Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15216 del 16/07/2020

Cassazione civile sez. I, 16/07/2020, (ud. 26/06/2020, dep. 16/07/2020), n.15216

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13689/2019 proposto da:

M.R., rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI GIACCI

e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO depositato il 06/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/06/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano respingeva l’istanza del ricorrente, volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale od umanitaria, ritenendo non credibile la storia riferita dal richiedente ed insussistenti i presupposti per il riconoscimento dell’invocata tutela.

Il Tribunale di Milano, con il decreto impugnato, respingeva il ricorso avverso detto provvedimento reiettivo.

Propone ricorso per la cassazione della decisione di rigetto M.R. affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso il Ministero dell’interno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè il Tribunale avrebbe disatteso l’istanza di audizione personale, nonostante l’indisponibilità della videoregistrazione del colloquio svoltosi innanzi la Commissione territoriale.

La censura è inammissibile. Dalla lettura del decreto impugnato (cfr. pag. 2) risulta infatti che all’udienza del 9.10.2018 era presente il sig. M. con l’interprete, che ha confermato le dichiarazioni rese in sede di audizione davanti alla Commissione ed ha fornito ulteriori specificazioni, debitamente trascritte nel provvedimento. Non essendo previste dalla legge particolari modalità per lo svolgimento dell’audizione, era onere del ricorrente specificare di aver chiesto inutilmente al Tribunale di fare dichiarazioni ulteriori rispetto a quelle risultanti dal testo del decreto; poichè nulla in argomento è dedotto nel motivo in esame, il diritto al contraddittorio del richiedente è stato pienamente rispettato.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 7 e 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,25 e 32, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè il Tribunale avrebbe erroneamente applicato i principi in materia di attenuazione dell’onere della prova e cooperazione istruttoria.

La censura è inammissibile. Dalla lettura del decreto impugnato emerge infatti che il giudice di merito ha sentito il richiedente, ha ritenuto credibile la sua storia, nella quale tuttavia non ha ravvisato i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, posto che il M. aveva espressamente dichiarato di essere espatriato per ragioni economiche. Il ricorrente non si cura neanche di contestare, nel proprio ricorso, la ritenuta natura economica delle ragioni del suo espatrio, non confrontandosi pertanto in modo adeguato con la motivazione del giudice di merito.

Inoltre, circa la condizione interna del Bangladesh, Paese di provenienza del richiedente, il Tribunale ha escluso la sussistenza della situazione di violenza generalizzata richiesta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per il riconoscimento della protezione sussidiaria, indicando le fonti consultate e le notizie specifiche da esse tratte (cfr. pagg. 6 e 7 del decreto impugnato) e quindi consentendo al richiedente la duplice verifica della pertinenza della fonte e della specificità dell’informazione da essa ricavata. Anche in questo caso le censure contenute nel ricorso sono generiche e non indicano fonti diverse o più aggiornate di quelle consultate dal giudice di merito. Sul punto, va riaffermato il principio posto da Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 26728 del 21/10/2019, Rv. 655559, secondo cui “In tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla S.C. l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria”.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè il Tribunale avrebbe erroneamente negato il riconoscimento della protezione umanitaria, senza considerare l’inclusione del richiedente nel tessuto sociale italiano ed il contesto sociale del Paese di origine.

La doglianza è inammissibile. Il decreto impugnato esamina la situazione del Bangladesh e dà atto che il richiedente aveva dapprima documentato di aver intrapreso una attività il 14.9.2018, ma poi aveva dichiarato in audizione di non svolgere alcun lavoro, con ciò incorrendo in una contraddizione (cfr. pag. 8 del decreto). Inoltre il Tribunale evidenzia che “… il ricorrente ha riferito di avere tuttora nel proprio Paese contatti diretti con la propria famiglia confermando quindi l’esistenza di una mantenuta rete parentale” e ritiene insussistenti indici di vulnerabilità legati all’inserimento sociale del richiedente in Italia (cfr. pag. 9). Tali passaggi della motivazione non vengono in alcun modo attinto dal ricorrente, che si limita ad una generica – e, quindi, inammissibile – rivendicazione della sussistenza della sua condizione di debolezza, essenzialmente alla luce della condizione esistente in Bangladesh.

In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Infine, pur in assenza di specifico motivo di ricorso, il Collegio ritiene opportuno evidenziare che il provvedimento impugnato contiene stralci di motivazione redatti in lingua diversa da quella italiana, che costituisce l’unica lingua ufficiale utilizzabile negli atti processuali. In proposito, è necessario ribadire che tutti gli atti processuali devono necessariamente essere redatti in italiano e l’uso di lingua diversa da quella nazionale – nella specie, la lingua inglese – è limitato alla sola indicazione delle fonti o documenti consultati per la redazione dell’atto processuale. In tal senso va interpretato quanto affermato da Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 22979 del 16/09/2019, Rv. 655333, la quale ha affermato che “Non viola il principio dell’obbligatorietà dell’uso della lingua italiana negli atti processuali il provvedimento del giudice (nella specie, decreto di diniego di riconoscimento della protezione internazionale a rifugiato) che rechi in motivazione citazioni di fonti di conoscenza in lingua inglese di facile comprensibilità, tali da non recare pregiudizio al diritto di difesa delle parti”, facendo espresso riferimento, in motivazione (cfr. pag. 6) al precedente costituito da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6093 del 12/03/2013, Rv. 625480, che a sua volta aveva ritenuto non affetta da nullità una consulenza tecnica di ufficio regolarmente redatta in lingua italiana ma fondata su pubblicazioni in inglese e quindi recante bibliografia e citazioni di fonti in lingua inglese.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 oltre rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 26 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2020

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