Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15170 del 11/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 11/07/2011, (ud. 25/05/2011, dep. 11/07/2011), n.15170

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21726-2007 proposto da:

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA

2, presso lo studio dell’avvocato AIELLO FILIPPO, che lo rappresenta

e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AEROPORTI ROMA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8,

presso lo Studio dell’avvocato MARAZZA MARCO, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 452/2006 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 04/08/2006 R.G.N. 633/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/05/2011 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso al Pretore, giudice del lavoro, di Roma, depositato in data 7.3.1996, S.F., premesso di aver prestato attività lavorativa alle dipendenze della società Aeroporti di Roma s.p.a. in virtù di tre contratti a termine, il primo per il periodo dal 6.7.1991 al 5.11.1991, il secondo per il periodo dal 17.4.1992 al 16.10.1992 ed il terzo per il periodo dal 2.7.1993 al 30.12.1993, stipulati ai sensi del punto “C”, n. 9, sub “a” dell’accordo interconfederale sulle politiche di formazione professionale sui contratti di formazione e lavoro sottoscritto il 5.1.1990 tra l’Intersind e le confederazioni CGIL, CISL e UIL ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 (che prevedeva la possibilità di procedere all’assunzione con contratto a termine di lavoratori di età superiore a 29 anni iscritti nelle liste di collocamento), rilevava che il rapporto doveva ritenersi trasformato in rapporto a tempo indeterminato sia perchè la clausola dell’accordo interconfederale aveva validità di soli due anni a partire dal 2.5.1990, sia perchè l’accordo in questione doveva ritenersi contrario alla legge in quanto non individuava nuove ipotesi in cui fosse possibile stipulare contratti a termine. Chiedeva pertanto che venisse accertata la nullità della clausola di apposizione del termine con conseguente dichiarazione che il rapporto intercorso tra le parti era a tempo indeterminato e condanna della società datoriale al pagamento delle retribuzioni.

Con sentenza in data 13.9.1996 il Pretore adito rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza proponeva appello il lavoratore lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo.

Il Tribunale di Roma, con sentenza in data 20.3.2000/26.3.2001, in parziale accoglimento del gravame, dichiarava che tra le parti si era instaurato dal 6.7.1991 un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e condannava la società appellata al pagamento delle retribuzioni dal 2.4.1996, oltre interessi legali.

In particolare il giudice d’appello rilevava la illegittimità dell’accordo interconfederale per violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 non ravvisando la sussistenza delle ipotesi oggettive di ricorso al contratto a termine.

Avverso questa sentenza proponeva ricorso per cassazione la società Aeroporti di Roma s.p.a. chiedendo l’annullamento della sentenza, e proponeva altresì ricorso incidentale il lavoratore censurando sotto altri profili la decisione impugnata.

Con sentenza n. 8065 del 27.4.2004 questa Corte di Cassazione accoglieva il ricorso principale, dichiarava assorbiti i primi tre motivi del ricorso incidentale ed inammissibile il quarto, e, cassata la sentenza, rinviava alla Corte d’appello di L’Aquila enunciando il seguente principio di diritto: “le ipotesi di legittima apposizione del termine, se individuate dalla contrattazione collettiva (ai sensi della L. 28 febbraio 1987, n. 56 cit., art. 23 applicabile alla dedotta fattispecie), possono essere, invece, anche di carattere soggettivo; il controllo sindacale compensa, in tal caso, la garanzia per il lavoratore, che, invece, nel vigore dello ius superveniens resta affidato al carattere oggettivo ed al controllo ex post delle stesse ipotesi”.

Procedutosi alla riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio, la Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza 4.5/4.8.2006, rigettava l’appello proposto dal lavoratore nei confronti della decisione del Pretore di Roma.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione S. F. con due motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso la società intimata.

La stessa ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare osserva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che la previsione della limitata validità del punto 9 dell’Accordo Interconfederale in questione sarebbe stata superata dalla regola generale di vigenza dell’intero accordo alla stregua della clausola di proroga tacita di cui al punto 14, disattendendo il rilievo dell’appellante circa la ristretta validità temporale della regolamentazione dei contratti a termine contenuta al punto 9, limitata a due anni a decorrere dal decreto ministeriale previsto dal detto accordo (intervenuto il 2.5.1990).

Col secondo motivo di ricorso lamenta violazione e falsa applicazione dell’accordo interconfederale 5.1.1990 tra Intersind e GCIL, CISL e UIL, e degli artt. 1362, 1363, 1367 e 1369 c.c..

In particolare rileva che il chiaro testo dell’accordo in parola non consentiva la innovativa interpretazione fornita dalla Corte di merito in ordine alla proroga tacita della validità temporale della regolamentazione sperimentale di cui all’art. 9 di tale accordo.

All’esito di tale motivo il ricorrente ha formulato il seguente quesito di diritto: “La clausola dell’accordo interconfederale sulle politiche di formazione professionale e sui contratti di formazione e lavoro sottoscritto il 5.1.1990 tra l’Intersind e le confederazioni CGIL, CISL e UIL, ai sensi della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 relativa ai contratti a tempo determinato, aveva validità di due anni decorrenti dalla data del decreto ministeriale di approvazione della delibera della Commissione regionale per l’impiego ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 25 il quale era stato adottato il 2.5.1990? In tema d’interpretazione dei contratti collettivi, anche in applicazione dell’art. 1362 c.c., il primo e principale strumento dell’operazione ermeneutica è costituito dalle parole che compongono la formulazione letterale dell’accordo negoziale, essendo ogni altro criterio meramente sussidiario e residuale, e come tale utilizzabile unicamente in presenza di una formulazione testuale ambigua ed oscura? In applicazione dell’art. 1367 c.c. è unicamente consentito attribuire al testo contrattuale un significato che possa avere un qualche effetto mentre non è previsto che si debba attribuire all’atto un significato tale da assicurarne la sua più estesa applicazione? In presenza di due patti contrattuali, ciascuno con chiaro significato, ma fra loro contrapposti, trova applicazione il criterio ermeneutico di cui all’art. 1369 c.c., sulla interpretazione più conveniente alla natura ed all’oggetto del contratto, tenendo conto che la norma, riferendosi all’ipotesi di “espressioni con più sensi”, include il caso in cui un duplice senso sia evincibile, anzichè dallo stesso contesto, da passi distinti del documento negoziale?”.

Posto ciò, rileva il Collegio che il ricorso è inammissibile.

Preliminarmente devesi osservare che il giudizio demandato a questa Corte è limitato alla verifica della eventuale violazione dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 1362 ss. c.c., o il vizio di motivazione. Infatti, alla controversia non si applicano le regole dettate dal legislatore del 2006, per le quali è possibile ricorrere per cassazione anche per violazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Tanto premesso, è necessario innanzi tutto ricordare, in relazione al secondo motivo del ricorso, che, secondo un principio costituente diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte (v., fra le molte pronunce, Cass. sez. 1, 24.6.2008 n. 17088; Cass. sez. lav.

13.6.2008 n. 16036; Cass. sez. lav. 12.6.2008 n. 15795; Cass. sez. I, 22.2.2007, n. 4178), l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, mirando a determinare una realtà storica e obiettiva, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito ed è censurabile soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione, qualora quella adottata sia contraria a logica e incongrua, tale, cioè, da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Il sindacato di questa Corte non può, dunque, investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito.

Inoltre, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi, in sede di legittimità, del fatto che sia stata privilegiata l’altra.

Specularmente, il vizio di motivazione, in punto di interpretazione del contratto, deve emergere dall’esame del ragionamento e degli argomenti svolti dal giudice del merito, e non dalla possibilità di un diverso significato attribuibile al negozio, nè deve riguardare l’apprezzamento del significato delle clausole del contratto, ma solo la coerenza formale, ossia l’equilibrio dei vari elementi che costituiscono la struttura argomentativa (cfr, ex plurimis, Cass. sez. 1, 2.5.2006 n. n. 10131; Cass. sez. 3, 21.4.2005 n. 8360; Cass. sez. 3, 25.2.2005 n. 4063; Cass. sez. 3, 6.8.2004 n. 15197; Cass. sez. 3, 19.7.2004 n. 13344; Cass. sez. 3, 17.7.2003 n. 11193).

Pertanto, onde far valere una violazione di legge, il ricorrente per cassazione non solo deve fare puntuale riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati e ai principi in esse contenuti, ma è tenuto altresì a precisare – al di là della indicazione degli articoli di legge in materia – in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato (Cass. sez. 2, 2.8.2005 n. 16132;

Cass. sez. lav., 21.4.2005 n. 8296; Cass. sez. 3, 25.2.2005 n. 4063;

Cass. sez. lav., 9.2.2004 n. 2394; Cass. sez. lav., 1.4.2003 n. 4948;

Cass. sez. lav., 1.4.2003 n. 4905).

Analogamente, non è ammissibile la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che, dedotta sotto il profilo della violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione, si risolva in realtà nella proposta di un’interpretazione diversa (Cass. sez. 2, 3.11.2004 n. 21064; Cass. sez. lav., 9.8.2004 n. 15381; Cass. sez. lav., 23.7.2004 n. 13839;

Cass. sez. 3, 21.7.2004 n. 13579; Cass. sez. 3, 5.7.2004 n. 12289;

Cass. sez. 2, 30.5.2003 n. 8809; Cass. sez. 2, 20.5.2001 n. 7242;

Cass. sez. lav., 18.2.2000 n. 1886; Cass. sez. 1, 4.2.2000 n. 1225;

Cass. sez. lav., 29.1.2000 n. 1045).

Tali considerazioni si appalesano necessarie, ai fini di un ordinato iter argomentativo e di una migliore comprensione della consequenzialità logico – giuridica dei vari passaggi motivazionali della presente sentenza, ove si osservi, sul versante processuale, che, trattandosi di ricorso avverso sentenza depositata il 4.8.2006, ad esso si applica, ratione temporis, l’art. 366 bis c.p.c. (introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006 ed applicabile, ex art. 27 del predetto decreto legislativo, ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006). Tale articolo, successivamente abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d) ma applicabile nella fattispecie in esame, dispone che “nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto”.

Orbene, nell’interpretazione di tale norma questa Corte (ex plurimis:

Cass. SS.UU, 5.1.2007 n. 36; Cass., SS.UU., 28.9.2007 n. 20360; Cass. SS.UU., 12.5.2008 n. 11650; Cass. SS.UU., 17.7.2007 n. 15959) ha stabilito che il rispetto formale del requisito imposto per legge risulta assicurato sempre che il ricorrente formuli, in maniera consapevole e diretta, rispetto a ciascuna censura, una conferente sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, sicchè dalla risposta (positiva o negativa), che al quesito medesimo deve essere data, possa derivare la soluzione della questione circa la corrispondenza delle ragioni dell’impugnazione ai canoni indefettibili della corretta applicazione della legge, restando, in tal modo, contemporaneamente soddisfatti l’interesse della parte alla decisione della lite e la funzione nomofilattica propria del giudizio di legittimità.

E’ stato, pertanto, precisato che il nuovo requisito processuale non può consistere nella mera illustrazione delle denunziate violazioni di legge, ovvero nella richiesta di declaratoria di una astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità, ma è per contro indispensabile che il quesito di diritto, inteso quale punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio di diritto generale, sia esplicitamente riferito alla lite in oggetto, anche attraverso concreti riferimenti al caso specifico, di talchè sia individuabile il carattere risolutivo rispetto alla controversia concreta. Ed invero sul punto è stato altresì rilevato che il rapporto corrente fra il motivo del ricorso ed il relativo quesito è assimilabile a quello che intercorre fra motivazione e dispositivo della sentenza, dovendosi la decisione rapportare al motivo che sorregge il quesito, in termini analoghi a quelli che caratterizzano la valutazione della corrispondenza fra motivazione e dispositivo della sentenza (Cass. sez. lav., 21.9.2007 n. 19560).

Orbene, a siffatti criteri non si è attenuto il ricorrente ove si osservi che, al di là della indicazione degli articoli del codice in ipotesi violati, la previsione della norma di cui all’art. 366 bis c.p.c. richiede la chiara indicazione delle ragioni per le quali si ritiene la dedotta insufficienza della motivazione e, in tema di interpretazione dei contratti, la specifica indicazione dei canoni ermeneutici violati, in relazione ai consolidati principi enunciati sul punto da questa Corte di Cassazione. Principi in base ai quali il significato delle clausole contrattuali deve essere desunto dal senso letterale delle parole utilizzate e dalla comune intenzione delle parti, da intendersi quale volontà esteriormente riconoscibile alla stregua del significato delle parole utilizzate dai contraenti e del significato che le parti, per come emerge dal comportamento tenuto anche successivamente alla conclusione del contratto, hanno ritenuto di attribuire alle stesse (art. 1362 c.c., commi 1 e 2), e deve essere desunto altresì dalla lettura complessiva del contratto le cui “clausole si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto” (art. 1363 c.c.): ciò in quanto siffatta operazione interpretativa deve essere effettuata attraverso la connessione dei vari elementi e la loro reciproca integrazione, ricercando cioè il senso che risulta dal complesso dell’atto, alla stregua del fondamentale principio logico per cui l’atto deve essere interpretato con la lettura non di un suo isolato brano, bensì del suo integrale contenuto; tutte le altre norme di ermeneutica contrattuale sono applicabili solo se si determinano situazioni peculiari (ad esempio laddove vengano usate espressioni generali o indicazioni esemplificative) o quando, applicati i criteri dettati dagli articoli precedenti, le previsioni contrattuali conservano ambiguità non risolte (per espressa previsione degli artt. 1367 e 1370, le regole contenute in tali norme operano solo se, applicati i criteri degli artt. 1362 e 1366, le clausole rimangono ambigue, dubbiose, oscure); in via ulteriormente sussidiaria e del tutto residuale si può ricorrere alle regole finali fissate dall’art. 1371.

Va pertanto ritenuta l’inammissibilità del ricorso in relazione al detto motivo.

E siffatta inammissibilità si ravvisa anche in relazione alle censure, di cui al primo motivo del ricorso, afferenti all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ed invero la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che, allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni del vizio di motivazione, imposto dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (Cass. sez. 3, 7.4.2008 n. 8897; Cass. SS.UU. 1.10.2007 n. 20603).

Siffatta indicazione non si ravvisa nella fattispecie in esame, in relazione alla questione concernente la limitata validità temporale del punto 9 dell’Accordo Interconfederale, di talchè anche sotto questo profilo il ricorso proposto va ritenuto inammissibile.

Segue a tale pronuncia la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 40,00 per esborsi, oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2011

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