Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15168 del 31/05/2021

Cassazione civile sez. I, 31/05/2021, (ud. 21/04/2021, dep. 31/05/2021), n.15168

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

V. s.r.l., in persona dell’a.u. l.r., rappr. e dif. dagli avv.

Antonio Nardone, antonio.nardone(at)pec.sandulliassociati.it, Silvia

Morandi, smorandi(at)actaliscertymail.it, Giuseppe Iannaccone,

avvgiuseppeiannaccone(at)cnfpec.it, elett. dom. presso lo studio

dell’avv. Michele Sandulli in Roma, via XX Settembre n. 3, come da

procura a margine dell’atto e successiva istanza di fissazione

d’udienza 21.1.2021;

– ricorrente –

contro

C.P., F.C., V.M.M., FALLIMENTO

(OMISSIS) s.p.a. in liq., in persona degli stessi primi tre, quali

curatori fallimentari, rappr. e dif. dall’avv. Angelo Castagnola e

dall’avv. Giuseppe Ruffini, elett. dom. presso lo studio del

secondo, in Roma, via Carlo Conti Rossini, n. 95, come da procura a

margine dell’atto;

– controricorrenti –

per la cassazione del decreto Trib. Milano 12 dicembre 2014, in R.G.

Fall. (OMISSIS) s.p.a. in liquidazione;

udita la relazione della causa svolta dal Consigliere relatore Dott.

Massimo Ferro alla camera di consiglio del 21.4.2021.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

1. V. s.r.l. impugna il decreto Trib. Milano 12 dicembre 2014, in R.G. Fall. (OMISSIS) s.p.a. in liquidazione avente per oggetto la liquidazione dei compenso finale, resa su istanza e a favore dei curatori fallimentari C.P., F.C., V.M.M.;

2. il tribunale, dopo aver premesso che il fallimento si era chiuso con concordato omologato ed il rendiconto era stato approvato, ha ritenuto: a) che la liquidazione del predetto compenso doveva essere parametrata, ai sensi del D.M. n. 30 del 2012, art. 2, comma 2, in proporzione all’opera prestata ma in misura non eccedente le percentuali calcolate sull’attivo e di cui all’art. 1, comma 1, D.M. cit., riferite a quanto attribuito ai creditori, nonchè sul passivo accertato; b) nel calcolo sull’attivo trovava luogo sia il danaro pagato ai creditori, sia quanto loro trasferito come datio in solutum; c) quanto conferito a titolo satisfattivo doveva a sua volta essere valutato non per i valori di liquidazione, bensì per quelli indicati dal proponente il concordato, gli stessi tenuti presenti in sede comparativa rispetto alla comune ed alternativa liquidazione; d) il criterio sub c) era coerente con le specifiche funzioni proprie della curatela, quali svolte anche durante il concordato, per operazioni protrattesi per un anno; e) quanto al passivo, il coacervo di riferimento includeva anche i crediti ammessi con riserva e oggetto di opposizione pendente, in ragione degli accantonamenti previsti e dunque con solo deconto dei crediti nel frattempo rinunciati; f) risultando perciò un attivo di 366 mln Euro circa e un passivo di 517 mln Euro circa, alla luce dei criteri generali e dell’utilità ripartita, in tempo breve, ai creditori, il compenso riconosciuto era pari a Euro 4.620.000, oltre ai rimborsi per anticipazioni ed agli accessori;

3. il ricorrente propone quattro motivi di ricorso, cui resistono i curatori, costituiti in proprio e nella qualità di organo del fallimento stesso; il ricorrente ha depositato memoria, al pari dei controricorrenti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che:

1. con il primo motivo si deduce l’erroneità del decreto che, in violazione della L. Fall., art. 39, ha proceduto alla liquidazione del compenso ai curatori prima della completa esecuzione del concordato fallimentare, dunque senza apprezzamento diretto di tutte le attività post omologazione demandate proprio ai curatori e, nella specie, afferenti al completamento esecutivo degli obblighi (di trasferimento, pagamento e svincolo) nel frattempo assolti dal proponente assuntore, non appartenendo al tribunale alcuna discrezionalità anticipatoria;

2. con il secondo motivo si solleva la violazione ancora della L. Fall., art. 39, in relazione al D.M. n. 30 del 2012, art. 2, ove il tribunale, nel parametrare il compenso all’attivo, avuto riguardo particolare alle dationes in solutum della classe VIII di creditori, ha richiamato non le stime interne al fallimento dei relativi beni, ma il valore di attribuzione conferito al medesimo attivo nella proposta dell’assuntore, ma solo quale porzione percentuale rispetto all’entità del credito per come era stato ammesso al passivo;

3. il terzo motivo censura, per violazione delle stesse norme di cui al precedente, la valorizzazione del trattamento attribuito ai creditori della classe concordatizia VI, sempre ai fini della parametrazione dell’attivo sul compenso, adducendo l’erroneità del decreto ove non ha considerato che il passivo di circa 213 mln Euro era stato falcidiato di circa il 70%, con espromissione liberatoria (accettata) del debitore fallito e accollo della società assuntrice, per cui l’attribuzione a tali creditori non poteva essere pari all’intero passivo ammesso, ma doveva ridursi della parte rinunciata;

4. il quarto motivo, riprendendo le medesime norme violate, si duole dell’errata determinazione del montante dei compensi rispetto al passivo, avendo il decreto erroneamente incluso in esso crediti ancora in corso di verifica, pari a circa 30 mln di Euro, confondendo così le garanzie di accantonamento con il passivo accertato;

5. osserva preliminarmente il Collegio, disattendendo una prima eccezione dei controricorrenti, che sussiste piena legittimazione al ricorso in capo all’assuntore del concordato fallimentare, il cui interesse impugnatorio, a prescindere dal dedotto rilievo della mancata – e normativamente non prescritta – partecipazione al procedimento culminato nel decreto di liquidazione del compenso ai curatori, è sorto proprio per effetto di tale pronuncia, a sua volta testualmente non soggetta a reclamo, ai sensi della L. Fall., art. 39; nè l’argomento della limitata espromissione liberatoria del fallito, nella specie, relativamente ad una sola classe di creditori concorre a circoscrivere il citato interesse, posto che, per un verso, all’assuntore è stata riconosciuta piena legittimazione all’intervento in sede di legittimità (Cass. 7627/1997, 18967/2013) con potere di contestazione dell’intero decreto di liquidazione, in quanto l’incidenza sulla sfera patrimoniale del terzo assuntore sarebbe il riflesso della piena correttezza del provvedimento stesso; per altro verso, ed infatti, l’impegno concordatizio è stato assunto dall’assuntore avendo riguardo al pagamento integrale delle spese di procedura, afferenti alla categoria dei crediti prededucibili e per spese di giustizia (pag. 5 ricorso); la predetta considerazione assorbe altresì le eccezioni (terza e quarta) di difetto di decisorietà e definitività del provvedimento, che ha assunto piuttosto in modo diretto e proprio per l’assuntrice il valore di titolo costitutivo, nella concreta misura finale ove non impugnato, del proprio debito di pagamento dei predetti oneri e quindi, proprio nella presente fattispecie e riferita all’assuntore, semmai conferma la sua natura decisoria e definitiva (Cass. 27123/2018, 2991/2006);

6. invero impugnando il decreto di liquidazione del compenso ai curatori

l’assuntrice può sottoporre al controllo di legittimità l’accertamento del proprio titolo di debito, che la sentenza di omologa ha meramente anticipato per linee generali, senza alcuna specificazione delle quantità da immettere quali costi del concordato fallimentare, determinate alfine nel decreto qui avversato; va solo conclusivamente notato che ogni richiamo in controricorso alla potenziale revocabilità del decreto di liquidazione confligge con la principale connotazione assunta dalla pronuncia qui impugnata, investita di censura esattamente per la perentoria anticipazione determinativa delle spese di giustizia, sub specie di competenze da riconoscere ai curatori, senza mostrare alcun richiamo ad eventi successivi idonei ad una qualche fase di reversione provvedimentale liquidatoria, da intendersi dunque priva di ogni attualità; tanto basta a superare ogni dubbio sulla definitività, che certo non può dipendere da eventi incerti, imprevedibili e del tutto vaghi quali l’esercizio di un potere di rideterminazione, decisivamente privo di ogni condizionalità nel decreto milanese;

7. anche la seconda eccezione, in punto di pretesa acquiescenza, appare infondata, non essendo ravvisabile alcuna perdita di legittimazione impugnatoria in capo all’assuntore che, adempiendo al decreto liquidatorio del collegio (oltre che giustapponendo formule di “riserva di ripetizione”), ha comunque e semplicemente ottemperato alla parte statuitiva più generica della sentenza di omologazione, funzionale all’organizzazione della prima fase esecutiva del concordato, senza con ciò assumere una condotta di adesione alla intrinseca legittimità di un provvedimento del tutto autonomo e adottato poi, a valle di quella, dal tribunale; il pagamento del compenso liquidato in base ad un decreto del tribunale non assolve ad altra funzione che quella di onorare il comando giudiziale immediatamente esecutivo, connotazione assorbente i profili di adesione alla correttezza della relativa statuizione intimante il pagamento per un debito accertato a quei soli fini; va così ripetuto che “gli atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni previste dalla legge, e che, perciò, implicano una tacita acquiescenza alla sentenza ai sensi dell’art. 329 c.p.c., sono esclusivamente quelli che possono essere spiegati solo supponendo il proposito della parte di non contrastare gli effetti giuridici della decisione, così rivelando, oggettivamente, in modo inequivoco, una corrispondente volontà della parte che li ha posti in essere. Ne consegue che la richiesta di pagamento e l’effettiva riscossione, ad opera della parte vittoriosa nel giudizio, di quanto alla stessa ivi riconosciuto, non comportano acquiescenza, trattandosi di condotte riconducibili alla volontà di conseguire quanto già riconosciuto nella sentenza, che, di per sè, non è incompatibile con l’intento di impugnarla per ottenere quanto negato o, comunque, dovuto” (Cass. 21491/2014, 1963/2012); nè, ancora sul punto, appare insorto nel presente giudizio alcun dubbio di tardività della impugnazione;

8. il primo motivo è fondato; anche l’attuale versione della disciplina primaria e secondaria regolativa della materia, al pari della precedente, prescrive, alla L. Fall., art. 39, comma 2, (conseguente al D.Lgs. n. 5 del 2006), che La liquidazione del compenso è fatta dopo l’approvazione del rendiconto e, se del caso, dopo l’esecuzione del concordato, mentre è ribadito che Qualora il curatore cessi dalle funzioni prima della chiusura delle operazioni di fallimento, il compenso è liquidato al termine della procedura, secondo il D.M. 25 gennaio 2012, n. 30, art. 2, (applicabile ratione temporis e successivo al D.M. 28 luglio 1992, n. 570); non ricorrono dunque ragioni per uno scostamento dall’indirizzo, emerso nel regime previgente, per il quale “il compenso spettante al curatore del fallimento chiusosi con un concordato va liquidato, dopo l’esecuzione di quest’ultimo” (Cass. 19339/2013, 4751/2000), dopo che già Cass. 2991/2006 aveva precisato che il citato compenso “è unico e corrisponde anche all’attività svolta dopo l’omologazione (avuto riguardo al compito del curatore di sorvegliare l’adempimento del concordato, unitamente al giudice delegato e al comitato dei creditori, ai sensi della L. Fall., art. 136)” così esplicitando che proprio la commisurazione innanzitutto qualitativa dell’operato del curatore non può prescindere da un riscontro di effettività sulla sua opera rispetto ai risultati apprezzabili – e non solo prognosticabili – della liquidazione;

9. tale funzione corrispettiva dell’istituto orienta anche il diniego di fondamento dell’obiezione sollevata in controricorso, ove si invoca la natura della proposta e della conseguente pronuncia omologatoria quali vincolanti il tenore del provvedimento giudiziale; in realtà, osserva il Collegio che, nella motivazione del tribunale, non ricorre alcuna traccia di un preteso contenuto autovincolante ed originario dell’impegno obbligatorio assunto dal terzo; il decreto, infatti, accanto alla enunciazione dei parametri normativi cui ha inteso ancorare il quantum della liquidazione, si è espresso argomentativamente con esclusivo – e peraltro assai generico, ma qui non rilevante per difetto di specifica impugnazione – riguardo alle clausole ordinarie condizionanti il merito della condotta dei curatori ai sensi del D.M. n. 30 del 2012, art. 1, comma 1; il decreto ha così fatto menzione esclusivamente di considerazione dell’opera prestata, importanza del fallimento, risultati ottenuti riportando testualmente la norma;

10. nè a diverso esito potrebbe giungersi ipotizzando che la proposta di concordato, esposta con riferimento al pagamento delle spese di procedura, implicava, per l’immediatezza dell’adempimento rispetto alla definitività del decreto di omologazione e l’ossequio alle determinazioni del tribunale, seguite dalle comunicazioni del curatore, una rideterminazione derogatoria del contenuto normativo sopra illustrato; si tratta di interpretazione sostanzialmente abrogatrice della portata giurisdizionale del congegno liquidatorio che, per la tesi suggerita, conferirebbe un diritto al compenso scollegato dai doveri pubblicistici ricadenti sul curatore e parimenti oggetto di verifica da parte del giudice, frustrando (cioè eludendo) la responsabilità di controllo del primo organo ed assecondando del secondo una inesistente prerogativa di attribuzione pro futuro del tutto emancipata dalla sequenza regolativa del ruolo giudiziale posteriore all’omologazione, con i suol doveri e obblighi di motivazione, finendo con lo smarrirne la stessa funzione; la L. Fall., art. 136, fissa infatti specifici compiti di sorveglianza sull’adempimento del concordato, gravanti su giudice delegato, curatore e comitato dei creditori, per culminare nell’accertamento della completa esecuzione, in coerenza con la L. Fall., art. 39, che riserva la liquidazione del compenso finale (fermi gli acconti concedibili per giusti motivi) agli atti ordinariamente terminali della procedura, e cioè il rendiconto approvato (nelle ipotesi comuni) ovvero la esecuzione del concordato (quando appunto esso termina) nella soluzione liquidatoria alternativa a quella condotta in prima persona dal curatore; così come, per ogni caso di successione di curatori, il compenso per quelli cessati anticipatamente è rinviato – ai sensi della L. Fall., art. 39, comma 3, e D.M. n. 30 del 2012, art. 2, comma 1, – al “termine della procedura” (Cass. s. u. 26730/2007, Cass. 10455/2014);

11. i restanti motivi vanno affrontati in relazione al valore programmatico che i parametri adottati dal tribunale possono assumere ove conservati in un contesto che, limitandosi solo a spostare alla fine della esecuzione del concordato il provvedimento, non ne muti ciononostante i presupposti; di qui l’interesse del ricorrente all’impugnazione;

12. il secondo e terzo motivo, da affrontare unitariamente perchè connessi, sono allora fondati; va in primo luogo condiviso il principio per cui se è vero che la portata satisfattiva del concordato ben può estendersi, dopo la riforma del D.Lgs. n. 5 del 2006, sia ad una vicenda propriamente adempitiva del debito e solutoria (pagamenti), sia ad una fattispecie attributiva di beni ritenuti equivalenti del medesimo interesse del creditore ed ancorchè non solutori in moneta (dationes in solutum), il rispettivo valore non può prescindere dall’apprezzamento che in concreto le corrispondenti utilità hanno rinvenuto nell’organizzazione concordatizia ed i suoi effetti esdebitatori, ma assecondandone le diversità e, con esse, le differenti norme che vi insistono;

13. così, nel caso di datio in solutum immobiliare (secondo motivo), ai fini di determinare l’attivo rilevante per liquidare il compenso ai curatori, quanto con il concordato viene ad essi attribuito (D.M. n. 30 del 2012, art. 2, comma 2) costituisce sia il limite oltre il quale la commisurazione dell’attivo non calcola più le percentuali dirette computabili in base al diverso criterio dell’attivo (realizzato) di cui al precedente art. 1, comma 1, D.M. cit., sia il vero criterio di chiusura; in altri termini, in caso di chiusura concordatizia del fallimento, posto che la liquidazione è essenzialmente (o almeno in parte) opera di un terzo (cioè soggetto diverso dal curatore) ovvero superata dai pagamenti o comunque dal trattamento riservato ai creditori proprio dal proponente il concordato, il regime descritto pone un tetto alla stessa discrezionalità liquidatoria, collocandola all’altezza di un calcolo ancora sull’attivo, ma riferito all’effettiva percezione di utilità conseguita dai creditori; ed allora il parametro di liquidazione cambia nel caso di attribuzione diretta di beni e non di pagamento in danaro, stante, nel primo caso, la relativa emancipazione dall’organizzazione concordatizia quale fondata su precise misure di soddisfacimento rispetto all’entità di ciascun credito, cui corrispondono, di regola, falcidie e conseguenti contesti di voto, non potendosi che imporre invece, ove siano scambiati beni contro crediti, la valutazione di ciò che viene effettivamente attribuito al creditore, alla stregua di utilità corrisposta, possibile in qualsiasi forma (L. Fall., ex art. 124); ciò significa che qualora un ‘benè sia attribuito direttamente ad una classe di creditori, il tasso di soddisfazione del credito concorsuale continua ad esprimere la sola percentuale (potenzialmente anche sino all’intero) cui riferire la misura solutoria (o della esdebitazione), mentre il valore di quanto effettivamente risulta attribuito agli stessi creditori costituisce, come voluto dalla norma in esame, il parametro per stabilire la diversa attribuzione economica in sè (per retribuire i curatori), in coerenza con la misurazione di merito (calmierata) della efficacia dell’azione da essi espletata in procedura, ove han perduto (almeno da un certo momento in poi) le prerogative di liquidazione e soddisfacimento dei creditori; ne conseguirebbe, altrimenti, la possibilità di arbitrare in modo discrezionale una sovrapposizione irragionevole tra il valore intrinseco dei beni oggetto di dationes in solutum e la quantità di credito destinato, nel progetto di concordato votato, ad essere soddisfatta, trascurando – come richiesto nel secondo motivo, dunque fondato, quanto agli immobili della classe VIII – che sussiste prezzo di mercato o comunque tangibile emerso negli atti della procedura stessa idoneo ad esprimere la reale attribuzione patrimoniale destinata ai creditori; questi, a loro volta, ben possono accettare un valore di scambio, per ragioni di convenienza, anche privo di perfetta simmetria rispetto alla quantità di credito che quell’attribuzione intende soddisfare, ciò che conta – ai fini di causa – non essendo però la misura che il primo assume ai fini della esdebitazione o soddisfacimento (che può essere convenuta discrezionalmente dal creditore consenziente), ma proprio e solo la misura che, secondo proposta e accertamento di regolarità nel decreto di omologazione, consti di effettiva attribuzione diretta; questa è invero la nozione giuridica corrispondente a quanto col concordato viene attribuito ai creditori, ai sensi del D.M. n. 30 del 2012, art. 2, comma 2, per la prospettazione economica dei beni diversi dal danaro, benchè in ipotesi confliggente – cioè non riconciliata, perchè maggiore o minore, come nel caso – con l’entità del passivo soddisfatto, semmai ponendo tale disallineamento un ben diverso problema di non corretta formazione della classe, questione estranea al giudizio; altra questione ancora, non pertinente, è infine, sul punto, la determinazione del predetto valore, solo potendosene osservare la indispensabilità come fase di controllo sulla regolarità della proposta, spettando poi ai creditori l’apprezzamento realistico di convenienza e qui essendo sufficiente il richiamo alla stima comunque conseguita dai beni immobili e non considerata nella determinazione del compenso;

14. lo stesso criterio, guidando l’esame del terzo motivo, convince della sua analoga fondatezza, nel più semplice contesto del pagamento dei crediti, poichè – stanti i limiti rappresentativi del decreto impugnato e secondo il criterio della necessaria specificità degli atti, per come assolto dalle due parti – la riconosciuta falcidia (al 70,2%) dei creditori inclusi nella relativa classe appare quale effetto di un atto di rinuncia di siffatti creditori, quale condizione preventiva rispetto al vero e proprio trattamento concorsuale ad essi riservato nella proposta e dunque per il residuo; la circostanza che la rinunzia fosse condizionata all’omologazione e, significativamente, assunta con impegno formalmente trasfuso in dichiarazione avanti a notaio, dà conto di una volontaria ed extraconcorsuale ristrutturazione del debito; ne consegue che lo statuto creditorio risultante alfine da tale accordo, per i soggetti di classe VI, deriva da un accollo liberatorio (per il fallito) del relativo residuo debito che però, in virtù dell’espromissione aderita, era tutto quello per cui i creditori ancora partecipavano al concorso; la conclusione è che il credito in esame va considerato soddisfatto sì nella sua intera misura, pari tuttavia alla differenza tra l’entità originaria ammessa allo stato passivo e quanto in limine del concordato oggetto di rinuncia, questa essendo la misura del credito rimasto in concorso nella classe, allo stesso più limitato valore (di attribuzione) occorrendo fare riferimento dunque altresì per fissare il parametro del compenso dei curatori sull’attivo;

15. il quarto motivo è fondato; il tribunale, nel determinare la base di computo del passivo, ha calcolato, al netto delle rinunce, tutti i crediti ammessi, cui ha aggiunto anche quelli ammessi con riserva e quelli non ammessi ma con giudizi di opposizione pendenti, traendo il proprio convincimento dalla previsione indiretta, assunta come generale, dell’accantonamento di cui alla L. Fall., art. 136, comma 2, anche a favore di creditori opponenti e non ammessi;

16. tale statuizione, oltre a non essere pertinente alla fattispecie, non può essere condivisa, poichè l’istituto prudenziale appena menzionato assolve ad una funzione lato sensu cautelare e dunque solo provvisoria, volta ad assicurare sicura capienza per quei creditori che dovessero, dopo l’omologazione, conseguire l’accertamento pieno della rispettiva spettanza; ed è parimenti dubbio che la stessa nozione di creditori contestati includa de plano, ai fini di un accantonamento monetario o comunque cauzionale integrali, altresì i creditori opponenti in quanto ancora non ammessi allo stato passivo (pur se, affermativamente, Cass. 3504/1969, 28492/2005, ma con perplessità Cass. 4669/1990, Cass. 9405/2002), per i quali non è agile declinare la stessa formula testuale della spettanza di cui alla L. Fall., art. 136, comma 2, in apparenza più propria dei creditori condizionali o irreperibili, che certamente godono di uno statuto ammissivo e cioè di un previo accertamento giudiziale positivo del credito; la nozione di creditori contestati (formalmente immutata anche dopo la riforma del D.Lgs. n. 5 del 2006, e parimenti riprodotta identica anche nell’art. 248 CCII), se letta in senso ampliativo sino a ricomprendere tutti i creditori opponenti, e non invece come proposto in dottrina e nell’indirizzo di legittimità menzionato – solo quelli già ammessi e però contestati da altri creditori concorrenti ovvero, ora, dal curatore, non tiene conto che, rispetto ai previgenti artt. 100 e 102, L. Fall., oggi la L. Fall., art. 98, risolve la contestazione nella opposizione e nella impugnazione, mentre la spettanza – per identità di ratio rispetto ai condizionali e agli irreperibili – non può che ragionevolmente adattarsi solo a creditori comunque già ammessi e per quanto con posizione concorsuale conseguita ma non definitiva; la spettanza è cioè nozione che rinvia meglio al contenuto decisorio di una pronuncia che abbia già accertato il credito più che alla sua mera prospettazione in domanda; tant’è che proprio i precedenti citati negano ai creditori non ammessi ed opponenti, considerati infatti non creditori, la legittimazione a svolgere opposizione al concordato fallimentare, non risultando inclusiva della loro condizione quella di creditori dissenzienti di cui all’attuale L. Fall., art. 129, che esige uno statuto di previa ammissione; ne deriva che solo nel caso concreto e previa ricognizione di un quid pluris, ai sensi della L. Fall., art. 129, comma 2, terzo periodo, è permessa l’impugnazione ai creditori opponenti e non ammessi, dunque semmai per altra via, ove cioè se ne riconosca la titolarità di uno specifico interesse;

17. inoltre, il comando della L. Fall., art. 136, comma 2, si esprime in termini di doverosità, dunque non consentendo margini discrezionali ai meri modi stabiliti dal giudice delegato, derivandone che l’entità, anche in ipotesi assai gravosa, di siffatta cauzione complessiva, può abbracciare anche l’intero credito ove si discuta della prelazione e il credito sia stato ammesso solo in chirografo, con un trattamento irrazionalmente paritario – per la tesi non selettiva presupposta dal tribunale milanese e qui dubitata – tra crediti semplicemente insinuati, non ammessi ed oggetto di opposizione, da un lato e crediti invece ammessi e però oggetto di contestazione nell’apposito giudizio della L. Fall., art. 98;

18. in ogni caso, il D.M. n. 30 del 2012, art. 2, comma 2, nell’operare il riferimento, per il computo sul passivo fallimentare ai fini di liquidare il compenso al curatore, al precedente art. 1, comma 2, inequivocabilmente ha riguardo al passivo accertato, nozione già testualmente compatibile solo con una statuizione giudiziale di pieno riscontro del credito (Cass. 4751/2000); è lo stesso meccanismo organizzativo delle cautele di cui alla L. Fall., art. 136, ad escludere che un computo del passivo possa concludersi, in pendenza di giudizi di opposizione, prima del momento di accertamento della completa esecuzione del concordato che a sua volta presuppone lo scioglimento non solo delle riserve (in senso tecnico) ma altresì delle incertezze circa i crediti solo insinuati e tuttora sub judice; valgono inoltre le stesse considerazioni espresse sub 9) e 10) in punto di insussistente valore derogatorio della proposta rispetto allo schema legale di esecuzione del concordato fallimentare;

19. peraltro l’accoglimento del primo motivo preclude di accogliere l’indicazione del controricorrente che, quanto al quarto motivo, invoca, sia pur in subordine, la mera correzione motivazionale del decreto, ipotizzando che l’astratta sottrazione del passivo oggetto d’impugnazione non sposterebbe gli importi liquidati, ancora interni alla forbice ‘medio-altà deliberata dal tribunale; ferma restando la disponibilità dei curatori aventi diritto di circoscrivere unilateralmente la base di calcolo su cui chiedere la liquidazione del compenso, rivolgendosi però al giudice di merito competente, la cassazione della pronuncia preclude che di tale osservazione possa tenersi conto in questa sede, dovendo il decreto di liquidazione essere riemanato sulla base di presupposti temporalmente diversi ed ai sensi di cui in motivazione;

il ricorso va dunque accolto, conseguendone la cassazione con rinvio, anche per la liquidazione delle spese del procedimento.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia la causa al Tribunale di Milano, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma, il 21 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2021

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