016, (ud. 20/04/2016, dep. 22/07/2016), n.15217

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4645-2013 proposto da:

INTESA SANPAOLO S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona dei legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZALE CLODIO 32, presso lo studio dell’avvocato LIDIA SGOTTO

CIABATTINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

PAOLO TOSI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PANARITI,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO ALUPI,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 593/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositaLa il 14/06/2012 R.G.N. 1827/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato SGOTTO CIABATTINI LIDIA;

udito l’Avvocato LUPI MASSIMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CUOMO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 2422/10 il Tribunale di Torino condannava Intesa Sanpaolo S.p.A. a pagare all’ex dirigente P.R. la somma di Euro 102.228,49 a titolo di differenze retributive e sul TFR. Con sentenza depositata l’8.6.12 la Corte d’appello subalpina, rigettato l’appello incidentale della societa’ e parzialmente accolto quello principale di P.R., liquidava in suo favore l’ulteriore somma di Euro 102.386,13 a titolo di differenze retributive, TFR e accessori calcolati fino al 31.12.11. Alla base di tale statuizione vi era il riconoscimento in favore del lavoratore del diritto di conservare in parte, anche dopo il suo ritorno in Italia, il trattamento economico goduto nei periodi di lavoro in Germania, con le relative ripercussioni sul TFR. Inoltre, i giudici d’appello attribuivano all’ex dirigente l’ulteriore somma di Euro 80.390,63 quale risarcimento del danno conseguente alla sua esclusione dal piano di stock option che la banca aveva previsto in favore d’una ristretta cerchia di dipendenti, fra cui lo stesso P.R..

Per la cassazione della sentenza ricorre Intesa Sanpaolo S.p.A. affidandosi a sei motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’intimato resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. – Il primo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. nonche’ vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata erroneamente riconosciuto in favore dell’odierno controricorrente il diritto di conservare, anche dopo il ritorno in Italia, il trattamento retributivo estero (goduto nei periodi di lavoro in Germania) costituito dalle voci “costo della vita” (percentuale di differenziale tra il costo della vita tra i due paesi), “indennita’ per servizio all’estero” (correlata al disagio della piazza di destinazione) e trattamento ad personam estero: obietta a riguardo Intesa Sanpaolo che tale trattamento non era da considerarsi come superminimo ad personam, bensi’ come trattamento strettamente connesso alle contingenti modalita’ lavorative presso la sede estera, sicche’ – a prescindere dalla sua natura retributiva o risarcitoria – non poteva essere conservato, neppure parzialmente, al rientro in Italia del dirigente.

Il secondo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23 e dell’art. 2103 c.c., nonche’ vizio di motivazione, nella parte in cui l’impugnata sentenza ha quantificato i crediti retributivi in favore dell’ex dirigente calcolando delle differenze retributive nette, poi lordizzate, secondo le aliquote fiscali e contributive vigenti in Italia al 31.12.04 anziche’ al 1.1.05 (come invece concordato dal CTU e dai CTP nel corso delle operazioni peritali). L’applicazione delle aliquote fiscali vigenti per l’anno d’imposta 2004 anziche’ di quelle vigenti per il 2005 (anno a partire dal quale erano stati riconosciuti i crediti retributivi del lavoratore, coincidente con il suo rientro in Italia) ha comportato – prosegue il ricorso – la violazione della disciplina fiscale e dello stesso principio di irriducibilita’ della retribuzione, cagionando un’ingiustificata locupletazione in favore del controricorrente, al punto che il risultato finale e’ stato quello di riconoscergli un trattamento netto al 1.1.05 superiore a quello netto spettante alla data del 31.12.04.

Il terzo motivo prospetta violazione e/o falsa applicazione delle clausole dei CCNL succedutisi nel tempo – oltre che degli artt. 1362 c.c. e ss. -, secondo cui gli emolumenti di carattere eccezionale, i rimborsi spese e i trattamenti previsti in caso di trasferimenti o missioni sono espunti dalla base di calcolo del TFR, a prescindere dalla natura retributiva o risarcitoria di tali trattamenti economici.

Il quarto motivo denuncia omessa motivazione e violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2120 c.c., per non avere la gravata pronuncia esaminato la struttura dell’indennita’ estero e della voce caro vita riguardo alla loro natura risarcitoria o retributiva.

Con il quinto motivo ci si duole di violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 2349 c.c. e art. 806 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto la propria competenza malgrado la clausola compromissoria contenuta nel regolamento del piano di stock option. Con il sesto motivo ci si duole di vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle condizioni necessarie per l’esercizio da parte di P.R. delle stock option per il 2005.

2.1. – Il primo motivo e’ infondato.

Tra pag. 13 e pag. 14 l’impugnata sentenza ha riconosciuto il diritto del lavoratore di conservare, anche dopo essere rientrato in Italia, il trattamento estero ad personam affermandone la natura di superminimo, come tale indicato nelle buste paga. Afferma la pronuncia gravata che tale trattamento e’ stato attribuito non per particolari disagiate modalita’ di svolgimento della prestazione all’estero, bensi’ quale corrispettivo dell’impegno personale e dell’elevata professionalita’ dimostrata dall’odierno controricorrente.

Si tratta di accertamento in fatto, correttamente motivato (sia pure sinteticamente) e, in quanto tale, insindacabile in sede di legittimita’, oltre che conforme, nelle conclusioni tratte, al consolidato indirizzo di questa Corte Suprema (cfr., ex aliis, Cass. n. 13405/13; Cass. n. 6563/09; Cass. n. 24875/05; Cass. n. 3278/04; Cass. n. 15656/01; Cass. n. 15414/2000), secondo il quale la natura retributiva del trattamento estero va riconosciuta tanto in presenza di una funzione compensativa della maggiore gravosita’ e del disagio morale e ambientale, quanto nel caso in cui si correli all’insieme delle qualita’ e condizioni personali che concorrono a formare la professionalita’ indispensabile per prestare lavoro fuori dei confini nazionali.

Sempre in giurisprudenza e’ stato altresi’ precisato che il discrimen tra compenso del disagio e compenso della professionalita’ e’ rilevante ai soli fini della definitivita’ o non dell’attribuzione patrimoniale allorche’ cessi la dislocazione all’estero (Cass. n. 475/89), non della natura retributiva, sussistente in entrambe le ipotesi. E’ stato, ancora, precisato: che il fatto che l’indennita’ in questione possa in alcune delle sue componenti assolvere ad una funzione risarcitoria delle maggiori spese sopportate all’estero e, allo stesso tempo, compensare per altre componenti le maggiori gravosita’ e i maggiori disagi della professionalita’ non fa venir meno il complessivo carattere retributivo della medesima indennita’ diretta a compensare il disagio morale ed ambientale della prestazione lavorativa svolta all’estero (cfr. Cass. n. 10272/91); che la corresponsione di una determinata somma con continuita’, quale rimborso di spese necessarie incontrate dal lavoratore per svolgere la propria attivita’ e quindi, sia pur indirettamente, per adempiere agli obblighi della prestazione lavorativa contrattuale, costituisce in genere elemento sufficiente a far ritenere il carattere retributivo di siffatta erogazione (in tal senso v. Cass. n. 8512/93) in quanto collegato in via sinallagmatica con la prestazione lavorativa, svolgendo siffatta erogazione una funzione di salvaguardia della retribuzione, vale a dire di adeguamento di questa alle maggiori spese in considerazioni delle condizioni ambientali in cui il lavoratore, dislocato all’estero, presta la propria attivita’. Per contro, il rimborso spese ha natura riparatoria e costituisce la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, conseguente ad una spesa che il lavoratore sopporta nell’esclusivo interesse del datore di lavoro ed e’ normalmente collegato ad una modalita’ della prestazione lavorativa, richiesta per esigenze straordinarie, che trova fondamento in una causa autonoma rispetto a quella della retribuzione: le erogazioni effettuate dal datore di lavoro hanno la natura di rimborso spese quando, non rivestendo i suddetti caratteri della continuita’ e determinatezza (o determinabilita’), consistono nella reintegrazione di somme effettivamente spese dal dipendente medesimo nell’interesse dell’imprenditore e non attinenti, percio’, all’adempimento degli obblighi impliciti nella prestazione lavorativa, cui egli e’ contrattualmente tenuto (Cass. n. 13405/13 e n. 6563/09 cit.).

Per il resto le censure sollevate dalla ricorrente suggeriscono esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio affinche’ se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata, operazione non consentita in sede di legittimita’ neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.

In altre parole, il ricorso si dilunga nell’opporre all’apprezzamento della Corte territoriale proprie difformi valutazioni delle prove, ma tale modus operandi non e’ idoneo a segnalare un vizio di motivazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo, applicabile ratione temporis, previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134).

Infatti, i vizi argomentativi deducibili con il ricorso per cassazione alla luce del previgente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non possono consistere in apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, perche’ a norma dell’art. 116 c.p.c. rientra nel potere discrezionale – come tale insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilita’, l’affidabilita’ e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti, con l’unico limite di supportare con congrua e logica motivazione l’accertamento eseguito (v., ex aliis, Cass. n. 2090/04; Cass. S.U. n. 5802/98).

Le differenti letture ipotizzate in ricorso scivolano sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze probatorie, nonche’ la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute, senza che cio’ possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti.

A sua volta il controllo in sede di legittimita’ delle massime di esperienza non puo’ spingersi fino a sindacarne la scelta, che e’ compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa Corte a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.

Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice e’ chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti e oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziari.

Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, pero’, di qualunque pur minima plausibilita’.

Cio’ detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l’uso di inesistenti massime di esperienza ne’ violazioni di regole inferenziali, ma chiede una difforme valutazione degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimita’, che non puo’ prendere in considerazione quale ipotetica illogicita’ argomentativa la mera possibilita’ di un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza.

Ne’ un ricorso per cassazione puo’ enucleare vizi di motivazione dal mero confronto con documenti o deposizioni, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti in sede di legittimita’.

Una volta stabilito in punto di fatto dai giudici di merito che si tratta d’un superminimo, vale a dire di emolumento per sua natura causalmente collegato alla specifica qualita’ soggettiva (intesa come sintesi della professionalita’ posseduta dal lavoratore) del dipendente, non resta che ribadire che esso, per costante giurisprudenza di questa S.C., e’ irriducibile ex art. 2103 c.c. (cfr. Cass. n. 4/15; Cass. n. 542/11; Cass. n. 4573/87; Cass. n. 1567/86; Cass. n. 5715/84).

Cosa diversa, ovviamente, e’ la questione (che, pero’, non viene in rilievo in questa sede) dell’eventuale assorbibilita’ d’un superminimo.

2.2. – Il secondo motivo va disatteso perche’ la determinazione delle ritenute fiscali attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario (cfr., ex aliis, Cass. n. 18044/15; Cass. n. 18477/14; Cass. n. 16489/14; Cass. n. 12566/14; Cass. n. 21010/13; Cass. n. 3525/13; Cass. n. 15349/2012; Cass. n. n. 19790/11), di guisa che il datore di lavoro non ha alcuna legittimazione ad agire riguardo al loro ammontare.

Quanto alle ritenute previdenziali, basti ricordare – sempre alla stregua della costante giurisprudenza innanzi menzionata – che il datore di lavoro puo’ provvedervi soltanto nel caso (che qui non ricorre) di tempestivo pagamento ai sensi dell’art. 19 L. 4 agosto 52 n. 218.

2.3. – Il terzo motivo e’ infondato per ragioni analoghe a quelle gia’ esposte nel precedente paragrafo 2.1.

Infatti, accertato che il trattamento economico per cui e’ causa aveva natura di superminimo (irriducibile), proprio perche’ tale esso risulta estraneo al novero delle voci (emolumenti di carattere eccezionale, rimborsi spese e trattamenti previsti in caso di trasferimenti o missioni) che il CCNL invocato in ricorso espunge dalla base di calcolo del TFR. Dunque, in assenza di deroghe convenzionali ad opera delle parti collettive, si applica il criterio di cui all’art. 2120 c.c., che prevede l’inclusione nella base di computo di “… tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto e’ corrisposto a titolo di rimborso spese”.

2.4. – Il quarto motivo e’ infondato, perche’ alle pagine 15 e 16 la sentenza ha preso posizione a riguardo, affermando la natura retributiva dell’indennita’ estero.

Dunque, non si ravvisa alcun omesso esame.

2.5. – Il quinto motivo e’ infondato.

Si premetta che l’utilizzo delle stock option costituisce una particolare forma di distribuzione di azioni ai dipendenti.

Mentre grazie all’art. 2349 c.c. una societa’ puo’, con delibera dell’assemblea straordinaria, assegnare utili ai propri dipendenti emettendo per lo stesso importo speciali categorie di azioni da assegnare loro individualmente, con l’art. 2441 c.c., comma 8 si consente che l’assemblea straordinaria deliberi un aumento di capitale e contestualmente conferisca ai lavoratori il diritto di sottoscrivere le corrispondenti azioni (solitamente ad un prezzo piu’ basso).

In quest’ultimo ambito si inserisce quella forma atipica di distribuzione delle azioni che va sotto il nome di stock option: la societa’ predispone piani nei quali riserva ai dipendenti (o anche soltanto ad una loro determinata categoria, oppure a singoli) la facolta’ di esercitare un’opzione di acquisto di azioni della societa’ medesima ad un prezzo bloccato ed entro una determinata scadenza.

In tal modo il lavoratore ha la possibilita’ di sottoscrivere azioni della societa’ nel termine indicato dal piano (termine che non puo’ essere modificato fino alla scadenza dell’opzione) e ad un prezzo fissato al momento dell’offerta.

La finalita’ e’ quella di incentivare la produttivita’ e di fidelizzare i dipendenti, i quali a loro volta hanno la possibilita’ di realizzare una plusvalenza (che costituisce reddito da lavoro dipendente: cfr. Cass. n. 11214/11), che consiste nella differenza tra il valore di mercato che le azioni hanno maturato nel periodo in cui l’opzione era valida e il prezzo fissato al momento dell’offerta.

Si tratta, dunque, d’una diffusa forma di retribuzione mediante partecipazione agli utili, il che e’ consentito dall’art. 2099 c.c., u.c..

Dunque, avendo le stock option natura retributiva, ogni controversia (fra la societa’ e il suo dipendente) in ordine alla loro spettanza rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, secondo il rito speciale, a meno che i contratti collettivi non la compromettano in arbitri (v. art. 806 c.p.c.).

Ma nel caso di specie la clausola compromissoria era contenuta semplicemente nel regolamento del piano di stock option (come si afferma nello stesso ricorso) e non nel contratto collettivo.

2.6. – Il sesto e ultimo motivo va disatteso perche’ in esso sostanzialmente si sollecita una rivisitazione nel merito delle risultanze istruttorie, peraltro senza neppure trascrivere il piano relativo all’esercizio delle stock option per evidenziarne l’inapplicabilita’ (per il 2005) all’odierno controricorrente.

Ne’ a tal fine basta la mera allegazione dell’intero fascicolo di parte del giudizio di merito in cui il documento sia stato eventualmente depositato, essendo altresi’ necessario che in ricorso se ne indichi la precisa collocazione nell’incarto processuale (v., ad es., Cass. n. 27228/14), il che nel caso in esame non e’ avvenuto.

3.1. – In conclusione il ricorso e’ da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimita’, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimita’, liquidate in Euro 8.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi ed Euro 8.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Cosi’ deciso in Roma, il 20 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2016

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