Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15163 del 22/07/2016


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Cassazione civile sez. VI, 22/07/2016, (ud. 08/03/2016, dep. 22/07/2016), n.15163

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.A., rappresentata e difesa, per procura speciale in

calce al ricorso, dall’Avvocato Carlo Rienzi, presso lo studio del

quale in Roma, viale delle Milizie n. 9, è elettivamente

domiciliata;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Prefetto pro

tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, è

domiciliato per legge;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte d’appello di Perugia n. 458/2014,

depositato il 7 marzo 2014.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’8

marzo 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per il ricorrente, l’Avvocato Gino Giuliano, per delega

dell’Avvocato Carlo Rienzi.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che, con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Perugia il 15 marzo 2013, G.A. chiedeva la condanna del Ministero dell’economia e delle finanze al pagamento dei danni non patrimoniali derivati dalla irragionevole durata di un giudizio iniziato dinnanzi al TAR Lazio nel 2005, dichiarato perento con decreto del 19 settembre 2012;

che il consigliere designato della Corte d’appello rigettava la domanda sul rilievo che non risultava depositata la documentazione prevista dalla L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 3, nel termine concesso ai sensi del medesimo art. 3, comma 4;

Che avverso questo decreto la G. proponeva opposizione della L. n. 89 del 2001, ex art. 5-ter; che la Corte d’appello, in composizione collegiale, rigettava l’opposizione, ritenendo che, quand’anche la ricorrente avesse depositato tutta la documentazione prescritta, ciò non di meno doveva escludersi ogni pregiudizio dalla irragionevole durata del giudizio presupposto risultando che la ricorrente era stata esclusa dal corso di laurea specialistica in scienze delle professioni sanitarie ed ostetriche per l’anno accademico 2004-2005 per mancanza dei requisiti di ammissione; circostanza, questa, dalla quale doveva desumersi che la ricorrente avesse perso ogni interesse alla decisione nel merito della causa, come del resto era confermato dal fatto che la stessa ricorrente si era iscritta nel 2006 ad un master universitario, incompatibile con la partecipazione al corso di laurea specialistica e dalla mancata attivazione di strumenti sollecitatori per la definizione del giudizio;

che per la cassazione di questo decreto la G. ha proposto ricorso sulla base di un unico articolato motivo;

che il Ministero ha resistito con controricorso;

che la ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;

che con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia “vizio di motivazione. Violazione art. 360 c.p.c., comma 1, punto 3, per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ed in particolare violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1. Violazione dell’art. 6, par. 1” della CEDU, “sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole, violazione e falsa applicazione del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2008, n. 113, così come modificato al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 3, comma 23 all. 4”, dolendosi, in primo luogo, del fatto che la Corte d’appello abbia, con disinvoltura, modificato illegittimamente l’oggetto della decisione ed abbia ammesso altresì che la documentazione sollecitata dal consigliere designato era stata depositata, senza tuttavia trarne le debite conseguenze in punto di eliminazione della condanna alle spese applicata con il decreto monocratico di rigetto della domanda;

che la ricorrente censura poi il decreto impugnato per avere la Corte d’appello deciso la causa sulla base di un elemento – l’esito del giudizio presupposto – che certamente non può incidere sul diritto all’equa riparazione ma, eventualmente, solo sull’entità della liquidazione dell’indennizzo;

che, prosegue la ricorrente, secondo la giurisprudenza di legittimità la dichiarazione di perenzione non vale, del pari, ad escludere il diritto all’indennizzo;

che nella memoria depositata in prossimità dell’udienza la ricorrente ha poi sottoposto all’esame della Corte la recente decisione resa dalla Prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di inidoneità dello strumento sollecitatorio costituito dall’istanza di prelievo nel giudizio amministrativo ad assicurare la effettività della tutela del diritto alla ragionevole durata del processo (Corte europea dei diritti dell’uomo – Sez. 1, 25 febbraio 2016, Olivieri);

che il ricorso è infondato e va rigettato;

che deve innanzi tutto essere disattesa la doglianza della ricorrente in ordine al fatto che la Corte d’appello, in sede di opposizione ex art. 5-ter, abbia rigettato la domanda per una ragione diversa da quella indicata dal consigliere designato nel decreto monocratico, dando anzi atto della erroneità delle ragioni addotte in tale decreto;

che, invero, con la proposizione dell’opposizione, sia pure ad opera della stessa parte che ha agito in equa riparazione, si instaura un giudizio a contraddittorio pieno, nel quale le parti possono svolgere le proprie richieste e difese, e nel quale il destinatario della domanda può per la prima volta opporsi alla richiesta formulata nei suoi confronti;

che da quanto riferito dalla stessa ricorrente emerge che ciò è quello che si è verificato nel caso di specie, avendo il Ministero intimato, costituitosi nel giudizio di opposizione, contestato la sussistenza stessa del diritto della parte all’equa riparazione;

che, dunque, ben poteva la Corte d’appello esaminare i profili di infondatezza della domanda inerenti al giudizio presupposto e alla inesistenza di un concreto interesse alla conclusione e all’esito di quel giudizio;

che, per quanto attiene ai profili inerenti al merito della decisione impugnata, deve rilevarsi che la Corte d’appello ha congruamente illustrato le ragioni in base alle quali doveva presumersi la insussistenza di un pregiudizio non patrimoniale e ciò a prescindere dalla non qualificabilità come temeraria della domanda svolta nel giudizio presupposto;

che, invero, nella valutazione della Corte d’appello ha assunto rilievo decisivo la circostanza – che si riferisce non essere stata contestata dalla ricorrente – della mancanza dei requisiti necessari ai fini dell’ammissione al corso di laurea specialistica;

che trattasi di argomentazione di per sè idonea a giustificare la decisione di rigetto della domanda di equa riparazione, rispetto alla quale le ulteriori valutazioni in ordine alla impossibilità di svolgere un giudizio di temerarietà della domanda nel giudizio presupposto nell’ambito del giudizio di equa riparazione considerazioni che non possono essere condivise alla luce del principio affermato da Cass. n. 21131: “in tema di irragionevole durata del processo, l’elenco dei casi di esclusione dell’indennizzo di cui della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, non è tassativo, sicchè l’indennizzo può essere negato a chi abbia agito o resistito temerariamente nel giudizio presupposto, anche se in questo non sia stata emessa la condanna per responsabilità aggravata cui si riferisce il comma 2-quinquies, lett. a)”, così come quelle relative alla mancata attivazione degli strumenti sollecitatori e alla definizione del giudizio con decreto di perenzione, assumono il rilievo di argomentazioni di contorno, con la conseguenza che la loro erroneità non può condurre all’accoglimento del ricorso;

che, d’altra parte, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, lett. a), come modificata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, e poi dalla L. n. 208 del 2015, “non è riconosciuto alcun indennizzo: 1) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all’articolo 96 del codice di procedura civile; (…)”;

che non avendo costituito il riferimento alla mancata attivazione degli strumenti sollecitatori la ratio decidendi del decreto della Corte territoriale, risulta non rilevante, nel presente giudizio, la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. 1, del 25 febbraio 2016, invocata dalla ricorrente nella memoria a sostegno delle proprie tesi difensive, a prescindere dal fatto che tale decisione, in quanto adottata da una Sezione non può essere ritenuta definitiva e quindi vincolante nei confronti dei giudici nazionali;

che deve, da ultimo, rilevarsi la insussistenza della dedotta erroneità del decreto impugnato per avere mantenuto ferma la condanna al pagamento della somma di 1.000,00 Euro in favore della Cassa delle ammende, atteso che tale condanna può essere disposta, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 5-quater, per il caso in cui la domanda di equa riparazione risulti inammissibile o sia rigettata perchè manifestamente infondata;

che questa Corte ha dichiarato “manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., l’eccezione d’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 5 quater, in quanto, senza alcun automatismo, rientra nel potere discrezionale del giudice valutare se sussistono i presupposti per disporre una sanzione pecuniaria a carico della parte nelle ipotesi di declaratoria di inammissibilità o rigetto della domanda per manifesta infondatezza e la previsione di detta sanzione, pur costituendo un deterrente rispetto alla proposizione dell’azione, è compatibile con i parametri costituzionali ed in particolare con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che, per realizzarsi concretamente, presuppone misure volte a ridurre i rischi di abuso del processo” (Cass. n. 5433 del 2016);

che il ricorso va quindi rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, come liquidate in dispositivo;

che, risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al T.U. approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 8 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2016

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