Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15168 del 20/06/2017


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Cassazione civile, sez. III, 20/06/2017, (ud. 11/04/2017, dep.20/06/2017),  n. 15168

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2217/2015 proposto da:

ARCHE’ S.R.L., con socio unico in persona della legale rappresentante

S.E., C.U., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

TRIONFALE 5697, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO BATTISTA,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato FILIPPO

VALCANOVER giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Z. o Z.A. & C. SNC in persona del legale

rappresentante pro tempore G.M., BANCOLINE SRL in persona del

legale rappresentante pro tempore G.M., domiciliate ex lege

in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentate e difese dall’avvocato LUCA TALMON giusta procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 326/2013 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

depositata il 29/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/04/2017 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento del 4^ motivo.

Rigetto di tutti gli altri;

udito l’Avvocato TALMON L..

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La s.r.l. Archè (già Archè s.a.s. di G.I. & C.) e C.U. hanno proposto ricorso per cassazione contro la s.r.l. Bancoline (già Bancoline di G.M., V. & C. s.n.c.) e della Z.A. & C. s.n.c. avverso la sentenza del 29 novembre 2013, con cui la Corte d’Appello di Trento ha provveduto in grado di appello sugli appelli separatamente proposti dai ricorrenti avverso la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Trento, Sezione Distaccata di Cavalese, ed ha parzialmente riformato tale sentenza solo riguardo alla statuizione di condanna alle spese dei ricorrenti, relativa al giudizio di primo grado, riducendone l’ammontare.

1.1. Il giudizio era stato introdotto nel 2008 dalle società qui intimate contro i ricorrenti per ottenere, a titolo sia di responsabilità contrattuale ex artt. 2222 e 2229 c.c., sia di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c., il risarcimento dei danni derivanti da un rapporto avente ad oggetto l’elaborazione di buste paga per importi non dovuti a favore della G., dipendente di entrambe le società attrici e legale rappresentante dell’allora Archè s.a.s., di cui il C., commercialista e consulente del lavoro, era socio al 99%.

Il Tribunale accoglieva la domanda nei confronti di entrambi, i qui ricorrenti condannandoli solidalmente al pagamento agli attori di distinti importi a titolo risarcitorio.

2. Al ricorso per cassazione, che propone sei motivi, hanno resistito le intimate con congiunto controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il Collegio rileva in via preliminare che si configura inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3.

Queste le ragioni.

Il ricorso presenta una parte destinata all’esposizione del fatto, che si diffonde dalla pagina 2 sino alla pagina 15, ma non è idonea al raggiungimento dello scopo proprio del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3.

Infatti, essa si articola come segue: a) dalla pagina 2 sino alla pagina 4 si riproducono le conclusioni della citazione introduttiva del giudizio e si riferiscono le argomentazioni posta a sostegno di essa; b) dalla pagina 5 sino alla pagina 12, si riproducono le difese svolte nell’atto di costituzione, esposte in 27 punti; c) si riferisce, poi, a partire dalla ultime quattro righe della pagina 12 e fino alle prime quattro della successiva, il quesito rivolto al c.t.u. che si dice nominato nel giudizio di primo grado e, quindi, dopo avere detto genericamente che venne esperita istruttoria orale, si riporta testualmente il dispositivo della sentenza di primo grado sino alle prime cinque righe della pagina 14 e, quindi, si allude alla conoscenza che i ricorrenti avrebbero avuto, nel corso dell’istruzione orale, di verbali di sommarie informazioni rese nel corso di un’indagine penale e che si dicono prodotti all’udienza del 18 novembre 2011; d) si riferisce, quindi, a metà della pagina 15 che i ricorrenti proponevano appello con separati atti e, di seguito si riporta il dispositivo della sentenza d’appello qui impugnata sino al primo rigo della pagina 16, dove comincia l’esposizione dei motivi.

1.1. Nell’esposizione del fatto sostanziale e processuale così articolata risulta totalmente assente sia ogni, pur sommario riferimento, alle ragioni della decisione di primo grado, sia ogni pur sommaria enunciazione delle ragioni dei due separati appelli e delle ragioni della difesa svolta contro di essa dalle due società appellate, sia ancora ogni, sempre sommaria, indicazione delle ragioni della decisione di appello impugnata.

Tali carenze rendono l’esposizione sommaria dei fatti nel ricorso in esame inidonea allo scopo suo proprio (art. 156 c.p.c., comma 3).

E ciò secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, la quale in contemplazione della prescrizione del requisito dell’esposizione sommaria dei fatti della causa a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, disposta dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 e della sua connotazione come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso – esige che esso debba consistere in una esposizione, che deve garantire alla Corte di cassazione, di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata, di modo che a questo scopo è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed in fine del tenore della sentenza impugnata (Cass. sez. un. n. 11653 del 2006).

Le stesse Sezioni Unite avevano, d’altro canto, avevano già osservato che “il disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, secondo cui il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato” (Cass. sez. un. n. 2602 del 2003).

L’esposizione del fatto, in ragione delle caratteristiche con cui si è articolata e, in particolare, delle segnalate carenze, non pone in alcun modo la Corte nella condizione descritta dalle Sezioni Unite e tanto giustifica il rilievo di inammissibilità, che, dunque, è scevro di ogni eccesso di formalismo.

2. Il Collegio, peraltro, rileva che, se si potesse passare alla lettura dei motivi, fermo che nemmeno essa comunque supplisce alla lamentate carenze dell’esposizione del fatto ed anzi conferma la loro esizialità, emergerebbe che essi sono affetti da plurime ragioni di inammissibilità.

2.1. Con il primo motivo si deduce, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione dell’art. 2730 e dell’art. 2735 c.c., per non aver attribuito il valore di “prova legale” alle dichiarazioni confessorie del legale rappresentante delle controparti G.M.”.

Vi si sostiene che erroneamente e tra l’altro erroneamente qualificando come teste il G., che era legale rappresentante delle società (motivo per il quale si dice che è stata proposta impugnazione per revocazione), la Corte territoriale, disattendendo il primo motivo di appello, si sarebbe rifiutata di riconoscere alle dichiarazioni rese dal medesimo in sede di indagini penali, carattere confessorio.

Senonchè, in disparte ogni considerazione sulla sufficienza delle spiegazioni sulla qualificazione confessoria delle dichiarazioni, che risultano enunciate nella riproduzione dell’atto di appello con cui esse vennero evocate, si rileva che, pur dando atto i ricorrenti che la Corte territoriale ha enunciato tre ragioni per disattendere, peraltro senza nemmeno alludere alla loro valenza confessoria, la prospettazione del motivo di appello, si fa riferimento e si riproduce solo la prima e si assume in modo del tutto assertorio che essa sarebbe stata assorbente delle altre e “comunque avente determinante influenza sulle stesse”, mentre si omette di considerare tale altre ragioni.

In tal modo il motivo non si correla alla complessiva motivazione resa dalla sentenza impugnata e tanto ne determina l’inammissibilità, attesa, del resto, l’assoluta mancanza di spiegazione dell’assunto per cui le altre due ragioni non sono ritenute degne di critica.

2.2. Con il secondo motivo si denuncia in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. anche in relazione agli artt. 1218 e 2043 c.c.”.

Il motivo si appunta sul rigetto del terzo motivo di appello ed esordisce con il riprodurre la motivazione con cui la Corte l’ha rigettato.

Senonchè, invece di criticare i passaggi di tale motivazione, spiegando perchè non sarebbero condivisibili, si evoca una delle due ragioni enunciate a proposito delle dichiarazioni del G., considerate con il primo motivo, e, quindi, partendo da essa, si svolgono considerazioni che si fondano sull’evocazione di circostanze emergenti dalla produzione delle buste paga, evocate senza il rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6 e comunque con un argomentare che postula una inammissibile valutazione di risultanze probatorie, che non risulta in alcun modo rispondente all’evocazione della violazione dell’art. 2697 c.c. (nei termini individuati da Cass. sez. un. n. 16598 del 2016), ma colloca il motivo sul versante della inammissibile sollecitazione di un giudizio sul fatto, che questa Corte non può dare in ragione dei limiti e della struttura del giudizio di cassazione.

La dimostrazione di tale (ultimo) modo di essere del motivo si coglie, in particolare, se si confronta la “sintesi” che esso formula in chiusura dell’esposizione con quest’ultima.

Nella sintesi si enuncia che sarebbe stato violato l’art. 2697 c.c., perchè la Corte territoriale “avrebbe addossato al debitore l’onere della prova del contenuto dell’obbligazione pretesamente inadempiuta (l’ammontare del netto orario concordato tra le parti del rapporto di lavoro, o comunque l’ammontare della retribuzione spettante alla lavoratrice su cui elaborare le buste paga), nonchè la prova d non aver causato il danno (cioè la prova che le voci utilizzate nella redazione della busta paga non avrebbero causato una spesa maggiore rispetto a criteri asseritamente corretti)”.

In tal modo si enuncia la violazione di una regola di riparto dell’onere della prova, ma, in realtà, nell’esposizione non si individua in alcun modo una affermazione con cui (per usare le parole della citata sentenza delle SS.UU. “il giudice di merito (avrebbe) applica(to) la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni”, bensì si svolgono una serie di considerazioni e apprezzamenti delle risultanze probatorie che sarebbero stati da svolgere i modo tale da condurre a conseguenze che avrebbero poi dovuto implicare conseguenze sull’onere della prova i senso contrario a quelle che sulla base di una diversa valutazione avrebbe effettuato la sentenza impugnata. Sicchè il motivo sollecita, come s’è detto, la diversa valutazione de qua come condizionante la pretesa violazione dell’art. 2697 c.c. e non direttamente quest’ultima. Di modo che il motivo si colloca su un terreno che vorrebbe recuperare il controllo sulle valutazioni relative alle prove, siccome rilevanti per la ricostruzione della quaestio facti, del tutto al di fuori dei limiti del controllo della relativa motivazione emergenti dalla modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e fissati da Cass. sez. un. nn. 8053 e 8054 del 2014.

2.3. Il terzo motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione al procedimento per la valutazione delle prove, anche in relazione all’art. 1218 c.c. ed all’art. 2043 c.c.”.

La violazione delle norme evocate, cioè degli artt. 115, 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., non risponde alle modalità con cui si può denunciare, siccome sono state indicate da Cass. sez. un. n. 16598 del 2016, cui si rinvia (e, per l’art. 2697 c.c., già indicate esaminando il precedente motivo).

2.4. Il quarto motivo – relativo alla sola Archè – denuncia un errore – quello di avere supposto l’abbandono dell’eccezione di prescrizione annuale ai sensi dell’art. 1226 c.c., sollevata in primo grado – della cui caratterizzazione come errore revocatorio dubita lo stesso ricorso, tanto che si dice che è stato oggetto di impugnazione per revocazione.

Inoltre, non si sa se il motivo di appello evidenziatore dell’eccezione e che si riproduce per tre pagine senza alcun commento esplicativo, era stato mantenuto all’atto della precisazione delle conclusioni.

Tanto determina incertezza sul se la relativa questione fece parte del devolutum alla sede decisoria, al contrario di quanto opinato dal giudice della sentenza impugnata.

E ciò sarebbe comunque dirimente nel senso dell’inammissibilità, se non fosse concreto lo stesso dubbio di inammissibilità affacciato dalla ricorrente.

2.5. Il quinto motivo è inammissibile, perchè si fonda, riproducendo una parte dell’appello, sul tenore della sentenza di primo grado, che in detto atto non viene individuato, dato che se ne discute supponendone la conoscenza.

Inoltre, nemmeno si dice se e dove la sentenza di primo grado sia stata prodotta in questa sede di legittimità, onde il motivo viola l’art. 366 c.p.c., n. 6.

Va rilevato che la conoscenza del tenore della sentenza di primo grado era essenziale per scrutinare la censura, atteso che si addebita alla sentenza di appello di avere rigettato il motivo di appello che si è riprodotto “sostenendo che non vi fosse alcuna reale contestazione alla sentenza impugnata”.

3. Il ricorso è, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione alle resistenti delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro diecimila, oltre duecento per esborsi, le spese generali al 15% e gli accessori come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 11 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2017

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