Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15166 del 11/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 11/07/2011, (ud. 25/05/2011, dep. 11/07/2011), n.15166

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8972-2009 proposto da:

AUCHAN S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 96, presso lo studio

dell’avvocato LUCA DI PAOLO, rappresentata e difesa dagli avvocati

AVOLA ANDREA, FRASCA FRANCESCO SAVERIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

nonchè da:

C.G., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’Avvocato DOMENICONI CESARE, giusta delega in atti;

– controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 276/2008 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 09/04/2008 R.G.N. 1630/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/05/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato FRASCA FRANCESCO SAVERIO; udito il P.M. in persona

del Sostituto Procuratore Generale dott. MATERA Marcello che ha

concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito

l’incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Palermo, confermando la sentenza di primo grado, dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato dalla società Auchan, in data 21 settembre 2004, al dipendente C.G. in servizio presso un ipermercato con mansioni di addetto alle vendite.

La predetta Corte, premesso che al lavoratore era stato sostanzialmente contestato di aver proceduto alla distruzione di alcuni articoli che in realtà non erano danneggiati ed al solo fine, secondo l’assunto della società, di arrecare un pregiudizio all’azienda e di tenere una condotta apertamente ostile e di disprezzo nei confronti del datore di lavoro, rilevava che, in base agli elementi istruttori, non poteva considerarsi dimostrata l’integrità della merce distrutta e, quindi, mancando il presupposto indefettibile del licenziamento questo doveva ritenersi illegittimo.

Nè, aggiungeva la Corte del merito, la mancata osservanza della procedura, prevista dal regolamento interno, per la svalorizzazione dei pezzi danneggiati era idonea a giustificare il licenziamento in quanto a prescindere dalla omessa contestazione del relativo addebito e dalla tardiva esecuzione di tale procedura da parte del C., lo stesso responsabile della sicurezza, aveva affermato che nella prassi tale procedura non veniva sempre seguita.

In ogni caso, concludeva la Corte del merito, attesa la insufficienza di prova in ordine all’integrità della merce, anche a dare esclusivo credito alle dichiarazioni dei testi B. e R., le modalità di distruzione della merce non apparivano tali, in relazione al numero degli episodi accertati, da giustificare la più grave delle sanzioni disciplinari tenuto conto che non erano stati dedotti analoghi fatti commessi in precedenza dal C. nè comportamenti pregressi tali da denotare una particolare indole alla insubordinazione.

Avverso questa sentenza la società in epigrafe ricorre in cassazione sulla base di sette censure.

Resiste con controricorso il C. il quale propone impugnazione incidentale condizionata assistita da un unico motivo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorsi vanno preliminarmente riuniti riguardando la impugnazione della stessa sentenza.

Con il primo motivo del ricorso principale la società, deducendo violazione dell’art. 2119 c.c. e art. 221 e 212 CCNL per il commercio, pone, ex art. 366 bis c.p.c., il seguente quesito: “si chiede che la Corte di Cassazione stabilisca che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, alla fattispecie sia applicabile il principio secondo cui ai fini della valutazione della giusta causa di licenziamento invocata dal datore di lavoro per la condotta tenuta dal lavoratore dipendente, consistente nella distruzione da parte sua di merce di proprietà aziendale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2119 c.c. e degli artt. 221 e 212 CCNL per il commercio 2004, sia irrilevante la circostanza che la merce stessa sia integra o già danneggiata”.

Il motivo con il quale si fa riferimento ad una determinata interpretazione delle norme contrattuali che si assume corretta, contrastante con l’interpretazione, ritenuta errata, data dal giudice di merito, è inammissibile a norma dell’art. 366 n. 6 epe, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 5.

Invero questa Corte ha ritenuto (Cass. S.U. 2 dicembre 2008 n. 28547, Cass. S.U. 23 settembre 2009 n. 20535 e Cass. S.U. 25 marzo 2010 n. 7161) che il requisito previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6 il quale sancisce che il ricorso deve contenere a pena d’inammissibilità la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, per essere assolto, “postula che sia specificato in quale sede processuale il documento è stato prodotto, poichè indicare un documento significa necessariamente, oltre che specificare gli elementi che valgono ad individuarlo, allegare dove nel processo è rintracciabile”. La causa di inammissibilità prevista dal nuovo art. 366 c.p.c., n. 6, ha chiarito inoltre questa Corte, è direttamente ricollegata al contenuto del ricorso, come requisito che si deve esprimere in una indicazione contenutistica dello stesso. Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, in quanto quest’ultimo sia un atto prodotto in giudizio, richiede che si individui dove è stato prodotto nelle fasi di merito e, quindi, anche in funzione di quanto dispone l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, prevedente un ulteriore requisito di procedibilità del ricorso, che esso sia prodotto in sede di legittimità.

Applicando tali principi, che il Collegio in questa sede intende ribadire, al caso di specie emerge che non risulta specificata in quale sede processuale è rinvenibile l’accordo collettivo sul quale la censura si fonda (da ultimo in tali sensi V. Cass. 24 febbraio 2011 n. 4530).

Con il secondo motivo del ricorso principale la società denuncia vizio di motivazione ed indica quale fatto controverso la omessa motivazione delle ragioni per le quali la Corte di Appello ha ritenuto che per configurare giusta causa di recesso occorre il presupposto della integrità della merce preventivamente alla distruzione.

La critica non è fondata.

Infatti la Corte del merito movendo dal presupposto che al lavoratore è stato “sostanzialmente contestato di aver proceduto alla distruzione di taluni articoli che in realtà danneggiati non erano, e ciò, secondo l’assunto della società appellante, al solo fine di arrecare un pregiudizio all’azienda e di tenere una condotta apertamente ostile e di disprezzo nei confronti del datore di lavoro …”, coerentemente ritiene che, difettando la prova della integrità della merce, viene meno anche la dimostrazione del fatto posto a base del licenziamento e cioè la distruzione di merce integra.

Si tratta di un iter argomentativo privo di salti logici e giuridicamente corretto.

Con la terza censura del ricorso principale la società, allegando violazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 5 formula, ex art. 366 bis c.p.c. cit., il seguente quesito: “si chiede che la Corte di Cassazione stabilisca che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, alla fattispecie sia applicabile il principio secondo cui al datore di lavoro incomba l’onere di provare, in virtù della L. n. 604 del 1966, art. 2697, comma 1 e dell’art. 5, il fatto costitutivo della giusta causa, rappresentato dalla distruzione da parte del lavoratore dipendente di merce di proprietà aziendale durante l’orario di lavoro, alla presenza di altri col leghi e con modalità vandaliche, mentre incomba sul lavoratore medesimo, ai sensi dell’art. 2697, comma 2, l’onere di provare fatti impeditivi, modificativi o estintivi, e dunque l’eventuale prevenitiva condizione di danneggiamento della merce distrutta”.

La censura non è fondata.

Infatti premesso, come rilevato in precedenza, che la Corte del merito assume che sostanzialmente è stato addebitato al lavoratore di aver proceduto alla distruzione di merce che non era danneggiata ed essendo questo il fatto posto a base del licenziamento, è giuridicamente corretto onerare, L. n. 604 del 1966, ex art. 5 il datore di lavoro della dimostrazione di tale circostanza che rappresenta, appunto,nella struttura argomentativa della Corte del merito, il presupposto in base al quale la società ha proceduto al licenziamento.

Con la quarta critica del ricorso principale la società, denunciando violazione dell’art. 2727 c.c., comma 2, pone, ex art. 366 bis c.p.c. cit., il seguente quesito: “si chiede che la Corte di Cassazione stabilisca che, contrariamente a quanto operato dal giudice di appello,questi, dai fatti noti e pacifici rilevati e riportati in sentenza, costituiti dallo stiramento delle confezioni di merce distrutte in scatoloni e conservati m magazzini, dall’integrità nei medesimi scatoloni, dalla repentinità dei gesti commessi dal dipendente che non potevano consentirgli una preventiva verifica dell’eventuale preesistente danneggiamento della merce, avrebbe dovuto trarre preventivamente la prova, ai sensi dell’art. 2727 c.c., comma 2, della integrità della merce distrutta”.

La critica non è fondata.

E’ principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo il quale spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (V. per tutte Cass. 21 ottobre 2003 n. 15737 e Cass. 27 ottobre 2010 n. 21961).

Non è configurabile, di conseguenze, la dedotta violazione di legge circa il mancato ricorso da parte del giudice del merito alle presunzioni semplici.

Nè è dedotto al riguardo un vizio di motivazione.

Con il quinto motivo del ricorso principale la società, denunciando vizio di motivazione, sostiene che la Corte di Appello ha in parte travisato o omesso di prendere in considerazione molte delle circostanze emerse dalle deposizioni testimoniali circa la prova dello stato nel quale versava la merce precedentemente la distruzione.

L’assunto non è condivisibile.

Va premesso che per costante giurisprudenza il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti, in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico-giurìdico posto a base della decisione adottata. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (cfr. ex plurimis da ultimo: Cass. 6 marzo 2008 n. 6064). E nella stessa ottica i giudici di legittimità hanno altresì precisato che nel caso in cui nel ricorso per cassazione venga prospettato come vizio di motivazione della sentenza una insufficiente spiegazione logica relativa all’apprezzamento, operato dal giudice di merito, di un fatto principale della controversia, il ricorrente non può limitarsi a prospettare una possibilità o anche una probabilità di una spiegazione logica alternativa, essendo invece necessario che tale spiegazione logica alternativa del fatto appaia come l’unica possibile (cfr. in tali sensi: Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267 e Cass. 27 luglio 2008 n. 20499).

Sulla base di tali principi non possono trovare ingresso in questa sede le censure in esame che, a fronte di una valutazione delle risultanze istruttorie sorretta da congrua motivazione, la quale da conto del percorso logico seguito dai giudici di appello per addivenire alla conclusione secondo la quale non può ritenersi accertato che il collo e la merce prelevata dall’espositore erano integri, si limitano a ipotizzare una diversa ricostruzione dei fatti.

Del resto, e vale la pena di sottolinearlo, la società ricorrente, trascrive nel ricorso, in violazione della regola dell’autosufficienza, solo alcuni passaggi delle dichiarazioni dei testi di cui lamenta la errata valutazione di guisa che, anche sotto questo profilo, non è consentito a questa Corte alcun sindacato di legittimità sulla censurata valutazione delle emergenze istruttorie.

Con il sesto motivo del ricorso principale la società, sostenendo violazione dell’art. 2119 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7 e della L. n. 604 del 1966, art. 2 articola, ex art. 366 bis c.p.c. cit., il seguente quesito: “si chiede che la Corte di Cassazione stabilisca che, contrariamente a quanto operato dal giudice di appello, la contestazione dell’addebito formulata dalla società qui ricorrente era idonea, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2 a far valere l’illeceità della condotta tenuta dal lavoratore sotto il profilo della grave violazione delle norme regolamentari ed a ritenere la rilevanza ai fini della giusta causa o del giustificato motivo del recesso”.

Il motivo non è esaminabile.

Infatti nella struttura motivazionale della sentenza impugnata la mancata contestazione dell’addebito concernente la violazione delle norme regolamentari relative alla procedura da osservare per la “svalorizzazione dei pezzi danneggiati” non costituisce un punto decisivo. Si afferma, invero nella sentenza di appello, che “Nè è idonea giustificare il recesso la dedotta mancata puntuale osservanza della procedura poichè a prescindere dalla omessa contestazione di tale addebito e dalla tardiva modalità di esecuzione di tale procedura da parte del C.” è emerso che nella prassi si procedeva alla svalorizzazione senza una puntuale osservanza della procedura prevista dal regolamento.

L’omessa contestazione della violazione della procedura regolamentare in esame, pertanto, non costituisce la ratio decidendi della sentenza impugnata e, quindi, la violazione di legge dedotta con la censura in esame su detta questione non è decisiva e come tale non è esaminabile in sede di legittimità.

Con la settima censura si prospetta vizio di motivazione per omesso esame di tutte le risultanze istruttorie.

La censura è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c. cit..

Non può, difatti, ritenersi soddisfi la prescrizione di cui al citato art. 366 bis c.p.c. la mera indicazione del fatto su cui si appunta la critica concernente il vizio di motivazione, atteso che oltre al mero fatto il ricorrente deve indicare, in una sintesi riassuntiva simile al quesito di diritto, le ragioni che rendono, in caso d’insufficienza, inidonea la motivazione a giustificare la decisione, in caso di omissione, decisivo il difetto di motivazione e in caso di contraddittorietà, non coerente la motivazione (cfr.

Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556, Cass. 3.U. 18 giugno 2008 n. 16528 e Cass . S.U. 1 ottobre 2007 n. 2063).

Sulla base delle esposte considerazione, in conclusione, il ricorso principale va rigettato.

Il ricorso incidentale condizionato, relativo alla omessa motivazione in ordine alla eccepita tardività ex art. 175 del CCNL della comunicazione del provvedimento disciplinare, rimane assorbito.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente principale in virtù del principio di soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito l’incidentale condanna la società ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro tremilaquaranta/00 di cui Euro tremila/00 per onorario oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2011

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