Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15160 del 31/05/2021

Cassazione civile sez. I, 31/05/2021, (ud. 26/02/2021, dep. 31/05/2021), n.15160

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26236/2016 proposto da:

C.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via Sardegna n.

17, presso lo studio dell’avvocato Altieri Giuseppe, che lo

rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Google Italy S.r.l., Google Inc., in persona dei rispettivi legali

rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in Roma,

Piazza Venezia n. 11, presso lo Studio Legale Hogan Lovells,

rappresentate e difese dagli avvocati Mansani Luigi, Masnada

Massimiliano, giusta procura speciale alle liti per Notaio Pia

Victor di Sacramento (Stato di California – USA), munito di

Apostille n. 47603 del 19.12.2016;

– controricorrente –

contro

Garante per la Protezione dei Dati Personali, in persona del legale

rappresentante pro tempore, domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi

n. 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato, che lo rappresenta

e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5640/2016 del TRIBUNALE di MILANO, pubblicata

il 17/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/02/2021 dal cons. VALITUTTI ANTONIO;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto

Procuratore Generale SANLORENZO RITA che chiede respingersi ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso depositato il 31 luglio 2015, C.F. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, Google Italy s.r.l., Google inc. ed il Garante per la protezione dei dati personali, chiedendo l’annullamento del provvedimento n. 335 del 4 giugno 2015, emesso dal Garante, con il quale era stata rigettata la richiesta del ricorrente di deindicizzazione di talune pagine web, relative ad articoli contenenti – a detta del ricorrente – notizie diffamatorie nei confronti del C., che incidevano, di conseguenza, in senso negativo anche sull’affidabilità della società Eurocontrol s.r.l. di Vibo Valentia, della quale il medesimo è amministratore unico. Gli articoli in questione, invero, riportavano secondo la prospettazione dell’istante – il contenuto di talune intercettazioni telefoniche tra affiliati a clan mafiosi della Calabria, nelle quali si faceva riferimento al C. come soggetto in grado di aiutarli nei loro progetti, intervenendo presso le istituzioni.

1.1. Il provvedimento emesso dall’Autorità Garante si fondava sulla considerazione che negli articoli in questione l’interessato non risultava sottoposto ad indagine, nè ad esso erano imputati comportamenti illeciti, e rilevava che le notizie riportate in detti articoli erano recenti (pubblicate tra il 2013 ed il 2014) e rivestivano un interesse pubblico, poichè riguardavano un’indagine giudiziaria di rilievo nazionale.

1.2. Il Tribunale adito, con sentenza n. 5640/2016, depositata il 17 maggio 2016, dichiarava il difetto di legittimazione passiva di Google Italy s.r.l., l’inammissibilità della domanda proposta da C.F. quale amministratore unico della Eurocontrol s.r.l., e rigettava, nel merito, la domanda proposta, valorizzando il rilievo pubblicistico del ricorrente, tale da comportare un certo grado di esposizione mediatica, il fatto che gli articoli non addebitavano al medesimo fatti illeciti e che non era trascorso un lasso di tempo particolarmente lungo per il maturarsi del diritto all’oblio.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha, quindi, proposto ricorso C.F. nei confronti di Google Italy s.r.l., di Google inc. e del Garante per la protezione dei dati personali, affidato a due motivi. I resistenti hanno replicato con controricorso. Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, C.F. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 102 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

1.1. Si duole il ricorrente del fatto che il Tribunale abbia accolto l’eccezione di difetto di legittimazione passiva proposta da Google Italy s.r.l., per essere titolare del servizio Google Web Search esclusivamente Google inc. In una precedente decisione, invero, lo stesso Tribunale di Milano aveva riconosciuto come infondata tale eccezione in forza dell'”atto di nomina 2010″, con il quale Google inc. avrebbe designato Google Italy s.r.l. quale propria rappresentante in Italia, sicchè quest’ultima – in quanto rappresentante della prima, ai sensi dell’art. 5 del codice della privacy – sarebbe fornita di legittimazione a resistere alla domanda proposta in giudizio dal C..

1.2. Il motivo è inammissibile.

1.2.1. I requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, e trascrivendone – almeno nei punti essenziali – o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (ex plurimis, Cass. Sez. U., 27/12/2019, n. 34469; Cass., 13/11/2018, n. 29093).

1.2.2. Nel caso concreto, il ricorrente si è limitato a richiamare una precedente sentenza del Tribunale di Milano che si fonderebbe su un documento, “atto di nomina del 2010”, il cui contenuto non è stato in alcun modo trascritto nel ricorso, neppure in parte, al fine di consentire alla Corte di stabilirne la decisività. La censura è, pertanto, inammissibile.

2. Con il secondo motivo di ricorso, C.F. denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 2,7,11,99,102,150 e 152, nonchè il vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

2.1. Osserva il ricorrente che l’impugnata sentenza sarebbe incorsa nella violazione delle succitata norme del codice della privacy, nonchè dei principi affermati dalla normativa Europea e dalle decisioni della Corte di Giustizia, nonchè dalla giurisprudenza nazionale ed Europea, laddove il reticolo normativo di riferimento ed il relativo formante giurisprudenziale avrebbero avuto lo scopo essenziale di “contrastare la formazione di biografie arbitrarie e fuorvianti, attraverso l’indicizzazione incontrollata di articoli presenti sulla rete”. Certo la sussistenza di un innegabile interesse pubblico al reperimento di informazioni in tempo brevissimo, con il supporto delle nuove tecnologie ed accedendo ai dati raccolti con l’utilizzo di parole chiave, comporta il sacrificio – entro determinati limiti giusto ed accettabile – dei diritti alla riservatezza e dei diritti ad essa connessi, come il diritto all’oblio.

Ma, dal momento che ogni libertà fondamentale trova i propri limiti nell’altrui libertà, il punto nodale dell’utilizzazione dei database offerti dai motori di ricerca, nella specie Google, è costituito – ad avviso del ricorrente – dal reperimento del giusto equilibrio tra le esigenza di informazione del pubblico e quelle di correttezza e salvaguardia, non solo della privacy, ma anche del diritto all’identità personale. Al riguardo andrebbe considerato che “la indicizzazione degli articoli riguardanti il soggetto interessato e costituenti l’ossatura della sua biografia telematica avvengono al di fuori di un meccanismo di controllo e selezione, ma sono affidati ad un sistema informatico e per questo neutro e insensibile”. In altri termini, il motore di ricerca costituisce un mero intermediario telematico, che offre un servizio di fruizione della rete “limitandosi a rendere accessibili sul sito web i dati dei cd. “siti sorgente”, ai quali si può accedere, proprio perchè trasposti nel database, mediante la sola digitalizzazione di parole chiave.

2.2. Nel caso concreto, il Tribunale non avrebbe considerato incorrendo, non solo nelle suindicate violazioni di norme e principi, ma nell’adozione di uno schema motivazionale affetto da illogicità manifesta – che una cosa è la raccolta e la conservazione dei dati, che risponde all’interesse pubblicistico all’informazione, un’altra è la “indicizzazione”, ossia “la riunione di articoli sotto il richiamo a parole chiave con portata di significato negativo”, come, nel caso di specie, “criminalità, ‘ndrangheta, boss”. Sotto tale profilo, avrebbe errato il giudice di merito a verificare esclusivamente il tempo di permanenza del dato nell’archivio informatico, in tal modo riducendo il diritto all’oblio ad un mero dato temporale, laddove il diritto in questione andrebbe correlato al fondamentale diritto all’identità personale, che vieta l’attribuzione al soggetto interessato di una biografia personale difforme da quella reale.

Il Tribunale non avrebbe, invero, considerato che la domanda del ricorrente non era limitata solo al diritto all’oblio, ma era anche diretta a far accertare – sulla scia delle pronunce in materia della giurisprudenza Europea, ed in particolare della sentenza della Corte di Giustizia, 13 maggio 2014, nella causa C- 131/12, Costeja – la prevalenza, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, da accordarsi “al diritto all’identità personale dell’interessato rispetto al diritto del motore di ricerca a rendere maggiormente fruibili, attraverso la indicizzazione, le informazioni contenute negli articoli contestati”.

2.3. Di più, il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento imporrebbe – a parere dell’istante – che il sacrificio dei diritti fondamentali suindicati sia ammissibile solo se il soggetto, i cui dati vengono conservati e resi ostensivi mediante la ricerca informatica semplificata, “riveste una posizione che per ragioni dell’ufficio ricoperto comporti un’esposizione mediatica, ovvero quando il medesimo rivesta una carica pubblica, per essere chiamato ad un incarico elettivo o remunerato con i fondi pubblici”, mentre il ricorrente, imprenditore “in un settore di mercato di nicchia”, noto solo agli addetti ai lavori, sarebbe del tutto privo di tale notorietà.

2.4. Il motivo è fondato.

2.4.1. Va premesso che nel disegno personalistico – lo Stato è a servizio della persona, non viceversa – e pluralista prefigurato dalla Costituzione, l’art. 2 non può che essere interpretato se non come una norma di apertura, fonte e catalogo – come è stato incisivamente affermato da autorevole dottrina – di una “Costituzione culturale”, e ad essa vanno, pertanto, ricondotti una serie di diritti della persona, sia che essi siano previsti da norme di legge ordinaria, sia che debbano enuclearsi dal sistema, come per i diritti – in considerazione nella vicenda oggetto di esame – all”identità personale ed all’oblio. Al soggetto giuridico, quale destinatario neutro ed indifferenziato della regola giuridica, astratto centro di imputazione di situazioni giuridiche (la capacità giuridica di ciascuno soggetto si acquista con la nascita, recita l’art. 1 c.c.), subentra, dunque, nel sistema la persona, quale fonte primaria di valori; ma la persona intesa non astrattamente, bensì nella individualità delle sue qualità soggettive e sociali (Cass. Sez. U., 16/02/2009, n. 3677, secondo cui nel danno non patrimoniale rientra qualsiasi ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, garantito dall’art. 2 Cost.).

2.4.2. Orbene, la persona si individua anzitutto per certe caratteristiche esteriori. Viene, pertanto, in primis in considerazione il “diritto all’immagine”, enucleabile dall’art. 10 c.c., artt. 96 e 97 della legge sul diritto di autore, che prevedono il diritto al ritratto, che può essere pubblicato solo con consenso della persona ritratta (Cass. 06/05/2010, n. 10957; Cass., 29/01/2016, n. 1748).

2.4.3. Viene, poi, in considerazione, poi, il cd. “diritto all’identità personale”, il cui fondamento normativo è ravvisabile sempre nell’art. 2 Cost., e che viene costruito – nelle elaborazioni della dottrina e nelle decisioni della giurisprudenza – come immagine sociale del soggetto, e non come idea meramente soggettiva che ciascuno abbia del proprio io; immagine costituita da quel coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali, ecc.) che caratterizzano una determinata persona, e che questa non vuole vedere alterato o travisato all’esterno. Tale diritto confluisce (insieme a quelli all’immagine, alla riservatezza, al nome ed alla reputazione) nella previsione dell’art. 2 Cost., ossia nel valore unitario della persona, ed ha il proprio apparato di tutela negli artt. 6,7,10 e 2059 c.c. e nelle previsioni della legge sul diritto di autore, applicabili in via diretta e non analogica, in virtù di un’interpretazione adeguatrice di tali norme al precetto costituzionale (Cass. 31/07/2015, n. 16222).

2.4.4. Nel valore “persona”, protetto dall’art. 2 Cost., confluisce, quindi, il “diritto alla riservatezza”. Conosciuta dagli ordinamenti anglosassoni da tempo (fin dalla fine dell’800), nella forma della cd. privacy, o right to be let alone. La tutela del riserbo trova oggi un fondamento normativo in un reticolo di testi legislativi nazionali ed internazionali: la L. n. 339 del 1958, art. 6 (obbligo di riservatezza del lavoratore domestico), la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 6, con riferimento alla riservatezza del lavoratore, 22 aprile 1941, n. 633, artt. 93 e 95 (legge sul diritto di autore), che tutelano l’intimità delle corrispondenze epistolari, la L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 5, con riferimento alla riservatezza della donna in caso di interruzione della gravidanza, 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU), che tutela il “rispetto della vita privata e familiare”, artt. 2,14 e 15 Cost., artt. 614 e ss. c.p..

2.4.5. Ciò posto, non può revocarsi in dubbio che il problema fondamentale che si pone con riferimento a tali diritti, è costituito dal contemperamento tra libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost. 10 CEDU, e 10 Carta di Nizza) ed il diritto alla privacy ed all’identità personale (art. 2 Cost. ed art. 8 CEDU), poichè vengono in considerazione – al riguardo – atti non ingiuriosi o diffamatori, bensì attività informative che comunque invadono la libertà altrui. Al riguardo, si è affermato che tra il diritto all’informazione ed i diritti della persona alla reputazione ed alla riservatezza, il primo – se correlato ad un effettivo interesse pubblico all’informazione tendenzialmente prevale sui secondi, attesa, ex art. 1 Cost., comma 2, la funzionale correlazione dell’informazione con l’esercizio della sovranità popolare, che solo in presenza di una opinione pubblica compiutamente informata può correttamente dispiegarsi, ed alla luce anche della legislazione ordinaria (in particolare il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 12) che, appunto, riconduce reputazione, identità e privacy nell’alveo delle eccezioni rispetto al generale principio di tutela dell’informazione (Cass., 09/07/2010, n. 16236).

E tuttavia, non si è mancato di osservare che, nelle controversie in cui si configura una contrapposizione tra due diritti, aventi entrambi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il cd. criterio di “gerarchia mobile”, dovendo il giudice procedere di volta in volta, ed in considerazione dello specifico thema decidendum, all’individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di un’equilibrata comparazione tra diritti in gioco, volta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico (Cass., 05/08/2010, n. 18279).

2.4.6. Sul versante opposto a quello del diritti di informare e di essere informati (art. 21 Cost. e 10 CEDU), in relazione a fatti e notizie di pubblico interesse, si colloca, per vero, già prima dell’avvento delle Costituzioni moderne, il diritto dei singoli al riserbo ed all’oblio, per quel che concerne le vicende passate. Sotto tale profilo, la norma dell’art. 2 della nostra Cost., crea immediatamente, con riferimento alla persona, una distanza da ogni astrazione, propria del soggetto di diritto, per la rilevanza attribuita al legame sociale, alla realtà delle “formazioni sociali” nelle quali si realizza la costruzione della personalità, in modo tale che sia garantita la “pari dignità sociale” della persona ed il suo libero sviluppo, anche in una prospettiva evolutiva. La dignità presuppone invero, innegabilmente, il rispetto, da parte delle formazioni sociali (prima fra tutte lo Stato), della sfera personale riservata della persona, del diritto di ciascuno ad essere lasciato solo, a non essere menzionato in pubblico, ad essere dimenticato.

Se la nozione giuridica di personalità, implicita nell’art. 2 Cost., dà luogo, dunque, ad un concetto dinamico, è evidente che il diritto all’oblio, strettamente connesso a quello alla riservatezza ed al rispetto della propria identità personale, ma in una prospettiva evolutiva, si traduce nell’esigenza di evitare che la propria persona resti cristallizzata ed immutabile in un’identità legata ad avvenimenti o contesti del passato, che non sono più idonei a definirla in modo autentico o, quanto meno, in modo completo. Il diritto all’oblio “pensato” e definito dalla giurisprudenza come diritto a non subire gli effetti pregiudizievoli della ripubblicazione, a distanza di tempo, pur legittimamente diffusa in origine, ma non più giustificata da nuove ragioni di attualità – deve oggi scontare, sul piano applicativo, e segnatamente su quello del bilanciamento degli interessi, la possibilità di conservare in rete notizie, anche risalenti, spesso superate da eventi successivi, e perciò inattuali.

In tal senso lo strumento della “deindicizzazione” – sul quale si ritornerà – è divenuto, nella prassi giurisprudenziale (oggi espressamente avallata dalla previsione dal “diritto alla cancellazione”, denominato nel titolo anche “diritto all’oblio”, previsto dall’art. 17 del Regolamento UE 2016/679, non applicabile ratione temporis alla fattispecie concreta), lo strumento applicabile ogni qual volta l’interesse all’indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto all’esigenza di tutela dell’identità personale, nel senso dinamico suindicato. In tal modo viene evitato il rischio di quella che è stata definita in dottrina la “biografia ferita”, ossia il rischio della “cristallizzazione della complessità dell’Io in un dato che lo distorce o non lo rappresenta più”.

2.4.7. Il tutto si gioca, dunque, sul tavolo del bilanciamento tra valori che si fronteggiano. Ed in tale prospettiva di “gerarchia mobile”, che vede – a seconda del contesto fattuale – prevalere ora l’una ora l’altra esigenza di tutela, si è posta, da ultimo anche autorevole dottrina, che ha elaborato, al riguardo, uno quadripartizione di tipi di casi – “una sorta di scansione per Fallgruppen” – evidenziando, del tutto opportunamente, che “la decisione di bilanciamento va presa alla luce di un solerte apprezzamento di tutte le circostanze allo stato significative”. In via di estrema sintesi, si è rilevato che può, in concreto, accadere, che: a) in assenza di un interesse pubblico attuale, debba prevalere l’aspirazione del soggetto interessato al controllo dei propri dati personali; b) il conflitto coinvolga, invece, un interesse pubblico specifico ed attuale, ed allora troverà spazio l’opposta soluzione di pubblicare o ripubblicare i dati del soggetto; c) ci si trovi in presenza di un dataset documentario, inteso a raccogliere informazioni a fini di ricerca, per esigenze storiografiche, o altro, ed allora il diritto alla rimozione dei dati diventa recessivo, ma l’interessato avrà a diposizione l’opportunità di coltivare una istanza di contestualizzazione, volta all’aggiornamento del dato; d) la notizia diffusa sia inequivocabilmente falsa (fake news), ed allora – fatta salva in alternativa, ove concretamente percorribile, una possibilità di smentita – la cancellazione dall’archivio informatico potrà essere inevitabile.

2.4.8. In tale prospettiva si è sostanzialmente mossa la giurisprudenza sia nazionale che Europea. Quest’ultima ha avuto, per vero, più volte modo di pronunciarsi su tali questioni, fornendo, al riguardo, strumenti interpretativi indispensabili ed ineludibili, ai fini di una corretta decisione in ordine al menzionato bilanciamento degli interessi in gioco nella vicenda processuale in esame.

2.4.8.1. In una vicenda concernente il trattamento di dati personali da parte di un motore di ricerca (Google Spain), la Corte di Giustizia ha, invero, affermato che siffatta attività “può incidere significativamente sui diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali”, atteso che – muovendo dal nominativo di una persona – è possibile, per qualsiasi utente di Internet, accedere ad una visione complessiva strutturata delle informazioni relative a quella persona presenti in rete. Il che impone la ricerca di un giusto equilibrio tra l’interesse degli utenti di Internet all’informazione ed i diritti fondamentali della persona, previsti dagli artt. 8 della CEDU e 7 e 8 della Carta di Nizza, nonchè dall’art. 12, lett. b) e art. 14, comma 1, lett. a) della Direttiva 95/46/CE, relativa alla tutela delle persone fisiche. E ciò con particolare riferimento ai casi nei quali – come in quello oggetto della pronuncia, concernente un pignoramento effettuato nei confronti di un cittadino spagnolo, interamente definito da svariati anni e la cui menzione era ormai priva di qualsiasi rilevanza – sussiste un diritto dell’interessato all’oblio su determinati fatti o vicende che non rivestono più interesse alcuno per il pubblico.

Orbene, la Corte ha affermato che gli art. 12, lett. b), e art. 14, comma 1, lett. a), della direttiva 95/46 devono essere interpretati nel senso che, nel valutare i presupposti di applicazione di tali disposizioni, si deve verificare in particolare se l’interessato abbia diritto a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, per il tempo decorso, collegata al suo nominativo da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome. E ciò a prescindere dal fatto che l’inclusione dell’informazione in questione in tale elenco arrechi un pregiudizio a detto interessato. Per cui, considerato che quest’ultimo può, sulla scorta dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza, chiedere che l’informazione in questione – divenuta ormai non più di interesse apprezzabile per la collettività – non venga più messa a disposizione del grande pubblico in virtù della sua inclusione in un siffatto elenco di risultati, i diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse del pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona.

L’unica eccezione a tale affermata prevalenza dei diritti fondamentali della persona interessata, e segnatamente del diritto all’oblio, è stata ravvisata dalla Corte nella sola ipotesi in cui “risultasse, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi” (Corte Giustizia, 13/05/2014, C- 131/12, Costeja).

2.4.8.2. In una successiva pronuncia, la Corte EDU – con riferimento ad una vicenda nella quale un cittadino tedesco, che rivestiva una posizione politica ed imprenditoriale di grande rilievo in Germania, aveva chiesto la cancellazione dal Web dei dati informativi relativi ad un episodio di collusione con la criminalità russa risalente a diversi anni prima, ripubblicati a distanza di diversi anni dalla stampa – ha ritenuto che l’interesse del pubblico all’informazione prevalesse su quello del singolo all’oblio, ma sulla base di specifici e tassativi criteri, la cui sussistenza deve essere sempre riscontrata, ai fini di riconoscere siffatta prevalenza.

In primo luogo, deve – per vero – sussistere il contributo dell’articolo ad un “dibattito di interesse pubblico”, in relazione al “grado di notorietà del soggetto”; requisito questo ritenuto dalla Corte sussistente nel caso concreto, in quanto – pur trattandosi di una notizia risalente nel tempo – erano emersi nuovi sospetti a carico del medesimo individuo, molto noto al pubblico trattandosi di un uomo di affari molto impegnato anche in politica. Occorre, poi, avere riguardo alle “modalità impiegate per ottenere l’informazione” ed al “contenuto della pubblicazione”, che devono, non soltanto riferirsi a notizie vere, accertate come tali sulla base di “fonti affidabili e verosimili”, ma devono essere altresì non eccedenti rispetto allo scopo informativo. E tali sono state ritenute nel caso di specie, avendo la Corte accertato che dette modalità erano “prive di (…) insinuazioni o considerazioni personali”, e che il giornale aveva informato l’interessato dell’imminente pubblicazione dell’articolo, per consentirgli di esercitare il suo diritto di replica prima della divulgazione della notizia (Corte EDU, 19/10/2017, Fuschsmann c/o Germania).

2.4.8.3. Da ultimo, la Corte di Giustizia di Lussemburgo è intervenuta con due pronunce nella stessa data.

2.4.8.3.1. Con una prima sentenza la Corte ha affermato che le

disposizioni dell’art. 8, paragrafi 1 e 5, della direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali sensibili, nonchè alla libera circolazione di tali dati (concernenti l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, l’appartenenza sindacale, il trattamento di dati relativi alla salute e alla vita sessuale, eventuali condanne penali) devono essere interpretate nel senso che – in relazione ad informazioni relative a un procedimento giudiziario di cui è stata oggetto una persona fisica ed alla condanna che ne è conseguita, rientranti nell’art. 8, paragrafo 5, della suddetta direttiva – il gestore di un motore di ricerca è tenuto ad accogliere una richiesta di deindicizzazione vertente su link verso pagine web, nelle quali compaiono le suddette informazioni, quando queste ultime si riferiscono ad una fase precedente del procedimento giudiziario considerato e non corrispondono più, tenuto conto dello svolgimento di quest’ultimo, alla situazione attuale.

E ciò nei limiti in cui si constati, nell’ambito della verifica dei motivi di interesse pubblico rilevante di cui all’art. 8, paragrafo 4, della stessa direttiva, che, tenuto conto di tutte le circostanze pertinenti della fattispecie, i diritti fondamentali della persona interessata, garantiti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, prevalgono su quelli degli utenti di Internet potenzialmente interessati, protetti dall’art. 11 di tale Carta (Corte Giustizia, 24/09/2019, C- 136/17, GC).

2.4.7.3.2. In una secondo pronuncia, la Corte ha affermato che l’art. 12, lett. b), e l’art. 14, comma 1, lettera a), della direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonchè alla libera circolazione di tali dati, e l’art. 17, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonchè alla libera circolazione di tali dati, devono essere interpretati nel senso che il gestore di un motore di ricerca, quando accoglie una domanda di “deindicizzazione” in applicazione delle suddette disposizioni, è tenuto ad effettuare tale deindicizzazione non in tutte le versioni del suo motore di ricerca, ma nelle versioni di tale motore corrispondenti a tutti gli Stati membri dell’Unione.

E ciò, se necessario, in combinazione con misure che, tenendo nel contempo conto delle prescrizioni di legge, permettono effettivamente di impedire agli utenti di Internet, che effettuano una ricerca sulla base del nome dell’interessato a partire da uno degli Stati membri, di avere accesso, attraverso l’elenco dei risultati visualizzato in seguito a tale ricerca, ai link oggetto di tale domanda, o quantomeno di scoraggiare seriamente tali utenti. E ciò, in quanto, pur se il legislatore dell’Unione, nell’art. 17, paragrafo 3, lett. a), del regolamento 2016/679, ha effettuato un bilanciamento tra tale diritto e tale libertà per quanto concerne l’Unione, si deve necessariamente constatare che, d’altro lato, esso non ha, allo stato attuale, proceduto a tale bilanciamento per quanto riguarda la portata di una “deindicizzazione” al di fuori dell’Unione (Corte Giustizia, 24/09/2019, C- 507/17, Google LLC).

2.4.8.4. Con una terza – successiva – pronuncia, in data 3 ottobre 2019, la Corte di Giustizia ha stabilito che la direttiva 2000/31/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (“direttiva sul commercio elettronico”), in particolare il suo art. 15, paragrafo 1, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a che un giudice di uno Stato membro possa: a) ordinare a un prestatore di servizi di hosting di “rimuovere” le informazioni da esso memorizzate e il cui contenuto sia identico a quello di un’informazione precedentemente dichiarata illecita o di bloccare l’accesso alle medesime, qualunque sia l’autore della richiesta di memorizzazione di siffatte informazioni; b) ordinare a un prestatore di servizi di hosting di “rimuovere” le informazioni da esso memorizzate e il cui contenuto sia equivalente a quello di un’informazione precedentemente dichiarata illecita o di bloccare l’accesso alle medesime, purchè la sorveglianza e la ricerca delle informazioni oggetto di tale ingiunzione siano limitate a informazioni che veicolano un messaggio il cui contenuto rimane sostanzialmente invariato rispetto a quello che ha dato luogo all’accertamento d’illeceità e che contiene gli elementi specificati nell’ingiunzione e le differenze nella formulazione di tale contenuto equivalente rispetto a quella che caratterizza l’informazione precedentemente dichiarata illecita non siano tali da costringere – in tal modo ostacolandone significativamente l’attività da svolgere – il prestatore di servizi di hosting ad effettuare una valutazione autonoma di tale contenuto; c) ordinare a un prestatore di servizi di hosting di “rimuovere” le informazioni oggetto dell’ingiunzione o di bloccare l’accesso alle medesime a livello mondiale, nell’ambito del diritto internazionale pertinente (Corte Giustizia, 03/10/2019, C -18/18, Eva Glawischnig-Piesczek).

2.4.9. Nella più recente giurisprudenza di questa Corte – che, dopo le prime pronunce che hanno affermato per la prima volta la sussistenza di un diritto all’oblio (cfr Cass., 09/04/1998, n. 3679; Cass., Cass., 26/06/2013, n. 16111), ha ulteriormente approfondito ed affinato la riflessione sul tema – si è statuito che, con riferimento alla conservazione di dati contenuti in registri tenuti da soggetti pubblici (nella specie una Camera di Commercio), istituzionalmente finalizzati a consentire l’accesso della collettività a fatti e vicende concernenti gli operatori economici – ed alla stregua di quanto chiarito, al riguardo dalla decisione della Corte di Giustizia, 9/3/2017, C- 398, Manni -, in tema di trattamento dei dati personali, ai sensi dell’art. 8 della CEDU nonchè degli artt. 7 e 8 della cd. “Carta di Nizza”, l’interessato non ha diritto ad ottenere la cancellazione dei dati iscritti in un pubblico registro ed è legittima la loro conservazione. Ma ciò esclusivamente allorquando essa sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui (Cass., 09/08/2017, n. 19761).

2.4.10. Muovendo dal suesposto quadro normativo – desumibile dal menzionato reticolo di norme nazionali (art. 2 Cost., art. 10 c.c., L. n. 633 del 1941, art. 97) ed Europee (artt. 8 e 10, comma 2 CEDU, 7 e 8 della Carta di Nizza – e giurisprudenziale di riferimento, la Corte di Cassazione – facendo un pò il punto sulla questione – ha, poi, affermato che il diritto fondamentale all’oblio può subire una compressione, a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti, che devono essere presenti nella vicenda concreta: 1) il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; 2) l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali), da reputarsi mancante in caso di prevalenza di un interesse divulgativo o, peggio, meramente economico o commerciale del soggetto che diffonde la notizia o l’immagine; 3) l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica e, segnatamente, nella realtà economica o politica del Paese; 4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera (poichè attinta da fonti affidabili, e con un diligente lavoro di ricerca), diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell’interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; 5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al grande pubblico. In assenza di tali presupposti – tutti o parte di essi, a seconda delle peculiarità della fattispecie concreta – la pubblicazione di una informazione concernente una persona determinata, a distanza di tempo da fatti ed avvenimenti che la riguardano, non può che integrare, pertanto, la violazione del fondamentale diritto all’oblio, come configurato dalle disposizioni normative e dai principi giurisprudenziali suesposti (Cass., 20/03/2018, n. 6919).

2.4.11 Successivamente – investite dall’ordinanza di rimessione n. 28084/2018 – le Sezioni Unite si sono nuovamente pronunciate affrontandone peraltro solo alcuni specifici profili – sulla questione del diritto all’oblio, affermando che, in tema di rapporti tra diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all’oblio) e diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito – ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a tale rievocazione, che è espressione della libertà di stampa e di informazione protetta e garantita dall’art. 21 Cost. – ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita “solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito”. In caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva. (La fattispecie esaminata era relativa ad un omicidio commesso ventisette anni prima, il cui responsabile aveva scontato la relativa pena detentiva e si era reinserito positivamente nel contesto sociale) (Cass. Sez. U., 22/07/2019, n. 19681).

2.4.12. Il formante giurisprudenziale relativo al tema si è, infine, ulteriormente arricchito per effetto di due recenti pronunce di questa Corte. Con la prima, si è affermato che è lecita la permanenza di un articolo di stampa nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di cronaca giudiziaria, che abbiano ancora un interesse pubblico di tipo storico o socio-economico, purchè l’articolo sia “deindicizzato” dai siti generalisti e reperibile solo attraverso l’archivio storico del quotidiano. In tal modo viene, invero, a contemperarsi – in modo bilanciato – il diritto ex art. 21 Cost. della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda degli eredi di un imprenditore deceduto, tesa ad ottenere la cancellazione dall’archivio “on line” di un quotidiano, dell’articolo che si riferiva ad inchieste giudiziarie in ordine a fatti penalmente rilevanti commessi dal defunto (Cass., 27/03/2020, n. 7559).

Nella secondo pronuncia, si è statuito che il diritto all’oblio consiste nel non rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato. E tuttavia, la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica. Sicchè nel caso di notizia pubblicata sul web, il medesimo interesse pubblico può trovare soddisfazione anche nella sola “deindicizzazione” dell’articolo dai motori di ricerca. Nella fattispecie concreta, questa Corte ha, pertanto, cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel disporre senz’altro la cancellazione della notizia relativa ad una vicenda giudiziaria mantenuta “on line”, non aveva operato il necessario bilanciamento tra il diritto all’oblio e quelli di cronaca giudiziaria e di documentazione ed archiviazione (Cass., 19/05/2020, n. 9147).

2.4.13. Tutto ciò premesso, va osservato che, nel caso concreto, ai principi suesposti non si è conformato il giudice di merito. L’impugnata sentenza concreta, invero, una evidente violazione degli artt. 2, 4 (contenente la definizione di ciò che deve intendersi per “dato”), 7 ed il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, nel testo applicabile ratione temporis. L’art. 2, comma 1, del decreto succitato, stabilisce, infatti: “Il presente testo unico, di seguito denominato “codice”, garantisce che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonchè della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali”.

Ai sensi dell’art. 7, comma 3, “L’interessato ha diritto di ottenere: (…) b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati”. L’art. 11, prevede, infine, che “I dati personali oggetto di trattamento sono: (…) d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati”.

2.4.14. Orbene, dal complessivo quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento si evince – in maniera inequivocabile – che il diritto all’oblio va considerato, atteso il comune fondamento nell’art. 2 Cost., in stretto collegamento con i diritti alla riservatezza ed all’identità personale. Nel bilanciamento tra l’interesse pubblico all’informazione, anche mediante l’accesso a database accessibili attraverso la digitalizzazione di una parola chiave, ed i diritti della personalità suindicati, il primo diviene recessivo allorquando la notizia conservata nell’archivio informatico sia illecita, falsa, o inidonea a suscitare o ad alimentare un dibattito su vicende di interesse pubblico, per ragioni storiche, scientifiche, sanitarie o concernenti la sicurezza nazionale. Tale ultima esigenza presuppone, peraltro, la qualità di personaggio pubblico del soggetto al quale le vicende in questione si riferiscono. In difetto di almeno uno di tali requisiti, la conservazione stessa della notizia nel database è da reputarsi illegittima, e lo strumento cui l’interessato può fare ricorso è la richiesta di “cancellazione” dei dati, alla quale il prestatore di servizi, nella specie Google, è tenuto a dare corso, anche in forza delle menzionate sentenze delle Corti Europee.

Nelle ipotesi in cui sussiste, invece, un interesse pubblico alla notizia, l’interessato, i cui dati non siano indispensabili – non rivestendo il medesimo la qualità di un personaggio pubblico, noto a livello nazionale – ai fini della attingibilità della notizia sul database, può richiedere ed ottenere la “deindicizzazione”, in tal modo bilanciandosi il diritto ex art. 21 Cost., della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale (Cass., n. 7559/2020).

In siffatta ipotesi, sussiste, invero, un diritto dell’interessato ad evitare che la possibilità di un accesso agevolato, protratto nel tempo, ai dati personali, attraverso il mero uso di una parola chiave possa ledere il suo diritto all’oblio, inteso in correlazione al diritto all’identità personale, come diritto a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica diversa da quella reale, e costituente oggetto di notizie ormai archiviate e superate.

2.4.15. Nel caso di specie, il Tribunale ha dato atto che il C. aveva chiesto in giudizio, sia la “cancellazione” di determinati URL dal risultato dei motori di ricerca, sia la “deindicizzazione”, che impedisce – come detto – che, digitando una parola chiave, affiorino dal motore di ricerca i dati da questo attinti dai “siti sorgente”, che possono pregiudicare il diritto dell’interessato a non vedersi attribuite certe frequentazioni o certe qualità deteriori. E tuttavia, pur considerando la domanda di cancellazione “sproporzionata ( ) rispetto all’obiettivo perseguito dal ricorrente che si sostanzia nell’eliminazione dell’automatica emersione degli articoli all’inserimento del suo nome”, non ha poi contraddittoriamente ed incongruamente – considerato la non essenzialità, ai fini dell’interesse pubblico alla conoscenza di fatti criminosi commessi nella realtà calabrese, del permanere dell’indicizzazione degli URL, partendo dal nome dell’interessato, combinato con termini come “‘ndrangheta”, “massoneria”, “boss”. Tanto più che dalla riproduzione degli articoli contenuta nella sentenza impugnata, non si evince – sebbene i fatti ivi riportati siano stati accertati come veritieri – alcun coinvolgimento concreto ed effettivo del C. in procedimenti penali per fatti di criminalità organizzata.

2.4.16. La sentenza, pertanto, non si sottrae neppure alla censura – al di là dell’impropria intestazione del motivo che fa riferimento a parametri non più contenuti nel novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – di vizio di motivazione, apparendo la decisione in esame anche fortemente carente sul piano motivazionale. Ed invero, oltre ai rilievi che precedono, va soggiunto che la notorietà del C., peraltro esclusivamente a livello locale, è stata utilizzata dal Tribunale fondandosi su elementi, come le attività filantropiche e di beneficenza che, ben al contrario, avrebbero dovuto essere logicamente valorizzati ai fini di escludere la necessità del permanere dell’indicizzazione dei documenti in questione, che mettevano in luce – senza alcun positivo elemento di – riscontro aspetti della personalità del soggetto interessato in contrasto con le qualità del medesimo emerse nel giudizio.

1.4.17. Al riguardo, il Tribunale si è, altresì, limitato a considerare esclusivamente il diritto all’oblio – che nella specie riguardava il diritto del C. a non vedersi reiteratamente associato, semplicemente digitando il proprio nome, a fatti ai quali si considerava estraneo – sotto il mero profilo temporale, non ponendolo in raccordo con il diritto alla riservatezza e con quello all’identità personale, al quale è strettamente collegato, e comunque non tenendo conto – del tutto incongruamente – che le intercettazioni, dalle quali gli articoli avevano desunto la fonte delle notizie riferite, risalivano comunque a cinque anni prima della decisione assunta.

2.4.18. Per tutte le ragioni esposte, pertanto, il secondo motivo di ricorso deve essere accolto. L’impugnata sentenza va, di conseguenza cassata con rinvio della causa al Tribunale di Milano in diversa composizione, che dovrà effettuare un nuovo esame della fattispecie, attenendosi ai principi di diritto suesposti. Il giudice di rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; rinvia la causa al Tribunale di Milano in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Dispone, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, che in caso di diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.

Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2021

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