Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15144 del 16/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 16/07/2020, (ud. 10/09/2019, dep. 16/07/2020), n.15144

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20849/2017 R.G. proposto da:

DSV s.p.a., (già Saima Avandero s.p.a.), in persona del L.R. pro

tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Giovanni Scarpa e

Claudio Lucisano, presso i quali è domiciliata in Roma, via

Crescenzio 91;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in persona del direttore pro

tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Campania n. 6892/47/16, depositata in data 15/7/2016, non

notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 settembre

2019 dal Consigliere Adet Toni Novik.

Fatto

1. L’Agenzia delle dogane e dei monopoli ha notificato alla DSV s.p.a. (già Saima Avandero s.p.a.), quale coobbligata solidale, un invito di pagamento concernente IVA all’importazione per l’anno 2005. L’atto scaturiva dalla confutazione del ricorso al regime del deposito IVA, da essa gestito nell’interesse della Kuvera s.p.a, utilizzato, a dire dell’ufficio, in modo virtuale, ossia senza la materiale introduzione della merce. La contribuente ha impugnato l’atto. La Commissione tributaria provinciale ha accolto il ricorso; quella regionale ha respinto l’appello dell’ufficio, facendo leva, in fatto, sulla inidoneità delle dichiarazioni rese, senza ulteriori riscontri, alla polizia tributaria dai terzi per affermare una responsabilità del contribuente, nonchè valorizzando l’archiviazione disposta nei confronti dei legali rappresentanti delle società.

2. La Corte di cassazione, adita dalla società, con Ordinanza n. 15982/15 del 10/6/2015 ha cassato la sentenza di secondo grado e rinviato per nuovo esame, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Campania richiedendo “un compiuto accertamento della fisicità dell’introduzione nel deposito, al fine di verificare se sussistessero, o no, i presupposti per il differimento dell’obbligo di pagamento dell’imposta sino all’estrazione dei beni. In quella sede, il giudice di merito verificherà altresì se, sia stato, o no, comunque, eseguito il meccanismo dell’inversione contabile ai fini dell’assolvimento dell’imposta; circostanza, questa, che, contrariamente a quanto dedotto in controricorso, non si può ritenere come acquisita perchè non contestata, giacchè la sentenza impugnata non ne fa parola, nè logicamente la postula”. Formulava il seguente principio di diritto: “Al fine di evitare l’immediato assolvimento dell’imposta sul valore aggiunto per l’immissione in consumo di beni non comunitari immessi in libera pratica, occorre che la loro introduzione nei depositi fiscali istituiti ai fini IVA sia fisica e non soltanto virtuale”.

3. Con sentenza n. 6892/47/2016, depositata il 15 luglio 2016, la Commissione tributaria regionale della Campania (CTR), pronunciando in sede di rinvio, accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle dogane e dei monopoli. A fondamento di questa decisione, la CTR: -riteneva accertato in base alle evidenze probatorie disponibili che la merce in contestazione non era mai transitata nel deposito IVA della società e che l’introduzione era stata virtuale; considerava che, in mancanza di documentazione contabile ufficiale, “la sola emissione delle autofatture da parte dei soggetti estraenti non può costituire un elemento sufficiente per provare la effettiva liquidazione periodica dell’Iva”, atteso che la società importatrice aveva prodotto “i soli registri IVA vendite, ma non quelli degli acquisti, senza il prospetto di liquidazione di fine anno”.

4. La contribuente propone ricorso avverso questa sentenza, per ottenerne la cassazione, che affida a due motivi, illustrati da memoria, cui reagisce l’Agenzia delle dogane e dei monopoli con controricorso.

Diritto

1. Con il primo motivo, la società eccepisce la violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., in prospettiva dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non aver la C.T.R. adempiuto all’onere imposto dalla sentenza rescindente di accertare in fatto l’avvenuta emissione di autofattura e la sua registrazione nei registri degli acquisti e delle vendite; l’affermazione contenuta nella sentenza secondo cui la mera autofatturazione dell’IVA interna all’atto dell’estrazione della merce solo virtualmente inserita nel deposito IVA non era idonea a trovare l’assolvimento, sia pur tardivo, dell’IVA all’importazione contraddiceva il principio di diritto enunciato dalla cassazione.

Con il secondo motivo, la società eccepisce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e ss., – del D.L. n. 331 del 1993, art. 50-bis, conv. in L. n. 427 del 1993, – del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 17, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che dai documenti contabili prodotti e dagli accertamenti della Guardia di Finanza, confluiti nel processo verbale di constatazione, emergeva la corretta contabilizzazione di tutte le autofatture emesse dalla società importatrice, con le relative annotazioni effettuate sui IVA degli acquisti e delle vendite.

I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono fondati. La Corte di giustizia, nella causa Equoland, richiamata nella sentenza impugnata, ha osservato che la violazione dell’obbligo formale d’introduzione fisica delle merci nel deposito “non ha comportato, perlomeno nel procedimento principale, il mancato pagamento dell’IVA all’importazione poichè questa è stata regolarizzata nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile applicato dal soggetto passivo” (punto 37), stabilendo che “la sesta direttiva dev’essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, essa osta ad una normativa nazionale in forza della quale uno Stato membro richiede il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione sebbene la medesima sia già stata regolarizzata nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile, mediante un’auto fatturazione e una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo” (punto 49 e dispositivo). Ha, dunque, inequivocabilmente postulato che l’IVA all’importazione e l’IVA intracomunitaria sono la stessa imposta, pur se assoggettate a termini ed a modalità diverse di riscossione. In piena sintonia con la giurisprudenza comunitaria, questa Corte ha di recente ribadito che “In tema d’IVA, riguardo alle operazioni intracomunitarie ed al meccanismo del “reverse charge”, come chiarito dalla giurisprudenza comunitaria, il diritto alla detrazione, che assicura la neutralità fiscale dall’imposta, deve essere accordato ove ne siano rispettati i requisiti sostanziali, anche ove taluni obblighi formali siano stati violati, salvo che da ciò consegua l’effetto d’impedire la prova dell’adempimento dei requisiti sostanziali (Sez. 5, n. 4612/2016, Rv. 639034 – 01).

Su queste premesse, nella sentenza impugnata si rinviene la dedotta violazione dei principi di diritto enunciati dalla Corte di cassazione: la società riportando alle pagine 9-10 il contenuto del processo verbale di constatazione, ha dato conto che in esso si leggeva che “la Kuvera S.p.A. al fine di dare forma all’esecuzione all’estrazione dei beni dal deposito IVA ha emesso le dovute autofatture mediante le quali ha assoggettato al tributo Iva il valore delle merci precedentemente importate e cartolarmente introdotte nel deposito in questione. Pertanto il soggetto economico che proceda all’estrazione dei beni è obbligato ad assolvere il tributo Iva attraverso il conosciuto meccanismo delle “reverse-charge” previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, comma 3″, annotando l’autofattura nel registro delle fatture emesse e in quello degli acquisti.

Sicchè, è indubbio che la CTR, in ossequio al principio di diritto, avrebbe dovuto valutare che nel p.v.c. era attestata la corretta registrazione delle autofatture nei registri contabili.

Su un piano diverso che, nella fattispecie, non viene in rilievo si pone l’indebito differimento del pagamento dell’IVA che può dar luogo all’applicazione di sanzioni.

4. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con l’accoglimento della domanda introduttiva della società.

5. Le spese del giudizio di merito vanno compensate, tenuto conto delle oscillazioni giurisprudenziali sulla questione al momento dell’instaurazione della controversia. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della società; compensa fra le parti le spese del giudizio di merito; condanna la controricorrente al pagamento in favore della ricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 7.000 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% dei compensi, oltre accessori.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2020

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