Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15187 del 11/07/2011

Cassazione civile sez. II, 11/07/2011, (ud. 03/02/2011, dep. 11/07/2011), n.15187

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

V.M. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliata in

Roma, Via Pietro Cossa n. 41, presso lo studio dell’Avvocato PORCELLI

Vincenzo, dal quale è rappresentata e difesa, unitamente

all’Avvocato Paolo Trezzi, per procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

Q.G. ((OMISSIS)), rappresentato e difeso, per

procura speciale in calce al controricorso, dagli Avvocati CARREA

Alessandra, Riccardo Ferrante e Giorgio Della Valle, elettivamente

domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Piazza Giuseppe

Mazzini n. 8;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 1155 del 2005,

depositata il 4 maggio 2005.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 3

febbraio 2011 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per la ricorrente, l’Avvocato Edoardo Bitterman, per delega;

sentiti, per il resistente, gli Avvocati Alessandra Correa e Riccardo

Ferrante;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata in data 11 febbraio 1992, Q.G. conveniva in giudizio, dinnanzi al tribunale di Milano, V. M., chiedendo la declaratoria dell’invalidità o l’annullamento del testamento olografo apparentemente redatto in data 5 aprile 1989 dal cugino Q.G., deceduto il (OMISSIS), per incapacità del de cuius a testare ex art. 591 cod. civ., comma 2, n. 3, ovvero perchè indottovi con violenza o dolo.

La convenuta si costituiva e contestava la fondatezza della domanda.

L’adito Tribunale, con sentenza depositata il 5 luglio 2001, rigettava le domande.

Proponeva appello il Q. e, nella resistenza della appellata, la Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 5 maggio 2005, ha accolto la domanda, annullando l’impugnato testamento.

La Corte ha innanzitutto rilevato che erano certe le seguenti circostanze: sin dal 1984 Q.G. era affetto da evidente deficit mentale probabilmente già dall’infanzia (certificato del medico curante del (OMISSIS)); in precedenza era stata formulata, all’esito di ripetuti esami diretti del paziente, una diagnosi di “ipoevolutismo psichico dall’età puberale .. bradipsichismo” (certificato INPA (OMISSIS)); il consulente tecnico d’ufficio ha accertato in data 1 febbraio 1990 “evidenti difficoltà di comprensione (…) numerose lacune mnestiche (…) pensiero povero e nel contenuto poco adeguato e infantile (…) scarse possibilità di elaborazione e insufficienti possibilità di critica e di giudizio (…) insufficienza mentale caratterizzata da una povertà ideativa (…) grosse difficoltà nel discernimento quantitativo e qualitativo riguardo a cose e persone (…) è apparso particolarmente malleabile e suggestionabile (…)”;

Ha quindi ritenuto provato che il testatore, nel momento della redazione del testamento, versava in uno stato di patologia psichiatrica, a cagione dell’infermità permanente da cui era da tempo afflitto, tale da precludergli le facoltà psichiche necessarie per una consapevole valutazione del contenuto dell’atto e per il formarsi di una volontà cosciente e tale, quindi, da privarlo della coscienza del significato dei propri atti e della capacità di autodeterminarsi. Tale conclusione non era inficiata, ad avviso della Corte, dall’opinione espressa nel corso del procedimento di interdizione da un consulente tecnico d’ufficio, in quanto, mentre i presupposti per l’interdizione consistono in concreti accertamenti dell’obiettività patologica del paziente, la conclusione del c.t.u.

è stata motivata sulla base della considerazione, del tutto soggettiva, di voler evitare il profondo vissuto di umiliazione che sarebbe derivato al Q. dalla pronuncia di interdizione. Con la precisazione che l’apprezzamento circa la sussistenza dei presupposti della interdizione era riservato al giudice del procedimento di interdizione, che peraltro non potè formulare il proprio giudizio per il decesso del Q.. Nessun utile elemento poteva poi essere desunto dalla c.t.u. eseguita nel corso del giudizio, atteso che la stessa era stata espletata dopo il decesso del Q..

Il giudizio di incapacità, ha concluso la Corte, trovava poi riscontro nelle altre emergenze probatorie, con particolare riferimento al comportamento della V. in concomitanza e successivamente alla redazione del testamento, che erano del tutto compatibili con il quadro di facile suggestionabilità del Q..

Per la cassazione di questa sentenza, ha proposto ricorso V. M. sulla base di tre motivi, cui ha resistito, con controricorso, Q.G.. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente denuncia travisamento dei fatti e delle risultanze istruttorie; insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

La ricorrente rileva che il consulente tecnico d’ufficio nel procedimento di interdizione ha concluso in senso diverso da quello affermato dalla Corte d’appello, e cioè sostenendo che Q. G. non presentava infermità abituali di mente tali da privarlo totalmente della capacità di intendere e di volere e che potessero quindi determinare il provvedimento di interdizione. Si trovava, invece, per insufficienza mentale di grado medio lieve, in una condizione di ridotta capacità di intendere e di volere che avrebbe reso opportuno un provvedimento di inabilitazione.

Ma anche il c.t.u. nominato in primo grado aveva rimarcato come nel Q. persistessero sia un adeguato orientamento spazio temporale, sia una ancorchè ridotta efficienza di comprensione e di adeguamento alla realtà, unitamente ad una anch’essa ridotta, ma non abolita, volontà di agire. Il teste F., amministratore dei beni del Q., del resto, aveva riferito che quest’ultimo era in grado di compiere operazioni bancarie e di compilare assegni, mentre il teste R. aveva riferito che il Q. era in condizioni di igiene normali e che la sua casa era pulita.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia falsa applicazione dell’art. 591 cod. civ., e travisamento dei fatti e delle risultanze istruttorie. Le circostanze richiamate nella sentenza impugnata risultano sintomatiche di uno stato patologico, ma non possono fondare una conclusione di incapacità di intendere e di volere al momento della redazione del testamento. Infatti, osserva la ricorrente, la c.t.u. nel procedimento di interdizione era stata eseguita pochi mesi dopo la redazione del testamento; il fatto poi che la relazione tecnica nel giudizio di primo grado fosse stata effettuata su dati clinici non valeva a sminuirne la portata e ad escluderne la valenza probatoria. In tale contesto la Corte d’appello ha disatteso il principio per cui l’incapacità naturale del disponente, ostativa alla facoltà di testare, deve rivestire un grado tale che, se abituale, legittimerebbe l’interdizione e non la semplice inabilitazione.

Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta violazione dell’art. 2697 cod. civ., per avere la Corte d’appello ritenuto che fosse suo onere quello di provare che il testamento fosse stato redatto in un momento di lucido intervallo, laddove il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità è che lo stato di capacità è la regola e quello di incapacità l’eccezione e si ha inversione dell’onere probatorio solo allorchè il soggetto che impugna il testamento dimostri con certezza l’esistenza di uno stato di infermità mentale permanente nel de cuius. Nel caso di specie mancava proprio il presupposto necessario per invocare l’inversione dell’onere della prova, risultando inesistente la infermità mentale permanente del testatore.

I tre motivi di ricorso, all’esame dei quali può procedersi congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, sono infondati.

La Corte d’appello, con motivazione immune dai denunciati vizi, logica e congrua, nonchè puntualmente supportata da specifici riferimenti alle risultanze istruttorie, ha ritenuto che il testatore, al momento della redazione del testamento, fosse affetto da una infermità psichica di natura permanente, tale da determinare la sua incapacità di intendere e di volere. In particolare, la Corte d’appello non ha trascurato alcuna delle circostanze dal mancato esame delle quali la ricorrente pretenderebbe far derivare la carenza motivazionale o il travisamento dei fatti, avendo dato conto segnatamente delle ragioni per le quali la valutazione espressa dal c.t.u. nominato nel corso del procedimento di interdizione in ordine alla insussistenza della situazione di incapacità di intendere e di volere non fossero automaticamente significative nel senso preteso dalla ricorrente, atteso che quello specialista non aveva avuto modo di completare il proprio esame a causa del decesso del Q., e trovando giustificazione la valutazione interlocutoria espressa in ordine alla interdizione nell’esigenza, tutta soggettiva, di voler evitare il profondo vissuto di umiliazione che sarebbe derivato al Q. dalla pronuncia di interdizione.

Il dato che emerge con chiarezza dalle risultanze istruttorie menzionate nella sentenza impugnata è, dunque, quello di un soggetto affetto da un evidente deficit mentale da bradipsichismo, con caratteristiche di rilievo psichiatrico che gli cagionavano evidenti difficoltà di comprensione, l’impossibilità di cogliere ed esprimere concetti anche semplici, lacune mnesiche, carente capacità critica ed ideativa, grosse difficoltà nel discernimento quantitativo e qualitativo riguardo a cose e persone e di facile suggestionabilità. E di tale quadro la Corte ha trovato riscontro anche nelle espressioni utilizzate nella redazione del testamento, incompatibili con i deficit ora evidenziati, nonchè nelle deposizioni testimoniali riferite all’epoca in cui era stato redatto il testamento e comprovanti la presenza di una parente, e segnatamente dell’odierna ricorrente, che aveva comportato un rilevante turbamento nel Q..

In tale contesto, la valutazione della Corte d’appello secondo cui doveva ritenersi provata la condizione di infermità psichica idonea a determinare una situazione di incapacità di intendere e di volere resiste a tutte le censure svolte dalla ricorrente; censure che, in realtà, più che evidenziare lacune logiche o vizi giuridici della impugnata sentenza, appaiono finalizzate ad ottenere una diversa valutazione delle risultanze istruttorie. In particolare, si è già rilevato come la Corte d’appello abbia dato conto, del tutto plausibilmente, delle ragioni per cui non ha attribuito rilevanza decisiva alla valutazione espressa dal c.t.u. Dott. T.. A ciò deve aggiungersi che la Corte d’appello ha anche puntualmente esplicitato le ragioni per cui ha privilegiato la valutazione espressa dai sanitari che avevano avuto contatti diretti con il Q. e che avevano, quindi, potuto osservarlo e formulare la diagnosi sopra riferita, piuttosto che quella espressa dal c.t.u.

nominato nel giudizio di primo grado, il quale ha espresso il proprio giudizio unicamente sulla base della documentazione sanitaria in atti.

Con riferimento, poi, alle circostanze che la ricorrente ricorda essere state riferite dai testi circa le condizioni di igiene del de culus, nonchè sulla capacità del medesimo di effettuare prelievi e operazioni bancarie, è appena il caso di rilevare che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. Si deve solo aggiungere che le circostanze indicate dalla ricorrente appaiono tutt’altro che decisive nel complessivo quadro probatorio quale risulta dalla sentenza impugnata e che, comunque, la ricorrente omette di prendere in considerazione e di criticare puntualmente le considerazioni svolte dalla Corte d’appello circa la non riferibilità del tenore letterale del testamento alla capacità intellettiva e alla volontà del testatore, oltre che al contesto che altri testi hanno riferito avere caratterizzato il rapporto tra la ricorrente e il de cuius.

E’ chiaro, poi, che dalla ritenuta sussistenza di una infermità psichica di natura permanente, la Corte d’appello ha correttamente desunto l’operatività del principio, più volte affermato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, “accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi, prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell’incapacità è assistita da presunzione iuris tantum, sicchè, in concreto, si verifica l’inversione dell’onere della prova nel senso che, in siffatta ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo” (Cass. n. 4539 del 2002; Cass. n. 9662 del 2003).

In conclusione, la sentenza impugnata si sottrae ai denunciati vizi, sicchè il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2011

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