Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15179 del 20/06/2017

Cassazione civile, sez. III, 20/06/2017, (ud. 05/05/2017, dep.20/06/2017),  n. 15179

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13093-2015 proposto da:

E.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI CASTANI

195, presso lo studio dell’avvocato BRUNO GALATI, rappresentato e

difeso dagli avvocati CLAUDIO GIACOMONI, LUISA EMANUELLI giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 4149/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 24/11/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/05/2017 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO ALBERTO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 9 giugno 2001 il Tribunale di Milano accoglieva in parte la domanda di risarcimento dei danni proposta da M.C. nei confronti di E.M. – dentista – e del (OMISSIS) s.a.s. – presso la cui struttura il dentista esercitava la sua attività professionale -, entrambi rimasti contumaci, condannandoli a corrisponderle la somma di Euro 28.828 oltre accessori e spese processuali.

Avendo proposto appello la M., ed essendo rimasti contumaci gli appellati, la Corte d’appello di Milano, con sentenza del 24 novembre 2014, accoglieva parzialmente il gravame, condannando solidalmente gli appellati a corrispondere all’appellante la somma di Euro 57.030,16, oltre ad accessori e spese di lite.

2. Ha presentato ricorso E.M. sulla base di tre motivi, rispetto al quale non è stato presentato controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è infondato.

3.1.1 Il primo motivo denuncia nullità della sentenza e del procedimento ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione agli artt. 101, 102, 156, 159, 160, 161 e 331 c.p.c., nonchè violazione del principio del contraddittorio, anche in relazione agli artt. 1292 e 1299 c.c..

Adduce il ricorrente che il (OMISSIS) s.a.s. fu dichiarato fallito dal Tribunale di Milano con sentenza del 19 dicembre 1996, e che la procedura fallimentare fu chiusa con decreto del 26 febbraio 2004, da ciò discendendo l’estinzione della società. Ne trae il seguente quesito di diritto: se sì propone domanda contro due convenuti, a uno solo dei quali viene ritualmente notificato l’atto introduttivo, essendo l’altro inesistente, sussiste litisconsorzio necessario? E le sentenze di primo e di secondo grado che condannano solidalmente i convenuti producono litisconsorzio necessario processuale?

Ai sensi dell’art. 2495 c.c., comma 2, la cancellazione dal registro delle imprese ha l’effetto costitutivo dell’irreversibile estinzione della società anche in presenza di rapporti non ancora definiti: e la società estinta per cancellazione non può agire nè essere convenuta in causa. Nel caso di specie, già dalla richiesta – antecedente l’avvio del giudizio di piena cognizione – di accertamento tecnico preventivo da lei avanzata nel 2007, la M. avrebbe potuto o citare il professionista insieme all’accomandante e all’accomandatario quali persone fisiche che avrebbero rivestito il ruolo di successori della società estinta o rinunciare alla domanda nei confronti della società e agire solo nei confronti del professionista. Con notifica irregolare dell’atto introduttivo sia del primo sia del secondo grado (l’atto non sarebbe stato notificato presso la sede legale della società bensì per posta all’accomandataria L.G.G.) la M. avrebbe dunque instaurato “un contraddittorio apparentemente regolare ma in sostanza “monco””. Richiama il ricorrente giurisprudenza per cui, se si propone domanda alternativa nei confronti di due convenuti invocando la responsabilità dell’uno o dell’altro per lo stesso fatto dannoso, il litisconsorzio unitario o necessario processuale può essere sciolto dall’attore se impugna solo nei confronti di uno di loro, abbandonando quindi la prospettazione di responsabilità alternativa, con conseguente applicabilità dell’art. 332 c.p.c., dovendosi altrimenti applicare l’art. 331 c.p.c., onde, se l’impugnazione ad uno di loro non viene validamente notificata, si deve disporre l’integrazione o la rinnovazione della notifica nei suoi confronti: e ne deduce che nel caso in esame l’attrice, convenendo sia lui sia il Centro, avrebbe formato un litisconsorzio unitario processuale, coinvolgente anche una parte inesistente. Una sentenza sarebbe affetta da una nullità, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado, se l’atto introduttivo viene notificato a persona giuridicamente inesistente per perdita di capacità giuridica: ciò varrebbe anche nel caso di persona giuridica che perde la capacità giuridica; e il socio di una persona giuridica societaria dovrebbe subentrarle come successore con legittimazione passiva per quanto concerne appunto i rapporti della società. Da ciò deriverebbe che nel caso in esame le sentenze di primo e di secondo grado sarebbero nulle e inesistenti.

Infine, il ricorrente argomenta in ordine al suo interesse a proporre l’impugnazione affermando che la sentenza di primo grado, parzialmente riformata da quella del secondo, prevede obbligazione solidale dei convenuti, ma avrebbe effetto solo nei confronti del ricorrente. Ciò non sarebbe giustificato dalla facoltà del creditore, ai sensi degli artt. 1292 ss. c.c., di rivolgersi a uno solo dei debitori solidali per l’intero adempimento dell’obbligo, poichè questo non produce “effetto sul piano interno dell’obbligazione solidale”, in quanto, non esistendo il condebitore solidale, il debitore che adempie non può esercitare l’azione di regresso di cui all’art. 1299 c.c.. Quindi la sentenza sarebbe “non idonea a formare giudicato sostanziale per mancanza di uno dei soggetti destinatari”. Ribadisce pertanto il ricorrente che entrambe le sentenze di merito sarebbero inesistenti perchè formatesi “sulla base di un litisconsorzio irregolare/illegittimo”.

3.1.2 La censura appena sintetizzata è più suggestiva che consistente. A ben guardare, infatti, il suo percorso – peraltro non lineare – trova un nucleo fondamentale nell’asserto che sia stata presentata domanda alternativa, poichè è proprio da essa che discenderebbe il litisconsorzio unitario o necessario processuale, che l’attrice non avrebbe sciolto. Ma è lo stesso ricorrente che, illustrando poi il secondo motivo, riconosce che davanti al Tribunale fu proposta “generica domanda risarcitoria e di condanna sia del Dottor E.M. sia del “(OMISSIS) s.a.s.” ” al “risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non patrimoniali…) subiti” dall’attrice (ricorso, pagina 14). Le argomentazioni del ricorrente non corrispondono, dunque, a quanto il medesimo riconosce in ordine all’oggetto della domanda attorea: domanda che non fu, evidentemente, alternativa (“sia…sia”).

D’altronde, oltre a non essere applicabile la disciplina sostanziale attinente appunto alle obbligazioni alternative di cui agli artt. 1285 ss. c.c., con le correlate conseguenze processuali, non è sostenibile che – come a ben guardare prospetta invece il ricorrente – il creditore sia obbligato a chiamare in causa il condebitore solidale per consentire l’azione di regresso: se, pertanto, uno dei convenuti in realtà è inesistente, ovvero ha perso capacità giuridica, non compete all’attore tutelare il preteso diritto di regresso del convenuto che ha ancora capacità giuridica. La sostanza della solidarietà risiede, infatti, proprio nella interezza della responsabilità esterna di ogni debitore nei confronti del creditore, ex art. 1292 c.c., non essendo il creditore in alcun modo a sua volta obbligato – ciò avrebbe logicamente base in una responsabilità esterna parziale – a tutelare il debitore cui si rivolge nell’ambito dei rapporti interni tra quest’ultimo e gli ulteriori debitori, nel caso in cui esistano (cfr. art. 1298 c.c.).

Assorbito pertanto ogni altro profilo da quanto si è appena osservato, il motivo si manifesta privo di fondatezza.

3.2.1 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 violazione e falsa applicazione degli artt. 1173, 1372, 1453, 1458 e 2236 c.c..

Nel caso di specie, sarebbe stata esercitata un’azione contrattuale per responsabilità medica con domanda restitutoria del compenso connessa al danno patrimoniale. Ne estrae il ricorrente il seguente quesito: l’obbligo di restituzione può prescindere dalla pronuncia costitutiva della risoluzione del contratto?

Il Tribunale avrebbe ritenuto che il danno patrimoniale di cui l’attrice chiedeva il risarcimento fosse stato il corrispettivo contrattuale, ritenendo perciò necessaria la domanda di risoluzione. Ad avviso del ricorrente, dinanzi al giudice di prime cure sarebbe stata proposta – come già sopra riportato a proposito del motivo precedente – “generica domanda risarcitoria e di condanna sia del Dottor E.M. sia del “(OMISSIS) s.a.s.” ” al “risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non patrimoniali…) subiti” dall’attrice “nella misura che risulterà di giustizia”. Il Tribunale avrebbe escluso dai danni i costi per le prestazioni del ricorrente reputandoli effetti restitutori di risoluzione, laddove la domanda sarebbe stata solo risarcitoria. La M. avrebbe appellato per il mancato riconoscimento dei danni patrimoniali e in particolare delle spese mediche necessarie, sostenute e documentate, lamentando che il primo giudice non avrebbe condiviso la sua tesi di “costi erogati inutilmente” quale conseguenza ex art. 1223 c.c.: erogazioni effettuate per godere della prestazione e “rese inutili dall’inadempimento”. Il giudice di secondo grado “ribaltava la decisione” del primo in ordine al danno patrimoniale senza motivazione. La domanda sarebbe comunque risarcitoria, mentre avrebbe dovuto essere restitutoria, anche perchè la prestazione medica è un’obbligazione di mezzi e non di risultato. L’obbligo di restituzione della prestazione effettuata in un contratto sinallagmatico potrebbe discendere soltanto da una pronuncia giudiziale che dichiari la nullità del contratto o lo annulli o lo dichiari risolto o rescisso, così aprendo la strada alla ripetizione d’indebito oggettivo. Ma nel caso di specie difetterebbe la domanda di risoluzione del contratto.

3.2.2 Il motivo non gode di adeguata autosufficienza in ordine alla coincidenza dei danni patrimoniali che la M. avrebbe preteso con l’importo di quanto da lei versato al professionista quale corrispettivo delle sue prestazioni. A sorreggere tale coincidenza, infatti, il ricorrente si limita ad addurre (pagina 15 del ricorso) che l’appellante avrebbe impugnato la sentenza del Tribunale per avere quest’ultimo errato nel non condividere la tesi attorea sul concetto di “costi erogati inutilmente” quali conseguenza immediata e diretta della condotta, costituiti dalle spese rappresentate da “erogazioni patrimoniali che il creditore ha effettuato per ricevere e godere della prestazione rese inutili dall’inadempimento”. Si tratta, evidentemente, di una mera estrapolazione che il ricorrente asserisce di avere effettuato dall’atto d’appello, e che non è sufficiente, per la sua limitatezza, a rendere inequivoco che proprio per la contestata necessità della domanda di risoluzione contrattuale la M. abbia proposto l’appello; nè, d’altronde, nella premessa in fatto con cui ha aperto il ricorso, descrivendo la vicenda processuale, il ricorrente si è speso in alcun modo nell’indicare le doglianze che avrebbero costituito il contenuto del gravame di merito presentato dalla M. (ricorso, pagina 5). Meramente ad abundantiam, quindi – non potendo il contenuto della pronuncia impugnata costituire una fonte di integrazione del ricorso, che invece deve essere autosufficiente -, si osserva che dalla sentenza impugnata non emerge affatto nè la questione della risoluzione del contratto, nè la identificazione dei danni patrimoniali subiti dalla M. nel corrispettivo da lei versato all’attuale ricorrente, facendo anzi la corte territoriale riferimento a “spese mediche necessarie, sostenute e documentate, riconosciute dal c.t.u.” – laddove, logicamente, il corrispettivo di una prestazione che, anzichè necessaria, sarebbe stata pregiudizievole (non vi è discussione sui danni biologici) non potrebbe certo definirsi spese necessarie – e a generici “esami e visite specialistiche”, in ordine alle quali non emerge il professionista che le avrebbe effettuate (si ricordi che nella sua pur quanto mai succinta esposizione in fatto la corte territoriale ha evidenziato anche l’intervento, dopo che la M. ebbe lasciato l’attuale ricorrente, di un altro dentista che le effettuò terapie, dal novembre 2003 al luglio 2008).

Il motivo risulta pertanto inammissibile.

3.3 Il terzo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione su fatto discusso e decisivo in relazione all’art. 111 Cost., comma 6, artt. 113, 115 e 116 c.p.c..

Il punto decisivo sarebbe il “danno patrimoniale alla luce delle risultanze istruttorie”.

Il giudice d’appello dimostrerebbe di avere compreso le doglianze relative al danno biologico permanente, al danno patrimoniale e al danno da inabilità temporanea, “quest’ultimo non accolto con motivazione logico – giuridica pertinente contrariamente alla voce di danno patrimoniale accolta senza motivazione”. Non si può non rilevare fin d’ora che questo argomento risulta incomprensibile, perchè da un lato asserisce l’esistenza di una motivazione non pertinente sul danno biologico temporaneo, e dall’altro, come se in tal modo prospettasse una contrapposizione – mentre, a ben guardare, se la motivazione fornita una questione non è pertinente, la motivazione su tale questione è in realtà carente -, l’assenza di motivazione quanto al danno patrimoniale.

Secondo il ricorrente, poi, “ulteriore elemento di erroneità per difetto di motivazione è il capo della sentenza che dispone la restituzione” della somma di Euro 14.117,31 per documenti prodotti solo dopo la “fase preventiva”, “e mai accertata in sede di cognizione piena”, per cui mancherebbe vaglio istruttorio “per carenza probatoria in assenza di valutazione da parte del perito in fase preliminare”. E altro difetto di motivazione riguarderebbe la “mancata considerazione della violazione dell’onere probatorio circa l’imputabilità del danno patrimoniale oggetto di domanda restitutoria alla condotta del medico professionista o dell’ente societario, entrambi destinatari di compenso contrattuale a diverso titolo”. Il ricorrente avrebbe agito “in totale autonomia professionale in forza di un rapporto contrattuale esclusivo con la paziente”.

Lamenta il ricorrente altresì “omesso accertamento e motivazione critica della decisione” a proposito di un elemento discusso e decisivo riguardante il danno patrimoniale: “non sussiste alcuna prova” che i costi per le cure siano stati erogati inutilmente; e in nessuno dei due gradi di merito sarebbe stata espletata “attività istruttoria piena”. Il motivo conclude quindi nel senso che la decisione sul danno patrimoniale “è priva di legittima motivazione” per cui la sentenza dovrebbe essere cassata per violazione di norme di diritto e per omessa motivazione su punto decisivo.

La sintesi appena tracciata del motivo dimostra ictu oculi che, anche a prescindere dalle illogicità/incomprensibilità delle argomentazioni che lo compongono (come, appunto, si è rilevato a proposito della prima), esso è palesemente inammissibile, dal momento che viene a miscelare questioni di diritto con asseriti vizi motivazionali e censure direttamente di fatto: tale eterogenea e pertanto inammissibile natura viene confermata proprio dalla conclusione che si è visto – chiede che la sentenza sia cassata sia per violazione di diritto sia per vizio motivazionale.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, non essendovi luogo a pronuncia sulle spese processuali. Sussistono invece il D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo.

PQM

 

Rigetta il ricorso dichiarando non esservi luogo a pronuncia in ordine alle spese processuali. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2017

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2017

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