Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15204 del 20/06/2017

Cassazione civile, sez. lav., 20/06/2017, (ud. 21/12/2016, dep.20/06/2017),  n. 15204

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27862-2014 proposto da:

SISTEMA S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. CARINI n. 32,

presso lo studio dell’avvocato COPPACCHIOLI CLAUDIO, rappresentata e

difesa dall’avvocato EUGENIO GALASSI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.M.S., C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA PIAZZA

CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA SIROLLI, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 674/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 17/09/2014 R.G.N. 342/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/12/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato EUGENIO GALASSI;

udito l’Avvocato MARIA SIROLLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di L’Aquila con sentenza n. 674/10 luglio 2014, notificata il 17 settembre 2014, rigettava il gravame interposto dalla S.p.a. SISTEMA avverso la pronuncia resa dal giudice del lavoro di Chieti, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dalla medesima società all’attore C.M.S., dirigente della stessa con funzioni di direttore, senza previa contestazione disciplinare, con la condanna di parte convenuta al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e di quella dell’indennità supplementare. La Corte territoriale, ritenuta la natura disciplinare dell’opposto recesso, ne confermava l’invalidità, poichè comminato in violazione della garanzia della previa contestazione L. n. 300 del 1970, ex art. 7, quale norma di generale applicazione anche ai dirigenti, senza tuttavia reintegrazione nel posto di lavoro, licenziamento ad ogni modo ritenuto ingiustificato in base alle pure apposite argomentazioni svolte al riguardo dalla stessa Corte di Appello. In punto di fatto, tra l’altro, i giudici dell’appello accertavano senza alcun dubbio la natura disciplinare del licenziamento in base al riportato tenore letterale della nota in data 8 luglio 2011, con la quale il recesso era stato comunicato al C. (cfr. in part. pagg. 4 e 5 della sentenza qui impugnata).

Avverso la pronuncia di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la SISTEMA S.p.A. con atto notificato il 14 novembre 2014, affidato a due motivi, cui ha resistito il C. mediante controricorso notificato a mezzo p.e.c. il 22-12-2014.

Non risultano depositate memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente S.p.a. SISTEMA ha denunciato, ex art. 360 c.p.c., comma n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, per non avere la Corte territoriale tenuto adeguato conto della natura peculiare del rapporto di lavoro dirigenziale apicale, di modo che non potendo qualificarsi come disciplinare il contestato licenziamento, non erano dovute le garanzie di cui al citato art. 7.

Con il secondo motivo, inoltre, la Società ha lamentato, pure ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31, comma 17, del c.c.n.l. per i dirigenti del settore terziario distribuzione-servizi, nonchè degli artt. 1362 e 1375 c.c., dolendosi del mancato riconoscimento della giustificatezza del licenziamento in parola, giustificatezza però negata dalla Corte distrettuale sulla base di motivazioni asseritamente incongrue, assunte in violazione delle anzidette disposizioni. Al riguardo, la ricorrente ha menzionato il citato c.c.n.l. (di cui non è stata riportato il testo integrale e che ad ogni modo non risulta allegato e depositato in forza di quanto previsto in materia dagli artt. 366 e 369 c.p.c.), secondo cui è a carico dell’azienda il pagamento della c.d. indennità supplementare, laddove il provvedimento espulsivo sia sprovvisto del requisito della giustificatezza, donde la differenza tra giustificatezza e giustificato motivo. Ad avviso di parte ricorrente, sarebbe quindi stravagante il giudizio della Corte di Appello, secondo la quale era generica la contestazione (di cui alla lettera di licenziamento, il cui testo però nemmeno è stato debitamente riportato dalla ricorrente), relativa alla “inquietante vicenda del Terminal Bus di Lanciano” (secondo la Corte di Appello l’accenno era assolutamente generico, di modo che non consentiva di comprendere quale specifica condotta fosse stata in concreto ascritta al C., mediante la missiva con la quale era stato contestualmente intimato il recesso).

Il ricorso, peraltro carente sotto il profilo formale nei sensi sopra indicati, va comunque respinto, alla luce della condivisa giurisprudenza formatasi in ordine all’applicabilità delle garanzie di cui all’art. 7 St. lav. pure nei riguardi del personale con funzioni dirigenziali.

Ed invero anche di recente (cfr. la sentenza n. 2553 del 10/02/2015) questa Corte ha affermato il principio, secondo cui in materia di rapporto di lavoro dirigenziale, ferma l’insussistenza di una piena coincidenza tra le ragioni di licenziamento di un dirigente e di un licenziamento disciplinare, per la peculiare posizione del predetto e il relativo vincolo fiduciario, le garanzie procedimentali dettate dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, commi 2 e 3, in quanto espressione di un principio di generale garanzia fondamentale, a tutela di tutte le ipotesi di licenziamento disciplinare, trovano applicazione anche nell’ipotesi del licenziamento di un dirigente, a prescindere dalla sua specifica collocazione nell’impresa, qualora il datore di lavoro gli addebiti un comportamento negligente, o colpevole in senso lato, ovvero se, a base del recesso, siano poste condotte comunque suscettibili di pregiudicare il rapporto di fiducia tra le parti, sicchè la loro violazione preclude le possibilità di valutare le condotte causative del recesso (v. in senso analogo Cass. sez. un. civ. n. 7880 del 6 – 30/03/2007, secondo cui le garanzie procedimentali dettate dal L. 20 marzo 1970, n. 300, art. 7, commi 2 e 3, devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente – o, in senso lato, colpevole – sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione.

In motivazione, tra l’altro, le Sezioni unite richiamavano le critiche mosse dalla dottrina al precedente orientamento giurisprudenziale, di segno prevalentemente contrario, sotto molteplici versanti. Ed infatti era stato al riguardo osservato, con riferimento alla corrispondenza ai valori costituzionali, che una diversa interpretazione si poneva in insanabile contrasto con gli interventi del giudice delle leggi, perchè riesumava una vecchia ed ormai logora nozione di dirigente, inteso quale alter ego dell’imprenditore, tenuto poi anche conto dall’ampiezza assunta nella giurisprudenza costituzionale del il principio “audiatur et altera pars”, come indefettibile garanzia di ogni prestatore di lavoro incolpato di un addebito prima che il datore di lavoro determini, con un suo atto unilaterale, conseguenze negative nella sua sfera soggettiva; estensione che anzi aveva travalicato lo stesso ambito del lavoro subordinato toccando la contigua area del lavoro professionale autonomo. In una critica a largo raggio era stato poi rilevato che i dirigenti di azienda rientrano espressamente nella catalogazione delle categorie legali dei prestatori di lavoro di cui all’art. 2095 c.c., che come tali, partecipano alla disciplina del rapporto di lavoro dettata dal codice e dalle leggi speciali per il prestatore di lavoro subordinato in generale; e veniva ancora osservato che, quando invece il legislatore aveva inteso porre delle deroghe alla disciplina comune, aveva dettato speciali disposizioni per tale categoria o per quella più ampia del personale direttivo. E nella stessa ottica, volta a ridurre gli spazi di specialità del rapporto dirigenziale al fine di renderlo compatibile anche sul piano logico con la regolamentazione di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, era stato precisato che, quando il venir meno della fiducia è conseguenza di una condotta del dirigente ritenuta manchevole, il recesso, accanto alla tipica funzione risolutoria del rapporto, contiene anche una causa ulteriore costituita dalla funzione dell’atto di irrogare una pena privata, realizzandosi tale effetto sanzionatorio nella perdita del diritto all’indennità supplementare prevista dai contratti collettivi della categoria e, in casi di particolare gravità, del diritto al preavviso ed alla corrispondente indennità. Sempre nella stessa direzione, era stato osservato che sia la parzialità del modello sodaltipico dell’alter ego dell’imprenditore, sia l’accentuata fiduciarietà del rapporto potevano comportare l’allargamento dell’area dei comportamenti fedeli ma non l’esclusione della rilevanza disciplinare delle condotte inadempienti, mancando nel codice civile traccia testuale di deroga, quanto ai dirigenti, dell’applicabilità dell’art. 2106 c.c., il tutto senza trascurare di considerare che alla luce della impostazione ontologica il potere disciplinare restava tale, meritando la procedimentalizzazione in questione, anche se i particolari connotati del rapporto comportavano che tale potere venisse esercitato se non con la sanzione espulsiva. Pertanto, le Sezioni Unite con la pronuncia di marzo 2007 ritenevano che una interpretazione del dato normativo costituzionalmente orientata, corrispondente anche a criteri logico-sistematici, induceva a condividere la tesi favorevole ad estendere a tutti coloro in possesso della qualifica di dirigente, in ragione della rilevanza dei compiti assegnati dal datore di lavoro e, quindi, senza distinzione alcuna tra dirigenti top manager ed altri (c.d. dirigenti “medi” o “minori”) appartenenti alla stessa categoria – l’iter procedurale previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, richiamando altresì i principi affermati in materia dalla la Corte Costituzionale con le sentenze 25 luglio 1989 n. 427, 30 novembre 1982 n. 204 e 1 giugno 1995 n. 220, 3 aprile 1987 n. 96, 31 gennaio 1991 n. 41, n. 193 del 1995 e 1 luglio 1992 n. 309, stante l’esigenza di garantire ad ogni lavoratore – nel momento in cui gli si addebitano condotte con finalità sanzionatorie – il diritto di difesa. Per di più, l’attuale assetto normativo delle relazioni industriali e ragioni logico- sistematiche ostavano a che in relazione all’obbligo di contestazione degli addebiti potesse procedersi ad una frammentazione della categoria dirigenziale, al fine di esimere il datore di lavoro dall’osservare l’obbligo della preventiva formale contestazione nei confronti dei soli dirigenti c.d. apicali.

La diffusa consapevolezza che la specialità della funzione dirigenziale trovava forme di estrinsecazioni molteplici e non sempre riassumibili a priori in termini compiuti, ed ancora la estrema labilità dei confini tra la figura di dirigente e quella professionale di impiegato con funzioni direttive e quadro di livello più elevato (tra i quali è stabilito generalmente che vengano inquadrati i lavoratori che “siano preposti ad attività di coordinamento di servizi, uffici, enti produttivi, fondamentali dell’azienda o che svolgono attività di alta specializzazione ed importanza ai fini dello sviluppo e della realizzazione e degli obiettivi aziendali”) inducevano a ritenere che la categoria dei dirigenti dovesse identificarsi alla stregua di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, non solo – come detto – per quanto stabilito dall’art. 2095 c.c. ma anche per ben comprensibili ragioni logico-sistematiche.

Mentre la diversità contenutistica tra posizioni dirigenziali non legittimava alcuna differenza di disciplina in ordine alla doverosa e generale assoggettabilità dei fatti causativi del recesso alla procedura ex L. n. 300 del 1970, art. 7, a livelli di disciplina contrattuale, nulla ostava, per contro, a che si introducesse – con il consenso delle organizzazioni sindacali – in luogo dell’uniformità di disciplina una divaricazione nelle tutele, a seconda del diverso grado di rilevanza dei poteri a ciascun dirigente demandati. Peraltro, il necessitato accrescimento della categoria non poteva, tuttavia, spingersi sino al punto di includere in essa i c.d. pseudodirigenti, cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome ed il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quelli dei c.d. dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva – e tanto meno da un contratto individuale – non essendo praticabile uno scambio tra pattuizione di benefici economici (e di più favorevole trattamento) e la tutela garantistica ad essi assicurata, al momento del recesso datoriale, dalle L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970. Dalla violazione delle garanzie, che si traduceva in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturiva l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione.

L’applicabilità della L. n. 300 del 1970, art. 7 ad ogni dirigente e l’identità sul piano degli effetti di un licenziamento non preceduto dalla procedura contestativa a quello privo di “giustificatezza” inducevano, dunque, ad accogliere nella fattispecie esaminata il ricorso del lavoratore, essendo, da un lato, incontroverso tra le parti che il recesso datoriale non era stato preceduto dalla contestazione degli addebiti, e non potendosi dubitare, dall’altro, che il diretto interessato ricoprisse, per i compiti assegnatigli e per l’elevata funzione svolta una posizione che lo poneva in stretto e diretto contatto con il titolare dei poteri gestori dell’Ente, del quale era il – primo collaboratore e del quale non poteva non – godere di totale fiducia. In tale contesto fattuale meritavano accoglimento le censure del ricorrente, con le quali era stata addebitata alla sentenza impugnata di avere, dopo il riconoscimento dell’applicabilità della L. n. 300 del 1970, art. 7 al dirigente, tenuto ugualmente conto dei fatti posti a base del recesso, al fine di negare il trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva nel caso di ingiustificato recesso, finendo in tal modo per considerare e valutare, come accertati e sanzionabili, addebiti in relazione ai quali non si era invece avuto alcun contraddittorio, richiamando altresì – per la statuizione che nell’ipotesi di licenziamento di dirigente senza il rispetto delle garanzie procedurali di cui all’art. 7 siano dovuti oltre che l’indennità di mancato preavviso anche le indennità aggiuntive previste per le ipotesi di licenziamento ingiustificato – Cass. 19 dicembre 1997 n. 12902, che aveva evidenziato l’equiparabilità della mancanza di giusta causa alla mancata contestazione dei fatti che avrebbero potuto integrarla, atteso che, diversamente opinando, per sottrarsi alla erogazione delle suddette indennità aggiuntive sarebbe sufficiente intimare il licenziamento al dirigente senza contestargli alcun addebito.

In senso analogo alle Sezioni unite del 2007, cfr. altresì Cass. lav. n. 897 del 17/01/2011, la quale confermava, in particolare, che le garanzie procedimentali dettate dal più volte citato art. 7 devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa, ed anche nel caso in cui il dirigente sia stato dequalificato – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente, o, in senso lato, colpevole, sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduceva in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturiva l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, ovvero in mancanza di una specifica disciplina, ai criteri di cui all’art. 2099, secondo comma, cod. civ..; ove, peraltro, si trattasse di c.d. pseudo-dirigente, all’applicazione delle garanzie previste dall’art. 7 dovevano seguire le conseguenze previste, secondo le norme ordinarie, per qualsiasi lavoratore subordinato. Conforme Cass. lav. n. 5175 del 16/03/2015.

Cfr., peraltro, anche Cass. lav. n. 5962 – 11/03/2013, che ha escluso la possibilità di “prospective overruling” in relazione al mutamento di giurisprudenza conseguente alla succitata pronuncia di Cass., S.U., 30 marzo 2007 n. 7880, osservando che la Corte si era limitata a comporre un contrasto giurisprudenziale. Ed in proposito Cass. lav. n. 28967 del 27/12/2011 neppure ha ipotizzato un caso di “prospective overruling” in relazione al mutamento della giurisprudenza riguardo alle garanzie procedimentali di cui all’art. 7, non essendo queste equiparabili a regole processuali, finalizzate non già all’esercizio di un diritto di azione o di difesa del datore di lavoro, ma alla possibilità di far valere all’interno del rapporto sostanziale una giusta causa o un giustificato motivo di recesso).

Pertanto, è infondato il primo motivo di ricorso addotto dalla S.p.a. SISTEMA, laddove nella specie la Corte di merito, correttamente, ha applicato in fatto ed in diritto gli enunciati principi, visto che l’impugnato recesso era stato intimato per ragioni di carattere disciplinare, ma senza la necessaria preventiva contestazione.

Dunque, le deduzioni di parte ricorrente non meritano pregio, sicchè vanno disattese in forza della costante e consolidata giurisprudenza formatasi in materia, condivisa da questo collegio, alla quale va perciò data continuità, non sussistendo alcuna valida ragione per discostarsene. Ed invero, poi, il licenziamento per giusta causa, irrogato per una condotta tenuta dal dipendente nell’ambito del rapporto di lavoro e ritenuta dal datore di lavoro tanto scorretta da minare il vincolo fiduciario, è un licenziamento ontologicamente disciplinare, pure indipendentemente dalla sua inclusione tra le misure disciplinari dello specifico regime del rapporto, e deve essere assoggettato, quindi, alle garanzie dettate in favore del lavoratore dai commi 2 e 3 dell’art. 7 Stat. lav. circa la contestazione dell’addebito e il diritto di difesa (Cass. lav. n. 14326 in data otto maggio – 9/8/2012, cui integralmente si rimanda. In senso conforme, v. tra le altre Cass. lav. n. 17652 del 13-08-2007, n. 8576 del 1987, n. 5365 del 1989, nonchè Cass. sez. un. civ. n. 4823 in data 01/06/1987, nonchè più di recente ancora Cass. lav. n. 18270 del 30/07/2013. V. inoltre Cass. lav. n. 309 del 16/01/1988, secondo cui ai fini dell’applicabilità delle procedure garantistiche di cui all’art. 7, commi 1, 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori non è più consentita – dopo la sentenza n. 204 del 1982 della Corte Costituzionale – alcuna distinzione tra i casi in cui il licenziamento cosiddetto disciplinare sia convenzionalmente assoggettato alla disciplina suddetta – sull’obbligo di affissione del codice disciplinare, della preventiva contestazione degli addebiti e dell’audizione del lavoratore con l’eventuale assistenza anche di un rappresentante sindacale – ed i casi in cui manchi tale estensione negoziale, dovendo considerarsi di natura disciplinare ogni licenziamento che sia motivato dal datore di lavoro con la imputazione al lavoratore di un comportamento colposo in senso lato, quale giustificato motivo soggettivo ovvero giusta causa del recesso).

Una volta, poi, acclarata l’infondatezza del succitato primo motivo, atteso il difetto dell’indispensabile preventiva contestazione, resta assorbita anche la seconda censura, atteso che mancando il necessario presupposto della contestazione anteriore al licenziamento, non è possibile evidentemente esaminare aliunde ugualmente nel merito le giustificazioni sottese al medesimo recesso, però viziato nella sua genesi dalla violazione dell’inderogabile disciplina sul punto dettata dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, alla stregua della soprarichiamata ed ormai consolidata giurisprudenza (violazione delle garanzie ex art. 7 con conseguente non valutabilità delle condotte poste in essere dal lavoratore, ancorchè dirigente, che si assumono aver determinato la risoluzione del rapporto). Infatti, la censura sub 2, inerente ad asserita violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31 del c.c.n.l. nonchè degli artt. 1362 e 1375 c.c., esordisce osservando che l’impugnata sentenza sarebbe errata sotto la diversa angolazione del mancato riconoscimento della giustificatezza del licenziamento, negata dalla Corte di Appello sulla base di incongrue motivazioni assunte in violazione delle anzidette disposizioni. Quindi, a parte l’assenza di precise ed esaurienti esposizioni in punto di fatto, pure con riguardo alla mancata riproduzione del testo relativo alla citata contrattazione collettiva (cfr. in part. art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6), appare evidentemente come, nonostante l’omessa preventiva contestazione disciplinare, con conseguente illegittimità del successivo licenziamento così viziato, la ricorrente pretenda ugualmente un riesame dei fatti, peraltro inammissibile in sede di legittimità, per i quali tuttavia assume la giustificatezza dello stesso recesso.

D’altro canto, le ulteriori motivate argomentazioni sul punto da parte della Corte di merito, sia riguardo all’accertamento di tali fatti che in ordine alla loro conseguente valutazione, rendono anche sotto questo profilo inammissibile la censura, siccome non consentiteL nell’ambito della c.d. critica vincolata ammessa ex art. 360 c.p.c. (tanto più poi alla luce del vigente testo dello stesso art. 360 n. 5, nella specie ratione temporis applicabile con riferimento alla sentenza de qua, risalente al mese di luglio dell’anno 2014, di modo che di per sè non rileva la mera insufficienza di motivazione; vizio questo la cui censura è, ad ogni modo, nella specie preclusa, ex art. 348-ter c.p.c., u.c., per effetto della c.d. doppia conforme, data dal rigetto in primo grado con l’appellata sentenza del Tribunale di Chieti n. 220/27-03-2014, confermato dalla successiva pronuncia n. 674/2014, qui impugnata – v. il pure il regime transitorio di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 2, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134).

Pertanto, il ricorso va senz’altro respinto, con conseguente condanna alle spese a carico della parte rimasta soccombente, tenuta quindi, come per legge, anche al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

 

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna la società ricorrente al rimborso delle spese, che liquida, a favore del controricorrente, in Euro 5000,00 (cinquemila/00) per compensi professionali ed in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2017

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