Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15188 del 11/07/2011

Cassazione civile sez. II, 11/07/2011, (ud. 03/02/2011, dep. 11/07/2011), n.15188

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.M. (C.F.: (OMISSIS)), elettivamente

domiciliata in Roma, Via Po n. 25/B presso l’Avvocato Tiziana Serrani

(Studio Pessi e Associati), rappresentata e difesa, per procura

speciale a margine del ricorso, dall’Avvocato SPINELLI Mario;

– ricorrente –

contro

M.V. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e

difesa, per procura speciale a margine del controricorso, dagli

Avvocati GARRAPPA Sebastiano e Pio Tommaso Caputo, elettivamente

domiciliata in Roma, Viale di Villa Grazioli n. 20, presso lo studio

dell’Avvocato Giorgio Romano;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari n. 155 del 2005,

depositata il 28 febbraio 2005;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 3

febbraio 2011 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per la ricorrente, l’Avvocato Tiziana Serrani, per delega;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 5 agosto 1991, B.M., titolare della omonima impresa di costruzioni, assumendo: (a) che aveva stipulato, in data 25 agosto 1988, un preliminare per la vendita di un appartamento in un edificio in corso di costruzione a M. V. per il prezzo di L. 170.000.000, e (b) che con un successivo preliminare si era impegnata a trasferire alla medesima M. un box dietro pagamento del prezzo di L. 23.000.000, e sostenendo (c) che nella determinazione del prezzo di tale box era incorsa in errore, riferendosi il detto prezzo ad un posto auto scoperto, e (d) che la M. si era rifiutata di versare il saldo delle somme dovute per l’appartamento, conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Bari, la M. per sentirsi dichiarare inadempiente al preliminare del 25 maggio 1983 e per sentire emettere sentenza ex art. 2932 cod. civ., condizionando il trasferimento al pagamento integrale del prezzo e per sentire dichiarare la risoluzione del preliminare relativo al box auto.

La M. si costituiva in giudizio contestando le domande e in via riconvenzionale chiedeva emettersi sentenza ex art. 2932 cod. civ., per il trasferimento in suo favore sia dell’appartamento che del box auto, dandosi atto dell’avvenuto versamento, a titolo di acconto, della somma di L. 143.030.000 e della offerta da parte sua della somma residua di L. 49.970.000.

Riunita al giudizio altra causa introdotta dalla M. ed avente ad oggetto le medesime domande dalla stessa proposte in via riconvenzionale, con sentenza depositata il 29 maggio 2000, l’adito Tribunale respingeva le domande della B. e accoglieva integralmente le domande della M., trasferendo in suo favore la proprietà degli immobili condizionatamente al pagamento del prezzo residuo, oltre agli interessi legali dal 3 luglio 1991 e all’IVA, peraltro già corrisposta nella misura di L. 3.583.544.

Avverso questa decisione ha proposto appello la B..

Nella resistenza della M., la Corte d’appello di Bari, con sentenza depositata il 28 febbraio 2005, ha rigettato il gravame.

La Corte ha innanzitutto rigettato il motivo di gravame volto a sostenere che la M. non aveva provveduto al pagamento di lavori extracontrattuali per l’importo di L. 21.317.600. In proposito, la Corte ha rilevato che l’appellante non aveva fornito la prova dell’avvenuta esecuzione di detti lavori, avendo fatto riferimento, per la loro identificazione, ad un disciplinare che non era stato sottoscritto dall’acquirente. Nel disciplinare prodotto da quest’ultima vi erano poi due sole voci (le nn. 16 e 17, relative alla pavimentazione in granito in luogo di quella originariamente prevista in monocottura) che risultavano modificate e la Corte d’appello ha ritenuto che dette modifiche fossero state concordate dalle parti per lo stesso prezzo già stabilito, e ciò sia perchè sul punto alcuna contestazione era stata mossa dalla B. sino all’udienza di precisazione delle conclusioni, sia perchè i relativi costi non risultavano avere formato oggetto di riserva da parte della stessa B. al momento della consegna dell’appartamento. Nè, secondo la Corte, poteva ritenersi che le modifiche apportate sul disciplinare fossero frutto di una posticcia alterazione del documento, atteso che la M. aveva ammesso in sede di interrogatorio libero che le aggiunte erano state apportate da F. M., precisando tuttavia che ciò era avvenuto alla presenza della B. e che il F. era il cognato della stessa e suo collaboratore di fiducia, tanto che riceveva ed effettuava pagamenti per suo conto.

Quanto alle altre opere extracontratto, la Corte ha rilevato che, pur se la M. ne aveva ammesso l’esecuzione, tuttavia la medesima aveva precisato di avere provveduto a regolare direttamente il pagamento con l’impresa cui era stata appaltata la costruzione dell’edificio. D’altra parte, la B. non aveva prodotto alcun ordine scritto a lei rivolto e avente ad oggetto l’esecuzione di detti lavori, nè fatture o buoni di consegna a lei intestati relativamente ai diversi materiali ordinati dalla M.; nè che fosse vietato agli acquirenti degli appartamenti avere rapporti diretti con la impresa appaltatrice. La Corte ha rilevato inoltre, da un lato, che nella corrispondenza intercorsa con l’acquirente, e poi nel corso del giudizio e sino alla costituzione dei nuovi procuratori della B., mai era stato fatto alcun riferimento alla esecuzione di lavori extracontrattuali; dall’altro, che l’impresa appaltatrice mai aveva formulato nei confronti della B. richieste di pagamento relativamente ai lavori eseguiti nell’appartamento della M.. Nè, ha concluso sul punto la Corte d’appello, la B. poteva pretendere di provare, per la prima volta in grado di appello e a circa quindici anni dalla esecuzione dei lavori, le richieste di modifica avanzate dalla M., attraverso una prova testimoniale formulata in modo assai generico, senza indicazione specifica delle circostanze di tempo e di luogo in cui sarebbero state effettuate le richieste di lavori aggiuntivi e senza indicazione delle persone in presenza delle quali ciò sarebbe avvenuto.

La Corte ha quindi ritenuto, rigettando il secondo motivo di appello, che correttamente il Tribunale avesse valutato le prove documentali offerte dalle parti e la prova presuntiva nel senso di escludere un qualsivoglia inadempimento della M.. In proposito, la Corte ha rilevato che era provato l’avvenuto pagamento della somma di L. 134.533.544, così come era incontroversa l’offerta di pagamento della residua somma di L. 50.000.000, sicchè rimaneva da provare il pagamento della residua somma di L. 8.446.456; e la M., ad avviso della Corte d’appello, aveva fornito la prova dell’avvenuto pagamento di L. 12.007.000 attraverso la produzione di sei assegni bancari girati in bianco dalla M. alla B., dovendosi imputare l’eccedenza a pagamento dell’IVA sull’importo contrattuale. Il fatto che di questi assegni alcuni non recassero la firma di girata della B. non escludeva l’attitudine probatoria dei titoli, atteso che la B. era solita effettuare i pagamenti all’impresa appaltatrice girando in bianco assegni ricevuti dalla M., mentre la contraria affermazione della B. di non avere mai negoziato in tal modo i titoli si scontrava con il riconoscimento, dalla medesima fatto, della corresponsione del secondo acconto di L. 40.000.000 con le medesime modalità. Con riferimento poi a tre assegni, dei quali le banche non avevano trasmesso alla M. copia integrale, la Corte rilevava che l’avvenuta percezione delle somme dagli stessi portate potesse desumersi dalle bugie dette dalla B. in sede di interrogatorio libero e nelle deduzioni difensive di non avere mai incaricato il F. o altri di incassare somme per suo conto dalla M.; dalla circostanza che nella corrispondenza intercorsa prima del giudizio, nell’atto di citazione e sino al mutamento di difensori, la B. mai aveva negato di avere ricevuto acconti per L. 143.030.000 e di essere creditrice della residua somma di L. 50.000.000; dall’impegno profuso dalla M. nel richiedere alle banche l’invio degli assegni da lei tratti. Del resto, i tre assegni avevano un importo talmente modesto, a fronte dell’avvenuto versamento di ingenti acconti, da indurre ad escludere l’attendibilità della ricostruzione della B., che mai aveva richiesto una riduzione del prezzo pattuito. Nessun inadempimento poteva quindi addebitarsi alla M., essendo invece risultata solo la B. inadempiente ed essendosi essa inizialmente limitata a dedurre che la questione controversa concerneva solo il prezzo del box e non altro.

La Corte ha rigettato poi il motivo con il quale la B. aveva sostenuto l’inadempimento della M. per non avere offerto al notaio in sede di stipula l’importo dell’IVA, osservando che dagli atti non emergeva in alcun modo che l’acquirente si fosse rifiutata di pagare l’IVA, mentre risultavano motivi addebitatali alla B., che non aveva dato prova di avere emesso le fatture sulle quali l’acquirente avrebbe dovuto pagare l’IVA, fermo restando che in nessuno dei due preliminari era previsto il pagamento dell’imposta contestualmente alla stipula.

Quanto infine all’ultimo motivo di appello, concernente la mancata restituzione di quanto dalla B. versato a titolo di ICI dopo l’immissione della M. nel possesso dell’immobile,, la Corte ha rilevato che nessuna pronuncia di rimborso era possibile, dal momento che si trattava di obbligazioni fiscali non previste e non regolate tra le parti e gravanti su chi è proprietario al momento della imposizione, e che comunque non vi erano in atti ricevute che si potessero riferire specificamente agli immobili acquistati dalla M..

Per la cassazione di questa sentenza, ha proposto ricorso B. M. sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito, con controricorso, M.V..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve preliminarmente essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto della procura speciale. Trova infatti applicazione il principio per cui “il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione, essendo per sua natura speciale, non richiede ai fini della sua validità alcuno specifico riferimento al giudizio in corso, sicchè risultano irrilevanti sia la mancanza di uno specifico richiamo al giudizio di legittimità sia il fatto che la formula adottata faccia cenno a poteri e facoltà solitamente rapportabili al giudizio di merito” (Cass., n. 26504 del 2009).

Nella specie, a margine del ricorso risulta apposta la seguente formula: “A rappresentarmi e difendermi con le più ampie facoltà di legge, nomino l’Avv. Mario Spinelli”. Trattasi di formula che, pur non contenendo uno specifico riferimento alla sentenza oggetto di impugnazione e al giudizio di cassazione, tuttavia acquista il necessario connotato di specialità per essere apposta a margine del ricorso per cassazione; essa, inoltre, non contiene alcuna indicazione che possa indurre a ritenere che la procura sia stata conferita per un diverso giudizio.

Con il primo motivo, la ricorrente denuncia nullità della sentenza e/o omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., nn. 4 e 5). La ricorrente rileva che con l’atto di appello aveva insistito perchè venisse riconosciuto il suo diritto al pagamento di lavori extracontrattuali e aveva dimostrato che la M., contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, aveva corrisposto in ritardo parte della terza rata dovuta per il completamento delle finiture, sicchè la somma offerta dall’acquirente dinnanzi al notaio era insufficiente ad assolvere alle obbligazioni sulla stessa gravante. La Corte d’appello, atomizzando il contenuto delle censure proposte, non si sarebbe quindi avveduta che con tali censure si mirava a dimostrare l’inadempimento della M..

Il motivo è infondato.

La Corte d’appello, all’esito della disamina delle risultanze istruttorie e dei motivi di gravame, ha conclusivamente affermato che non vi era in atti prova di un qualsivoglia inadempimento della M. e ha invece ritenuto sussistente l’inadempimento della venditrice. Si tratta di accertamenti di fatto adeguatamente e logicamente motivati, come si desume dal contenuto della sentenza di cui è dato prima conto.

La censura, peraltro caratterizzata da genericità, non risulta congrua rispetto alla riferita motivazione, senza che siano evidenziate specifiche lacune o contraddizioni della trama argomentativa della sentenza impugnata, con il che il motivo si risolve in una inammissibile richiesta di nuova valutazione delle risultanze istruttorie, non consentita in sede di legittimità.

Quanto poi alla denunciata nullità della sentenza impugnata, la censura risulta meramente enunciata ma non dimostrata, essendo al più denunciata, ma incongruamente, una erronea interpretazione dell’atto di appello piuttosto che un vizio di omessa pronuncia, peraltro del tutto insussistente nella specie.

Con il secondo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1218, 2697 e 2729, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. La censura si riferisce alle argomentazioni in base alle quali la Corte d’appello ha ritenuto che le modifiche nei materiali di cui ai punti nn. 16 e 17 del disciplinare fossero state concordate e che non fossero stati provati i lavori extracontrattuali.

Quanto al primo punto, la ricorrente osserva che l’evidente alterazione del disciplinare, riconosciuta dalla stessa M., non poteva esserle opposta, anche perchè, in sede di libero interrogatorio, la medesima acquirente aveva affermato che le modifiche erano state apportate non da essa ricorrente ma dal F., il cui operato non poteva certamente essere fonte di obbligazioni per lei, non essendo neanche stata oggetto di dimostrazione l’asserita collaborazione del F..

Quanto alla questione dei lavori extracontrattuali, la ricorrente si duole che la Corte d’appello abbia sostanzialmente invertito l’onere probatorio. Infatti, una volta ammesso dalla stessa controparte che i lavori erano stati eseguiti, era onere della M. provare che il pagamento fosse avvenuto direttamente nelle mani della impresa appaltatrice ovvero dei fornitori dei materiali. E sul punto, la M. non aveva dedotto alcunchè. Del tutto irrilevante doveva poi ritenersi l’argomentazione secondo cui solo in corso di causa ella aveva avanzato richiesta di pagamento di lavori extracontrattuali, avendo tale pretesa formato oggetto sia di richieste stragiudiziali, sia dell’atto di citazione. La sentenza sarebbe poi ulteriormente viziata per non avere la Corte d’appello ammesso la richiesta prova testimoniale. Il decorso di un rilevante lasso di tempo dai fatti non incide sulla ammissibilità della prova testimoniale, che del resto era stata articolata in modo preciso.

Ed ancora, la ricorrente si duole della motivazione relativamente agli avvenuti pagamenti da parte della M. e quindi alla congruità della somma offerta in sede di stipula. In particolare, la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere provati i pagamenti di cui agli assegni privi di girata e la motivazione addotta sul punto sarebbe del tutto insufficiente. La Corte d’appello avrebbe quindi violato le norme sulle presunzioni, in quanto il fatto che i conteggi della controparte fossero stati contestati solo in corso di causa non aveva alcuna valenza presuntiva circa la correttezza di quei conteggi; per il resto, la Corte ha attribuito rilievo a circostanze di fatto del tutto inidonee a costituire premessa di un ragionamento presuntivo, omettendo invece di considerare altri elementi, pure evidenziati, che avevano una valenza esattamente contraria.

Il motivo è inammissibile, con riferimento alla denunciata violazione di legge.

E’ noto che quando nel ricorso per cassazione, pur denunciandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate – o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina – il motivo è inammissibile, poichè non consente alla Corte di cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 15177 del 2002; Cass. n. 2707 del 2004; Cass. n. 8106 del 2006).

Nel caso di specie, la ricorrente ha denunciato genericamente la violazione delle norme di legge indicate in epigrafe, ma ha omesso di correlare la dedotta violazione e falsa applicazione delle dette norme a specifiche argomentazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata.

In realtà, lungi dall’integrare un pertinente motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, le censure della ricorrente si appuntano esclusivamente sulla motivazione della sentenza impugnata. In proposito, peraltro, deve rilevarsi che “la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione” (Cass., S.U., n. 13045 del 1997; Cass. n. 8718 del 2005).

Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, infatti, “non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Nè, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se – confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie – prendesse d’ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso sub specie di omesso esame di un punto decisivo. Del resto, il citato art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. n. 4766 del 2006).

Con specifico riferimento alla prova presuntiva, poi, si è chiarito che “spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo” (Cass. n. 8023 del 2009; Cass. n. 15737 del 2003).

Orbene, tenuto conto dei limiti propri del sindacato consentito in sede di legittimità in relazione al denunciato vizio di motivazione, ritiene il Collegio che le articolate censure della ricorrente si risolvano nella richiesta di una nuova valutazione delle risultanze istruttorie. Lungi dall’evidenziare lacune logiche o contraddizioni nel tessuto argomentativo della sentenza impugnata, la ricorrente sostiene che le circostanze di fatto, dalla Corte d’appello ritenute significative per rigettare le pretese della ricorrente e per accogliere, invece, le domande della controparte, sarebbero suscettibili di una diversa valutazione e per tale ragione inidonee a sorreggere il ragionamento presuntivo articolato dal giudice del gravame. In tal modo, peraltro, le critiche della ricorrente finiscono per appuntarsi sulla valutazione dei dati probatori rilevanti acquisiti nel corso del giudizio, interpretati dalla Corte d’appello alla luce del criterio valutativo di cui all’art. 116 cod. proc. civ., comma 2, e cioè alla luce del comportamento processuale delle parti. In particolare, la Corte territoriale ha evidenziato il mutamento di strategia processuale della ricorrente che, per quanto legittimo, non ha comunque vanificato l’originaria posizione di non contestazione in ordine alle somme che la resistente aveva versato e circa la effettuazione di lavori non previsti nell’originario contratto.

La stessa decisione della Corte d’appello di ritenere inammissibile la prova testimoniale si sottrae alle proposte censure, atteso che la valutazione della Corte territoriale scaturisce dalla disamina delle altre risultanze probatorie e tiene conto del comportamento processuale delle parti e segnatamente della iniziale mancanza di qualsivoglia richiesta della ricorrente per lavori extracontrattuali.

In tale contesto, la valutazione di genericità della prova testimoniale sotto i profili indicati in motivazione, si sottrae a critica, avendo in sostanza la Corte d’appello ritenuto non decisiva la prova in considerazione delle altre risultanze istruttorie.

Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1991, art. 1 e dell’art. 2932 cod. civ.. La censura si riferisce al rigetto della domanda di restituzione delle somme versate a titolo di ICI e di imposta straordinaria sugli immobili relativamente a periodi di imposta nei quali il bene era nella disponibilità della M.. Del resto, la circostanza che la sentenza ex art. 2932 cod. civ., retroagisce alla data della trascrizione della relativa domanda avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale a ritenere che le imposte avrebbero dovuto essere pagate dall’acquirente.

Il motivo è infondato.

La Corte d’appello, come si è già rilevato, con riferimento alla pretesa dell’odierna ricorrente di vedersi restituiti gli importi versati a titolo di ICI e di imposta straordinaria sugli immobili, ha osservato, da un lato, che nessuna pronunzia di rimborso di detti importi era possibile, trattandosi di obbligazioni fiscali non previste e non regolate dalle parti nel contratto per il periodo precedente alla vendita e gravanti solo su chi risulti essere proprietario al momento della imposizione fiscale; dall’altro, che comunque, tra i documenti prodotti, non vi erano ricevute che si riferissero specificamente all’immobile oggetto di causa. Orbene, su tale argomentazione, che costituisce una ragione autonoma e sufficiente a giustificare la decisione di reiezione del gravame, la ricorrente non ha svolto alcuna censura, sicchè il motivo di ricorso in esame non può trovare accoglimento. Trova quindi applicazione il principio per cui “ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (Cass. n. 24540 del 2009; Cass. n. 19200 del 2004).

In conclusione, la sentenza impugnata si sottrae ai denunciati vizi, sicchè il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2011

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